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Coca e guerriglia tra il bacino amazzonico e il basso pacifico colombiano

La ricostruzione etnostorica del caso della Cienaga Grande di Santa Marta ci consente di addentrarci in un’ermeneutica della violenza, dalla quale emergono alcuni elementi che difficilmente verrebbero evidenziati dalla tradizionale analisi macroscopica del conflitto armato colombiano. Una dialettica delle continuità e delle discontinuità, che traspaiono dalla ricostruzione storica ed etnografica, ci permette inoltre di individuare i diversi livelli analitici che, nel loro insieme, partecipano alla comprensione della complessità del conflitto. Attraverso questa archeologia del significato affiorano alcuni elementi trasversali che ciclicamente riemergono nel tempo e nello spazio, alimentando il continuum della violenza in Colombia. Uno di questi leitmotiv può essere individuato nelle differenti economie di predazione, che storicamente hanno accompagnato i ricorrenti fenomeni di violenza massiva sperimentati dal paese.

In questo capitolo verrà analizzata, in una prospettiva di lunga durata, la “circolarità della bonanza” nel bacino amazzonico e nel basso pacifico colombiano. Due macroregioni che rappresentano una roccaforte storica delle FARC-EP e in cui convergono tutti quegli elementi che in Colombia hanno tradizionalmente partecipato alla formazione di un particolare ecosistema, ideale per la proliferazione del conflitto armato. In quest’area geografica si concentra anche la maggiore estensione di coltivazioni di coca del mondo, rappresentando il punto di partenza di quell’economia di morte transnazionale che negli ultimi quarant’anni ha alimentato la guerra colombiana. La convergenza di tutti questi fattori consente di far emergere alcuni elementi paradigmatici del conflitto ed in particolare la relazione, apparentemente indissolubile, che in Colombia intercorre tra economie predatorie, controllo del territorio e fenomeni di violenza massiva. Inoltre, la circostanza che queste regioni abbiamo per lunghi decenni rappresentato un baluardo della lotta guerrigliera nel paese, consente di esplorare – dopo il caso di espansione paramilitare della Cienaga Grande de Santa Marta – la quotidianità che caratterizza la vita della popolazione civile nelle zone d’influenza delle FARC-EP.

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Nelle pagine seguenti verranno proposti i risultati di una ricerca di campo compiuta nel 2015, durante un progetto di appoggio agli Accordi di Pace dell’Avana, implementato dall'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e la ONG Corpovisionarios. Come coordinatore di una delle missioni di campo sono riuscito ad entrare in diverse zone sotto il controllo delle FARC-EP, in un periodo antecedente alla smilitarizzazione del gruppo guerrigliero. In questo contesto sono state compiute ricerche qualitative in diversi municipi delle regioni amazzoniche del Putumayo, del Guaviare e del Vaupés e nell’area meridionale della costa pacifica colombiana. Tutte le zone in questione sono caratterizzate da un’impervia geografia e – ad eccezione del Putumayo – sono raggiungibili esclusivamente attraverso sgangherati voli charter e lunghi tragitti in barca, che permettono di aggirare la fitta ed impenetrabile giungla circostante. Il filo conduttore che accomuna la parabola di queste vaste regioni del paese è rappresentato dalla comune condizione di oblio istituzionale, dall’alta presenza di gruppi armati – in particolare le FARC-EP – e da un’accentuata

narcoestetica, tradizionalmente veicolata attraverso differenti economie predatorie.

L’oro e i pappagalli

Il miraggio di facili ed enormi ricchezze fu uno dei motori che spronarono l’opera di conquista del continente americano. Come osservato da Todorov, questo immaginario emerge nitidamente fin dalle prime spedizioni di Cristoforo Colombo. Esemplare al riguardo l’interpretazione che l’esploratore genovese diede ad un’epistola inviatagli nel 1495 da Jaime Ferrer, nella quale l’illustre cosmografo lo informava di come «la maggior parte delle cose buone vengono da terre molto calde ove gli abitanti sono negri o pappagalli»426. Per l’ammiraglio questi elementi divennero indizi inconfutabili dell’abbondante presenza d’oro nelle nuove terre “scoperte”. In questa prospettiva la semiotica di Colombo sembra gettare le basi di un immaginario destinato, tra innumerevoli rotture e metamorfosi, a marcare una longeva continuità nella storia colombiana: un modello in nuce di quelle eterogenee economie predatorie che ciclicamente ne hanno scandito la storia.

Attraverso questo particolare modello simbolico, il Nuovo Mondo divenne rappresentazione e feticcio di una calda e soffocante terra ignota, abitata da negri e pappagalli e dunque da quei “selvaggi” che, nell’immaginario spagnolo dell’epoca, rappresentavano l’antitesi della civiltà. Quest’esotico e disumanizzante miraggio divenne segno e prova della presenza di abbondanti ricchezze, trasformando il Nuovo Mondo in una terra di conquista. Questo paradigma è allegoricamente rappresentato dal mito dell’Eldorado, l’archetipo di una prassi economica, eretta su

      

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una depersonalizzante interpretazione dell’alterità, alimentata dalla visione di facili e smisurate ricchezze. Un modello di economia predatoria che attraversa obliquamente la storia coloniale e repubblicana colombiana, fino sfociare nel cruento conflitto armato che da diversi decenni sta vivendo il paese.

La febbre dell’oro spinse i conquistatori ad esplorare i più remoti anfratti del Nuevo Reino de Granada alla ricerca dell’Eldorado. Attraverso queste spedizioni, durante il periodo coloniale, vennero fondati una miriade di villaggi, ove gli schiavi passarono le proprie miserabili esistenze setacciando gli arenosi fondali dei fiumi, alla ricerca dell’anelato metallo. Questi avamposti minerari prendevano il nome di Reales de Mina ed in Colombia erano spesso ubicati sulle rive dei tortuosi corsi d'acqua che si ramificano lungo la fitta giungla della costa pacifica. Da Iscuandé, una di queste decadenti miniere, costellate d’oro e pappagalli, proviene il frammento di un poema anonimo del XVII secolo; un’ode alla resilienza che ci restituisce una sbiadita percezione della quotidianità che scandiva l’esistenza degli schiavi afro-discendenti nelle Reales de Mina coloniali: Anche se il mio padrone mi uccide / Alla miniera non vado, / io non voglio morire in una grotta. / Don Pedro è il tuo padrone: / lui ti comprò. / Si comprano le cose, / gli uomini, no! […] / Nella miniera brilla l’oro, / al fondo della grotta. / Il padrone si porta via tutto; / al negro lascia il dolore427.

Ancora oggi ad Iscuandé (Nariño) i discendenti degli schiavi, importati dal continente africano durante il periodo coloniale, continuano a setacciare le torbide acque dell’omonimo rio alla ricerca di qualche grammo del prezioso minerale. Gilberto, un uomo di una cinquantina d’anni con il quale ebbi modo di conversare nel 2015 durante una visita al villaggio, mi raccontò come tutt’oggi molti giovani decidano di dedicarsi a quest’attività, fondamentalmente a causa della mancanza di opportunità:

Molti ragazzini se ne vanno alla miniera illegale a cercare un modo di mantenersi, perché molti hanno già famiglia e per sostenerla si mettono nella giungla a lavorare con la batea, diventano “barequeros”

(minatori informali).

Oggi come allora, ad Iscuandé la miniera rappresenta una delle poche possibilità che si prospettano ai bambini e agli adolescenti di questi villaggi, sperduti nel mezzo della giungla che divide la cordigliera andina dalla costa pacifica colombiana. Luoghi di frontiera, totalmente sconnessi dal

      

427 “Aunque mi amo me mate/ a la mina no voy,/ yo no quiero morirme en un socavón./ Don Pedro es tu amo:/ él te

compró./- Se compran las cosas,/ a los hombres, no!/ [...] En la mina brilla el oro,/ al fondo del socavón./ El amo se lleva todo;/ al negro deja el dolor”. De Granda, G., 1977, Estudios sobre an área dialectal hispano-americana de

población negra. Las tierras bajas occidentales de Colombia, Bogotá, Caro v Cuervo, p. 263 e 306. In Castro, Carvajal,

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resto del paese e raggiungibili solo attraverso lunghi e costosi tragitti in barca, che permettono di penetrare quella fitta selva ove i canti dei pappagalli e il miraggio di un rio dorato, spinsero i primi

conquistadores alla ricerca del mitico Eldorado. A diversi secoli di distanza Iscuandé rimane un

decadente agglomerato di baracche inerpicato lungo le fangose rive del fiume, ove la febbre dell’oro continua a alimentare un’effimera economia di predazione che nel villaggio ha lasciato soltanto miseria e desolazione. Julián, un professore della pericolante scuola elementare di Iscuandé, racconta come:

Qua la miniera è un modo per tirare avanti…l’oro si estrae con un sistema manuale, artigianale: si cerca sulla riva del fiume, in un burrone o in dei buchi che si scavano nel terreno. Con un palo si smuove la roccia o la terra, ci si getta dell’acqua e con la batea si sciacqua finché non sale l’oro. L’oro vale poco, non è un’economia molto redditizia…chi si beneficia sono i commercianti, non il minatore. Le condizioni sono pessime…l’oro dà soldi perché il grammo sta a 80.000 pesos (circa 25 euro), però l’affare sta nelle mani di certi imprenditori che si sono presi il rio e la zona…sono come delle imprese private, ma non si sa se sono legali…

Al riguardo la testimonianza di Gilberto aggiunge alcuni interessanti dettagli:

Ci sono delle persone con molto denaro che hanno delle macchine grandissime, delle ruspe, con le quali cercano l’oro nei fiumi. In questo modo inquinano l’ambiente: muoiono i pesci, si seccano i torrenti…distruggono tutto. Sono delle macchine enormi…Per lo Stato sono illegali però, siccome c’è molta gente che fa la fame, per necessità gli permettono di rovinare la terra ed i fiumi, per conseguire un metallo così prezioso come l’oro. Dopo, con i danni che fanno queste macchine, rimane un deserto, non si può più coltivare, tutto si distrugge. Così si portano via l’oro e i nativi rimangono senza un luogo dove piantare il platano, le banane, il caffè…non rimane nulla.

Dalle parole di Gilberto emerge nitidamente la natura effimera di questa economia che, in una sconcertante soluzione di continuità, protrae l’antica consuetudine di sfruttare il sottosuolo e gli abitanti di queste terre, lasciando al villaggio soltanto contaminazione e desolazione. Julián spiega come queste imprese private vengano sistematicamente appoggiate dai gruppi armati:

L’economia dell’oro, come in tutta Colombia, è permeata dai gruppi armati. Un po’ di tempo fa, più o meno dal 1999, hanno iniziato anche con le coltivazioni illecite di coca. Tutto ciò fu accompagnato dai gruppi armati, da queste parti ci sono soprattutto FARC e ELN, anche se con il narcotraffico si misero pure i paramilitari. Molto dolore in queste terre…

Come in molte zone del paese alla bonanza dell’oro si affiancò il nuovo Eldorado della cocaina: un’economia di morte transnazionale che continua a mietere un numero impressionante di vittime a

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livello locale. Dai racconti di Julián traspaiono le difficoltà che comporta vivere in queste zone liminari, ove la legge guerrigliera si alterna alle sporadiche visite delle Forze Armate:

In generale la guerriglia qua esiste; la paura è che passi l’esercito facendo il suo lavoro e s’incontrino… iniziano a sparare e la gente rimane nel mezzo del fuoco incrociato… uno per salvarsi la vita deve scappare correndo. Il flagello è critico, comunità intere si sono sfollate...è una situazione complicata.

Qui ci sono state diverse prese del villaggio, la guerriglia ha espugnato la caserma di polizia varie volte. Un anno fa (2014) hanno fatto esplodere un artefatto esplosivo e due poliziotti hanno perso la vita. Molte volte lo fanno (la guerriglia) per far sentire che sono forti, oppure perché l’esercito gli ha catturato qualche unità, per vendetta. Una volta hanno collocato dell’esplosivo qua dietro: è morto un signore e dei bambini sono rimasti feriti. Anche l’esercito ha lasciato morti, sono morti dei bambini…alla fine da questa guerra tutti ne usciamo colpiti.

Una guerra veicolata dall’abbandono istituzionale e da un cinico immaginario che continua ad alimentare la violenza in Colombia. Come si è cercato di evidenziare nella prima parte dell’opera, l’archetipo di questo disumanizzante modello economico è rappresentato dal mito dell’Eldorado. Un immaginario predatorio che ha gettato le basi delle relazioni di potere coloniali, successivamente riprodotte dal sistema dell’hacienda, perlomeno fino al primo periodo repubblicano. In questo contesto potranno essere interpretati anche il processo di colonizzazione de Los Llanos Orientales, l’economia del caucciù nella regione amazzonica e la successiva bonanza degli smeraldi che, a partire dagli anni Settanta, aprirà le porte al remunerativo business della cocaina. Queste profondamente eterogenee manifestazioni economiche sono erette sul controllo violento del territorio e coincidono con un immaginario predatorio e una visione depersonalizzante dell’alterità.

Tutti questi elementi in Colombia vengono usualmente racchiusi nel generico termine di “bonanza”, un’espressione con la quale viene confusamente definita una remunerativa economia, alimentata dal saccheggio di una particolare risorsa, spesso fatalmente accompagnata da ciclici fenomeni di violenza. Al suo esaurimento fa puntualmente seguito una profonda desolazione e il luogo cade in decadenza, come nel caso di Macondo, che dopo la masacre de las bananeras si trasformò in un paese fantasma. Fato che l’immaginario villaggio narrato da Gabriel García Márquez condivide con il diafano municipio di Miraflores (Guaviare), la cui storia – accennata nel primo capitolo – avevamo momentaneamente lasciato in sospeso al termine della bonanza del caucciù, quando la località cascò nell’oblio, in attesa che il mito dell’eterno ritorno tornasse a farvi capolino.

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Miraflores e il sogno della coca: “bonanza” e “narcoestetica” nel mezzo della giungla del Guaviare

Negli anni Cinquanta arrivò a Miraflores un “paisa”, che ben presto venne battezzato dal villaggio con il soprannome di Mano de Cuca, per via delle dita della mano destra, storte a causa di una ferita da arma bianca causata da una rissa alcolica, durante gli anni della sua gioventù. Mano de Cuca si dedicava a qualsiasi cosa: quando era in voga il caucciù raccoglieva scarti per i maiali; poi fu commerciante al dettaglio, maestro in giochi d’azzardo, venditore di cose vecchie, barattatore e svezzato truffatore, capace di sopravvivere a qualsiasi epoca cattiva.

Quando iniziò la bonanza della coca, si dedicò a tempo completo al commercio, percorrendo il tragitto tra Miraflores e Yuruparí. Con la coca l’uomo progredì rapidamente: acquisì terra, aeroplano, pistola e abbandonò la donna indigena che lo aveva accompagnato durante i suoi anni difficili. Così si convertì in uno dei più importanti produttori di base di coca del Lagos del Dorado. Il nuovo magnate iniziò a ricevere dollari e pesos letteralmente a sacchi, che depositava sotto il suo letto, intagliato su misura con i migliori legnami. L’indigena che l’aveva accompagnato in epoca di povertà fu rispedita alla sua tribù, questo si, provvista di vestiti nuovi, calzature, radio e orologio da polso. Il rimpiazzo fu una meravigliosa prostituta bionda, di quelle del bordello “Omiso” di Miraflores, che venne portata alla sua tenuta come una regina. Mano de Cuca andava a pranzare a Villavicencio in aeroplano, perché nel villaggio non trovava i suoi piatti prediletti e usava le banconote da 2.000, quelle di maggiore valore a quei tempi, per fumare: dava fuoco al bigliettone e si accendeva la sigaretta, poi lo buttava sulla pista di modo che la gente lo raccogliesse. Queste sono solo alcune delle sue eccentricità. Durante una delle sue notti orgiastiche, pieno di whisky e tra le nebulose del crack, Mano de Cuca pregò a Dio: «Dio mio, perché non mi dai cinque minuti di povertà, per sapere cosa significa?». Questo Dio, che tutto ascolta e tutto dà, fu molto generoso e gli esaudì il desiderio: i suoi affari caddero in disgrazia e rimase per il resto della sua vita nella completa rovina. Mano de Cuca morì all’alba, in una panca della piazza principale di San José del Guaviare, abbandonato da tutti, nella povertà assoluta e con la coscienza di essere stato ricco per pochi minuti della sua vita. Morì di fame e fu sepolto per carità428.

La romanzesca storia di vita di Mano de Cuca ritrae con nitore alcuni elementi essenziali di quel particolare immaginario predatorio che, come si è cercato di evidenziare nelle pagine precedenti, riemerge ciclicamente lungo la storia colombiana. In questa prospettiva Miraflores rappresenta un luogo paradigmatico per l’analisi eziologica di questa circolarità della bonanza, che ha tradizionalmente accompagnato il continuum della violenza nel paese. Fondata al principio del XX secolo durante l’auge del caucciù, Miraflores passò da una bonanza all’altra fino a convertirsi, a

      

428 Testimonianza anonima, in Fernández Arias, O., (a cura di), 2013, Miraflores. 100 relatos cuentan su historia,

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partire dalla fine degli anni Settanta, in una delle maggiori capitali della cocaina del mondo. Questo isolato municipio del dipartimento del Guaviare sorge sulle sponde nordorientali del rio Vaupés, che come un serpente senza tempo penetra placidamente la fitta foresta amazzonica circostante. Il villaggio confina con la Reserva nacional natural Nukak, che ospita una delle ultime tribù nomadi del pianeta, rimasta praticamente incontattata fino alla fine degli anni Ottanta. Questa situazione di separatezza dal resto della Colombia ha permesso a Miraflores di rimanere in uno stato di abbandono istituzionale, che ancora oggi caratterizza la vasta selva del Guaviare meridionale. Il villaggio è raggiungibile soltanto attraverso diversi giorni di navigazione lungo il rio Vaupés o tramite degli sgangherati voli Douglas DC-3, un bimotore degli anni Trenta introdotto nella zona durante la bonanza del caucciù, che tutt’oggi, due volte a settimana, continua a sorvolare la giungla che separa Miraflores dal capoluogo San José del Guaviare. Miraflores dall’alto si presenta come una decadente baraccopoli delimitata dal fiume e da una lunga lingua di terra battuta strappata alla foresta circostante, ove atterrano i pericolanti voli charter.

Nel 2015, durante una lunga chiacchierata, a tratti interrotta da uno sferzante temporale amazzonico, Mauro, un uomo che giunse a Miraflores negli anni Settanta seguendo il sogno della cocaina, mi raccontò delle tre bonanze che scandirono la storia del villaggio:

Io arrivai a Miraflores il 21 di maggio dell’anno 1979. All’epoca Miraflores aveva la stessa estensione di oggi, la pista fu fondata nel 1930 per portar via il caucciù e si usavano già gli aerei DC-3. Passata la bonanza del caucciù vennero le pelli e a partire dal 1976 iniziò la bonanza della coca. All’epoca erano pochi quelli che coltivavano e sapevano qualcosa della chimica, poi la cosa si espanse e Miraflores arrivò ad essere il primo produttore di coca del mondo… La gente trasportava droga per la selva fino al Brasile o alle piste clandestine, da queste parti non esistevano controlli…

Dopo la bonanza del caucciù, in parte ricostruita nel primo capitolo, Miraflores cadde in una profonda depressione economica che venne momentaneamente soppiantata dalla liminare bonanza delle pelli, espressione con la quale viene usualmente definita la transitoria fase di bracconaggio del giaguaro ed altri animali amazzonici, che a Miraflores precedette il boom della cocaina. Al riguardo anche la testimonianza di Don Antonio, un coltivatore di coca originario della sierra, migrato nel Guaviare in cerca di fortuna, aggiunge alcuni dettagli sulla circolarità della bonanza che ha scandito la storia del villaggio:

Qua ci sono state varie bonanze: la prima fu quella del caucciù che nel 1930 diede origine al municipio di Miraflores; poi ci fu la bonanza delle pelli esotiche, che produsse un grave danno al medio ambiente, ma lei sa che il colombiano per natura è sempre stato depredatore per sopravvivere. Da li poi iniziò la coca: cominciarono a portare i semi dal Perù e a piantarli, poi si scoprì che anche qua c’è molta coca silvestre.

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Così si iniziò a lavorarla e venne portata la formula per processarla. Oggi qualsiasi persona a Miraflores sa come si lavora la coca, io stesso conosco la chimica.

La straordinarietà dell’ordinario in cui ha sempre vissuto Miraflores ha convertito la coca in una delle attività più comuni e diffuse del villaggio e la gente parla del tema con la disinvoltura con la quale un qualsiasi contadino parlerebbe dei problemi connessi alla coltivazione del caffè o delle patate. Don Antonio non si preoccupa minimamente di nascondere come nelle sue terre abbia

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