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Uno sguardo iniziale al fenomeno del desplazamiento

Il conflitto armato colombiano rappresenta l’ultima variante postmoderna di un sistema economico predatorio che da molto tempo caratterizza la storia di questo paese. Il motivo scatenante è sempre orbitato attorno alla gestione della terra e allo sfruttamento delle sue risorse. Il periodo coloniale ha gettato le basi di un modello che, pur essendo profondamente cambiato, nella sua essenza rimane pressoché immutato, continuando a far sgorgare sangue, in un territorio già da secoli saturo. Quest’archetipo è incarnato dal mito dell’Eldorado, un’utopia che narra d’immaginifiche città dorate e che promette, a coloro che sanno osare, facili ed enormi ricchezze; ricchezze però destinate a varcare i confini del paese dando il via a un’economia globale che gettò le basi del sistema economico capitalista. Oggi dell’oro sono rimaste le sole briciole e anche della popolazione natia, massacrata e schiavizzata dai colonizzatori, rimane ben poco. Quello che resta è il sogno di un guadagno facile, incarnato dal nuovo Eldorado della cocaina che, tramite un gioco di specchi e riflessi, unisce gli antichi colonizzatori spagnoli con i nuovi narcos colombiani; il metodo per realizzare questo sogno è rimasto sostanzialmente invariato e consiste nell’appropriarsi del territorio e delle sue risorse. Ne deriva un’economia di morte transnazionale che fornisce un prodotto globale ai mercati del primo mondo e che continua a mietere un numero impressionante di vittime a livello locale. Proprio delle vittime s’intende parlare in questo capitolo, soffermandosi ad analizzare il fenomeno del desplazamiento (sfollamento) forzato della popolazione civile dalle proprie terre, prodotto dallo stato di tensione che scaturisce dalle strategie di guerra implementate dai gruppi armati.

Alcune delle caratteristiche che hanno storicamente alimentato il conflitto armato colombiano, sembrano presentare alcune affinità con il macrocontesto bellico internazionale, sorto nel periodo immediatamente successivo alla fine della Guerra Fredda. Queste nuove guerre sono riconducibili, al di là delle specificità che possono contraddistinguere ogni singolo caso particolare o locale, ad

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alcune peculiarità fondamentali430. In molti casi questi conflitti non contrappongono due o più nazioni sovrane, ma implicano variegati protagonisti locali non convenzionali in disputa per il controllo del territorio e delle risorse e spesso hanno una matrice squisitamente economica, nonostante si cerchi di darle uno statuto ideologico, riconducibile a motivazioni etniche o politiche. Durante questo genere di scontri i gruppi armati attaccano direttamente la popolazione civile per ottenere chiari obiettivi bellici, per consolidare l’egemonia territoriale e per appropriarsi di risorse di vario genere. Sono economie di guerra transnazionali, o meglio economie che entrano nei mercati globali ma che agiscono a livello locale tramite deliberate e consapevoli strategie violente. Una drammatica conseguenza di questi “nuovi” conflitti è il vertiginoso aumento di persone sfollate nel mondo. Nel 2015 il numero complessivo di profughi sul pianeta ammontava a più di quaranta milioni431 e in Colombia, il totale di internally displaced person (IDP) era di circa 6.2 milioni di persone, equivalenti a più del 13% della popolazione432. Questi dati significano che in questo paese più di una persona su dieci ha dovuto lasciare le proprie terre a causa della guerra. Un fenomeno di massa che ha coinvolto circa il 90% dei municipi e che nel 2016 ha raggiunto una cifra stimata in 6.36 milioni di profughi, giocandosi con la Siria (6.1 milioni), la triste leadership di primo paese al mondo produttore di sfollati433. La Colombia dunque crea più del 15% dei desplazados mondiali,

empiricamente persone che, da un giorno all’altro, si vedono costrette ad abbandonare la propria terra a causa del conflitto. Il 95% degli sfollati vive sotto la soglia di povertà e il 75% si ritrova in condizioni di estrema indigenza434.

Le cifre parlano da sole e vanno messe in stretta relazione con i miliardi di dollari prodotti dal narcotraffico che, lavati dalle banche del primo mondo, rimpinguano le economie globali. La nordamericana banca Wachovia, per esempio, tra il primo maggio 2004 e il 31 maggio 2007, ha riciclato 378,3 miliardi di dollari provenienti da Casas de Cambio messicane e direttamente riconducibili al narcotraffico di cocaina435. Questa strategia di “finanza creativa” ha permesso a Wachovia di uscire dalla crisi economica pagando solo 110 milioni di dollari di multa alle autorità federali per aver consentito una serie di transazioni collegate al contrabbando di droga436. I soldi e la gestione del potere, sembrano giustificare qualsiasi cosa, comprese le condotte più violente. Il

desplazamiento forzato causa una strutturale condizione di povertà che difficilmente riesce ad       

430 Cfr. Kaldor, M., 1999, Le nuove guerre: la violenza organizzata nell'età globale, Roma, Carocci.

431 Cfr. IDMC, Global Statistics, http://www.internal-displacement.org/database / , controllato il 12 aprile 2017. 432 Ibáñez, A., M., 2009, El despazamiento forzoso en Colombia: un camino sin retorno hacia la pobreza, Bogotá,

Ediciones Uniandes, p. 2.

433 Cfr. IDMC, Global Statistics, http://www.internal-displacement.org/database / , controllato il 12 aprile 2017. 434 Ibáñez, A., M., 2009, El despazamiento forzoso en Colombia: un camino sin retorno hacia la pobreza, Bogotá,

Ediciones Uniandes, p. 3.

435 Cfr. Internazionale, 22/28 aprile 2011, La banca dei narcos, p. 36-43 436 Ibid.

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essere superata nell’arco di una sola generazione. Questa situazione aumenta la già elevata iniquità sociale, rallentando lo sviluppo economico del paese e condannando alla miseria milioni di persone colpevoli del solo fatto di abitare le proprie terre.

Economie di morte e controllo del territorio

In Colombia il diffuso fenomeno della migrazione indotta o forzata è una diretta conseguenza del conflitto interno che da decenni sta vivendo il paese. Il desplazamiento colpisce principalmente gli abitanti delle zone rurali e maggiormente isolate: località dove la presenza istituzionale è minima e che rappresentano la maggioranza del territorio nazionale. In questo contesto il sequestro, le stragi, gli omicidi selezionati e premeditati, il reclutamento forzato di minori e le mine anti-uomo sono convertiti in deliberate strategie di guerra, da parte dei gruppi armati operanti ai margini della legge, per raggiungere specifici obiettivi bellici. In Colombia nel 1995 “solo” trentacinque comuni furono teatro di sfollamenti; nel 2002 questa cifra era lievitata a 949, coinvolgendo più del 90% delle amministrazioni municipali e trasformandosi in un fenomeno generalizzato che coinvolge la maggior parte del paese437. Molti comuni hanno perso più della metà della loro popolazione e alcuni

addirittura hanno espulso più del 90% dei propri abitanti come nei casi di Bojayá (Chocó) e Cocorná (Antioquia.)438. Se si esclude il periodo 2000-2002, che fu particolarmente violento e provocò numerose migrazioni di massa, circa l’81% delle persone sfollate nel paese hanno abbandonato le proprie terre individualmente o accompagnati da alcuni familiari e raramente sono migrate oltre i confini nazionali439. Questi milioni di profughi si dirigono verso i grandi centri urbani che sono del tutto impreparati ad accogliere una così grave situazione di emergenza umanitaria.

La proprietà della terra rappresenta un problema antico in Colombia che rimanda direttamente alle origini del conflitto contemporaneo, nato attorno alle richieste dei campesinos di una più equa riforma agraria che potesse garantire una maggiore giustizia sociale in un paese dove, il peso del retaggio coloniale, concentrava la maggioranza dei terreni produttivi nelle mani di una ristretta oligarchia di grandi proprietari terrieri. Per queste e altre ragioni nel 1964 nacquero le FARC, rivendicando allo Stato il diritto di occupare e coltivare alcuni terreni incolti. Le relazioni tra il controllo della terra e il conflitto armato hanno dunque origini antiche e affondano le proprie radici

      

437 Cfr. Ibáñez, A., M., 2009, El despazamiento forzoso en Colombia: un camino sin retorno hacia la pobreza, Bogotá,

Ediciones Uniandes, p. 11.

438 Ibid., p. 12.

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nei numerosi scontri di rivendicazione sociale che, per decadi, hanno contrapposto i grandi proprietari terrieri ai mezzadri. Negli ultimi cinquant’anni i gruppi armati e i narcotrafficanti si sono uniti a quest’antica disputa provocando il terribile aumento della violenza che si è analizzato nei capitoli precedenti e che ha condotto la Colombia ad un’emergenza umanitaria di vaste proporzioni, misurabile nei milioni di profughi che, negli ultimi vent’anni, hanno invaso i grandi centri urbani del paese, creando immensi quartieri di miseria.

I gruppi guerriglieri e paramilitari, implementando una tattica militare indirizzata principalmente contro i civili, sono stati i principali responsabili dell’esodo Colombiano. La violenza contro la popolazione rappresenta una strategia a basso costo per sgomberare e assoggettare il territorio, permettendo ai gruppi armati di prendere il controllo della zona, sviluppare attività illegali e trasportare facilmente armi, droga o qualsiasi altro prodotto. Il controllo e il possesso della terra sono quindi tra le cause determinanti del conflitto armato colombiano. La Colombia è un paese ricco di materie prime e la cocaina stessa si produce solamente a partire dalla foglia e, dunque, tramite il possesso e il controllo di vaste zone adibite alla coltivazione. L’appropriazione della terra, tramite la violenza, costituisce dunque una strategia di guerra fondamentale per coloro che sono implicati nel conflitto e rappresenta una delle maggiori cause di sfollamento di moltissimi piccoli proprietari terrieri, costretti a lasciare i propri appezzamenti a causa delle pressioni dei gruppi armati. La presenza di coltivazioni illecite provoca un’ulteriore tensione attorno alla gestione della terra motivata, oltre che dagli interessi economici che vi orbitano attorno, anche dall’importanza strategica di garantirsi validi e sicuri percorsi per il trasporto della merce. Questa situazione comporta un’elevata pressione sulla popolazione locale che, soprattutto in zone di disputa territoriale, si concretizza in un inevitabile aumento delle persecuzioni. In questi contesti gli attacchi ai residenti diventano una deliberata strategia di guerra mirante a sedare i movimenti di resistenza civile e a debilitare i legami sociali, con l’obiettivo di ridurre l’appoggio degli abitanti ai gruppi antagonisti.

Questa situazione di conflitto si ripercuote sui campesinos principalmente in due modi. In alcuni casi le azioni di questi manipoli armati coinvolgono indirettamente gli abitanti, isolando ad esempio una zona, come conseguenza di uno scontro o di particolari logiche connesse alla gestione del territorio. Ciò spesso comporta l’interruzione degli scambi con l’esterno, creando una situazione di segregazione e isolamento che inevitabilmente provoca vari disagi alla popolazione che rimane intrappolata nei propri villaggi, sprovvista di qualsiasi bene di consumo che non venga prodotto localmente. In altri casi la popolazione viene deliberatamente sottomessa per ottenere obiettivi specifici, tramite una collaudata strategia di guerra mirante al consolidamento territoriale e alla

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gestione delle risorse. In questi casi la prassi consiste nel ricatto, mettendo in atto intimidatorie strategie di terrore tramite massacri, omicidi e minacce di vario genere. I perpetratori reprimono e intimidiscono sistematicamente gli abitanti del luogo per raggiungere i loro particolari obiettivi bellici. Evacuando il territorio e sfollando certi segmenti della popolazione i gruppi illegali consolidano la propria egemonia, dilatano le zone sotto il loro controllo e si appropriano di risorse pubbliche e private, perseguendo i propri interessi e debilitando le fazioni rivali. In questo contesto l’ideologia in Colombia finisce per essere fagocitata dagli imperanti interessi economici transnazionali orbitanti attorno al conflitto e, in seguito a questi atti violenti, molti colombiani optano per abbandonare le proprie case e cercare rifugio nelle grandi città.

Un lungo cammino verso la povertà

Lo sfollamento forzato, oltre ad essere un’evidente violazione dei diritti umani, provoca un’accentuata crisi nella condizione economica di chi ne rimane vittima. Lo sfollato si ritrova costretto ad abbandonare la propria casa, la propria terra e tutto quell’insieme di relazioni sociali e abitudini che costituiscono il suo mondo. Da un giorno all’altro inizia un triste esodo che lo conduce verso i grandi centri urbani, già da decenni saturi e del tutto impreparati ad accogliere questo costante flusso di profughi, provenienti dalle zone di conflitto. Queste persone giungono, spesso sole o accompagnate da qualche familiare, in città immense come Bogotá dove non conoscono nessuno. Inevitabilmente finiscono per riversarsi nelle sterminate periferie affollate da migliaia di sfollati che precedentemente arrivarono nelle loro stesse condizioni. Viaggi della speranza o della disperazione che finiscono per condannare i desplazados a una strutturale situazione di povertà dalla quale risulta quasi impossibile emanciparsi. I profughi, nella maggioranza dei casi contadini analfabeti o al massimo dotati di un’istruzione elementare, si ritrovano del tutto impreparati allo stile di vita della ruggente capitale colombiana. In questa situazione, il terrore e la sofferenza innescati dalla violenza del conflitto, con il tempo si tramutano in passiva rassegnazione. La mancanza di fondi, l’inadeguatezza alla richiesta lavorativa della città e la diffusa condizione di miseria, in cui vivono gli abitanti di questi quartieri della disperazione, si uniscono all’assenza statale e alla generalizzata mancanza di aiuti umanitari. In questo modo i profughi vengono spesso relegati a condurre una vita miserabile ai bordi delle strade e le prospettive di un futuro migliore si assottigliano giorno dopo giorno. A Ciudad Bolívar, uno dei quartieri d’invasione più poveri di Bogotá, un paio di scarpe, nemmeno di “marca”, può valere più di una

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vita. La violenza organizzata delle zone rurali lascia spazio alla violenza sistemica, dettata dall’odio, dal cinismo o dalla semplice e banale abitudine, delle periferie urbane.

Non è semplice iniziare una nuova vita in queste condizioni e le statistiche al riguardo parlano chiaro: la migrazione forzata difficilmente permette alle vittime di intraprendere attività produttive nelle città di ricezione. Durante lo sfollamento i desplazados abbandonano i campi che, nella maggioranza dei casi, costituivano la loro unica fonte di sostentamento e nel nuovo contesto urbano le loro capacità professionali difficilmente possono essere sfruttate o valorizzate. Molte famiglie, inoltre, si ritrovano ad affrontare questa nuova vita in seguito alla morte o alla scomparsa di alcuni parenti, spesso gli uomini adulti, che rappresentano la forza lavorativa trainante dei nuclei famigliari. Tutte queste variabili correlate determinano una reazione a catena che condanna queste persone a una spirale di povertà e a uno stile di vita limitato alla semplice sussistenza. In questo modo i più piccoli sono spesso costretti ad abbandonare gli studi, riducendo le loro future possibilità lavorative nel contesto urbano di ricezione. L’impatto economico dello sfollamento è devastante e conduce le vittime a livelli di povertà difficili da superare anche per le generazioni successive.

Un antropologo tra le lamiere

In questa seconda parte del capitolo si cercherà di rendere maggiormente intellegibile il fenomeno del desplazamiento lasciando ampio spazio alla testimonianza diretta di alcuni IDP che ho avuto modo di incontrare a Ciudad Bolívar. Queste interviste sono il frutto di un lavoro di campo che mi ha condotto nelle estreme periferie di Bogotá con l’obiettivo di raccogliere alcune dichiarazioni dirette di persone sfollate a causa del conflitto armato. Attraverso le testimonianze dei desplazados è possibile ricostruire, per lo meno in parte, la quotidianità che caratterizza la vita di queste persone negli immensi quartieri d’invasione che delimitano la frenetica capitale colombiana. Sono riuscito a realizzare questa ricerca di campo grazie alla collaborazione di una ONG che da oltre dieci anni lavora nel quartiere Buenos Aires di Ciudad Bolívar. Se non si possiede una macchina, per arrivare a Ciudad Bolívar bisogna prendere il Transmilenio, un sistema di trasporto su quattro ruote a scorrimento veloce, fino all’autostazione Tunal. Durante l’ora abbondante di viaggio che separa la Candelaria, il centro storico coloniale di Bogotá, dal capolinea Tunal si osserva lentamente il progressivo deterioramento degli edifici finché non si giunge in una zona non edificata ove sembra finire la città. A questo punto, quasi giunti all’autostazione, si inizia ad intravvedere una sterminata

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distesa di baracche che si inerpica per i rilievi dell’altopiano andino fino a dissolversi lungo la linea dell’orizzonte. Una volta arrivati all’autostazione Tunal, per raggiungere Ciudad Bolívar, bisogna prendere un autobus gratuito, chiamato alimentador, che connette questi sterminati quartieri d’invasione con la capitale. Qui termina il cemento e inizia un'altra Bogotá fatta di lamiere, di scarti e di miseria. Anche se Ciudad Bolívar è considerata parte integrante della città è difficile paragonarla ai lussuosi quartieri residenziali della zona settentrionale, protetti da cinte difensive e sorvegliati da uomini armati.

Da queste visite sono nate le interviste che saranno utilizzate in questo paragrafo nell’intento di rendere la parola ai desplazados che, meglio di chiunque altro, possono restituire un quadro veritiero attorno alle tematiche trattate in questo capitolo. Tramite le vicissitudini degli intervistati si cercherà di ricostruire le condizioni che caratterizzano la vita civile nelle zone periferiche del paese, cercando di sviscerare cosa comporti, dal loro punto di vista, convivere al fianco dei carnefici e come mai decisero di abbandonare i propri territori natii per intraprendere questo lungo viaggio della speranza verso la capitale. Per concludere vedremo cosa significhi per un desplazado iniziare una nuova vita in questi sterminati quartieri che delimitano la zona meridionale di Bogotá.

Per fare questa ricostruzione saranno utilizzate principalmente tre testimonianze. Johanna è una contadina originaria del Caquetá, che ha deciso di abbandonare la sua fattoria per dirigersi verso Bogotá con suo marito e i suoi sei figli. Johanna è una persona umile e profondamente credente, il cui maggior timore orbita sempre attorno al futuro dei suoi bambini. Carlos è un ragazzo del Cesar cui manca una gamba e che giunse a Ciudad Bolívar solo, lasciandosi alle spalle tutto quello che aveva pur di salvarsi la vita. Linda è una donna del Huila, una delle roccaforti della guerriglia nel paese. Il suo villaggio è stato completamente sgomberato, probabilmente dai paramilitari. Linda è evidentemente traumatizzata e la sua testimonianza è in parte condizionata dall’eccessiva paura. Non è stato facile intervistarla e a molte domande ha risposto vagamente. Probabilmente deve aver subito delle violenze.

I primi due intervistati sono stati sfollati dalla FARC e vivevano in zone sotto il diretto controllo di questo gruppo guerrigliero. Nei loro villaggi la presenza paramilitare si limitava ad alcune visite sporadiche. Linda non ha voluto specificare quale gruppo armato l’abbia sfollata ma nel corso dell’intervista si intuisce che furono le autodefensas. Nonostante le poche informazioni che ha deciso di concedermi si deduce che nel suo paese la guerriglia avesse una presenza fissa e stabile, come d’altronde in molte regioni del Huila.

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Si procederà ricostruendo, tramite le testimonianze incrociate degli intervistati, la vita contadina che contraddistingue la Colombia rurale, cosa significhi convivere con un gruppo armato e cosa comportino per la popolazione le saltuarie visite degli altri attori implicati nel conflitto. Si proseguirà analizzando i motivi dello sfollamento, che in tutti i casi sono riconducibili all’aver subito minacce dirette, e si terminerà esplorando le difficoltà che implica costruirsi una nuova vita a Ciudad Bolívar, in un ambiente urbano ostile e ancora una volta caratterizzato dall’abbandono statale.

La quotidianità del conflitto

In questo paragrafo si cercherà di addentrarsi nel complesso tema degli IDP attraverso la ricostruzione di uno sfuggente mosaico, composto dalle esperienze di vita di Johanna, Carlos e Linda. Il filo conduttore che accomuna il contesto geografico e sociale dei luoghi di origine di queste persone è rappresentato da quella Colombia rurale, storicamente caratterizzata da una strutturale condizione di oblio istituzionale. In questo modo Johanna descrive la propria vita prima dello sfollamento:

Normale direi, avevamo una fattoria, quelle cose normali che si hanno in campagna, gli animali, una vacca, bestie… maiali, galline e si viveva così; coltivazioni di banane, di yucca e anche di coca, è ovvio, non le racconto bugie dicendole che non conosco la coca, questo è quello che ci dà una mano da quelle parti e questo avevamo quando vivevamo là.

Tutto normale se non fosse per la presenza delle piantagioni di coca, ma d’altronde la Colombia è un paese produttore e dunque anche questa pratica va considerata del tutto ordinaria. Dai contadini la coca è reputata una coltivazione come le altre che semplicemente è meglio retribuita e molto richiesta. Nel villaggio di Carlos:

Operano quattro gruppi, tre di guerriglia e uno di paramilitari, però i paramilitari non colpiscono più tanto.

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