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Dalla collezione Farnese agli scavi borbonici: Napoli capitale delle Antichità.

Le antichità furono il motore primo della nuova scoperta della città di Napoli da parte dell’Europa colta del Settecento, grazie anche al diffondersi del Grand Tour, quel fenomeno culturale che spinse per oltre un secolo gli intellettuali a giungere in Italia per scoprire le radici del classicismo.

Con Carlo di Borbone, la Napoli impoverita dal Viceregno spagnolo e da quello austriaco iniziava a sperare in un cambiamento che l’avrebbe condotta allo status di un regno autonomo e nazionale. Nell’ambito di questo scenario di rinascita, gli scavi delle città vesuviane assumevano una fondamentale importanza, infatti, Napoli, designata capitale delle antichità, grazie ai ritrovamenti archeologici e alle sue iniziative culturali, divenne una delle maggiori capitali europee. Sia Carlo che la moglie Maria Amalia di Sassonia, appartenevano a famiglie particolarmente affascinate dal collezionismo di antichità, tradizionalmente riconosciuto come emblema di prestigio e distinzione sociale256. Il padre di Maria Amalia di Sassonia, Augusto, nella sua collezione annoverava statue trovate a Napoli presso un pozzo a Resina, in una proprietà del principe d’Elbouf. Carlo aveva ereditato da parte della madre Elisabetta Farnese, nipote dell’ultimo duca di Parma, un immenso patrimonio artistico e archeologico appartenuto ai Farnese, cultori appassionati di ogni genere di antichità.

La collezione d’arte di Casa Farnene proveniva da vari palazzi farnesiani, come quelli di Roma, di Parma e di Caprarola, che dal 1734, fino agli inizi del secolo successivo, erano stati gradualmente svuotati al fine di decorare le residenze reali di Napoli. La dispersione degli oggetti d’arte appartenenti alla galleria delle cose rare di Parma257 iniziò per ordine di Carlo di Borbone tra il 1734 e il 1735. L’inventario di questo trasferimento fu compilato da Bernardo Lolli, presumibilmente nel 1736, ma nonostante la sua attenta catalogazione manca una lista precisa che indichi l’effettiva consistenza di quanto realmente giunse nella città partenopea. Dalle indicazione di José Joaquìn Montealegre, segretario di stato di Carlo di Borbone, non tutto fu trasferito a Napoli, infatti, veniva trasferito solo ciò che aveva un valore superiore al suo trasporto. Nel maggio del 1760 arrivarono per via mare, dal guardaroba del Palazzo Farnese di Roma, undici casse di cui solo otto contenenti quadri. Un altro gruppo di antichità giunse alla fine del Settecento, quando Hackert e Venuti furono inviati da Ferdinando IV a

256Cfr. S. De Caro, Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Ed. Electa, Napoli 2001, p. 7.

257Cfr. L. Martino, Dalla Galleria delle cose rare di Parma al Museo di Capodimonte. Gli oggetti d’arte di Casa

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prelevare nei palazzi e nelle ville farnesi di Roma, sculture antiche per incrementare le collezione del futuro Real Museo Borbonico (Tav.22)258.

Ferdinando IV, succeduto al trono nel 1759, riuscì ad ottenere, dopo anni di lavorio diplomatico e superando le resistenze papali, il trasferimento dell’imponente raccolta di antichità farnesiana contenenti anche sculture provenienti dagli scavi delle Terme di Caraccalla sull’ Aventino259. I Borboni, al pari dei papi più illustri, potevano vantare di una collezione di Antichità invidiabile, arricchita ben presto dai ritrovamenti ercolanesi e pompeiani.

Il progetto di fare della capitale e della sua corte un grande centro d’arte, fu attuato con la realizzazione del Museo Farnesiano napoletano, per il quale si decise di costruire, nel 1738, un nuovo edificio, la Villa Reale a Capodimonte, alla cui direzione fu preposto l’arch. Giovanni Medrano. Tale edificio doveva ospitare le collezioni farnesiane che provenivano da Parma e da Roma, ben presto arricchita da migliaia di oggetti pervenuti dagli scavi, sotto gli occhi stupefatti degli intellettuali e dei re europei. Fausto Zevi, in un suo testo, affermava che, fin dai primi anni, traspare tutta la fresca emozione dell’impresa, la partecipazione viva e attenta del

sovrano; il re Carlo visita gli scavi, ne segue da vicino l’andamento, per bocca di Montealegre personalmente interviene, dettando norme per la loro conduzione, prescrivendo misure di salvaguardia degli oggetti260. Un sovrano che dimostrava un’inclinazione archeologica piena di curiosità, non sorretta da una cultura antiquaria, in cui convivevano l’attitudine collezionistica personale che prediligeva il possesso del singolo oggetto e quella materiale della conservazione dei reperti in situ.

Come si detto, Carlo era mosso dal desiderio di fare di tutto ciò che riportava alla luce una collezione unica nel suo genere, dando un segno diplomatico e politico della sua ricchezza e prestigio. Il Re non era in grado di comprendere l’importanza di riportare in vita gli edifici delle città ritenute scomparse, e quindi decise di lasciare in loco i reperti man mano che venivano estratti, senza privarli del proprio contesto, esponendo, invece, tutto il trasportabile nei vari Palazzi reali dove potevano essere custoditi ed esposti per meravigliare ed impressionare i visitatori e, soprattutto, gli aristocratici di tutto il mondo.

La vera impresa archeologica, privata troppo presto della direzione di un antiquario dello spessore di Marcello Venuti, fu esposta a limiti e danni causati da una gestione non

258Cfr. L. Ambrosino, F. Capobianco, Bronzi di Casa Farnese: Capolavori e recuperi, in N. Spinosa (a cura di), La

Collezione Farnese:Le arti decorative, Ed. Electa, Napoli 1996, pp. 25-31.

259Cfr. M. Utili, Introduzione, in Museo di Capodimonte, Ed. Touring Club Italiano, Milano 2002, pp. 8-19. 260F. Zevi, Gli scavi di Ercolano, in La Civiltà del 700 a Napoli…, op. cit., p. 58.

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Tav.22 Trasporto dei reperti della collezione del Re del Museo Ercolanese di Portici al Palazzo dei Regi Studi di Napoli (poi Reale Museo Borbonico) in Saint- Non, Voyage pittoresque, 1782. Con decreto reale del 22 febbraio 1816 Ferdinando istituisce il Reale Museo Borbonico,

che racchiude tutte le collezioni comprese quella Farnese.Questa tavola testimonia che il trasporto dei reperti avveniva già del 1782.

adeguata261, ma, contestualmente, fu anche rivelatrice di un approccio dell’antico, che, in Carlo di Borbone, si palesa sia in veste di attitudine collezionista di matrice aristocratica che sottoforma di autocelebrazione da parte del giovane Re e della nascente monarchia.

La differenza tra la collezione Farnese e quella delle antichità di Ercolano era notevole, la collezione ereditata da Carlo per via materna, non poteva essere considerata un elemento qualificante per nuovo regno, in quanto estranea sia per storia che per provenienza, inoltre, le opere che la costituivano, erano già note e tutte edite, e di conseguenza non avrebbero potuto ricavarne alcun privilegio dalla loro diffusione262. Le scoperte vesuviane, invece, andavano a costituire un evento dalla portata straordinaria, tale da elevare il prestigio del nuovo sovrano, inoltre, avendo il monopolio degli scavi di Pompei ed Ercolano e avendo impedito la libera circolazione delle informazioni su di essi, diedero vita a un’opera istituzionale, destinata, però, strategicamente ad un pubblico ristretto e scelto.

Le intenzioni del sovrano non erano tese alla crescita di una comunità scientifica che si interessasse con competenza degli scavi ma, nonostante i divieti, l’interesse degli intellettuali

261Può meravigliare oggi che sia stato un militare a condurre scavi volti a trovare oggetti antichi quando a quell’epoca erano gli eruditi ad occuparsi della disciplina.

262Cfr. P. D’Alconzo, Carlo di Borbone a Napoli: passioni archeologiche e immagine della monarchia, in A. Antonelli (a cura di), Cerimoniale dei Borbone di Napoli 1734-1801, Napoli 2017, Ed. Artem, pp. 127-145.

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sfociò nella produzione di una serie di scritti, non autorizzati, fondati su notizie giunte in maniera non ufficiale dal personale impiegato al Museo e da coloro che poterono visitarlo personalmente, come Maffei, Gori, Caylus e Winckelmann.

Così come a Roma, dove i Papi combattevano contro il saccheggio da parte di collezionisti locali e degli speculatori di antichità, anche a Napoli si tentava di salvaguardare i reperti, anche se non sempre fu possibile avere un totale controllo delle scoperte.

La redazione dei giornali di scavo, realizzata da persone non adeguatamente competenti, si rivelò lacunosa e insufficiente, costituendo un giornale redatto nella forma d’inventario di materiali, in cui vi era una totale assenza di notizie sullo stato di conservazione dei reperti dei quali si continuava ad avere poca considerazione per l’architettura e l’urbanistica.

L’impresa di matrice auto celebrativa di Carlo di Borbone, in pochi anni riuscì a conferire alla città un volto nuovo, grazie alle maestose residenze per la corte, con un enorme aggravio delle finanze statali. L’impegno profuso per dare una nuova immagine alla città riuscì comunque a stabilizzare la posizione del sovrano, permettendogli di arginare i privilegi dei nobili e i particolarismi baronali263.

L’idea del monarca “archeologo” secondo quanto scrive la prof.ssa P. D’Alconzo emerge per la prima volta in una pubblicazione non promossa dalla corte: l’immagine del sovrano che restituirà alla vita le antiche città compare per la prima volta nel 1751, con la dedica a Carlo di

Borbone delle Antichità siciliane spiegate con notizie generali del regno di Giuseppe Maria

Pancrazi (Tav.23). Il ritratto inciso del Re era ancora del tutto convenzionale, mutuato, con qualche minima variante, da quello a olio eseguito da Giuseppe Bonito nel 1745, la dedica, però, si presentava abbastanza esplicita, si legge, infatti, che in faccia delle Nazioni o vicine, o

remote, siccome stanno, e rimarranno per sempre gli Esercizj dell’Armi Vittoriose, gli studi dell’ubertosa Pace, le occupazioni, e cure instancabili della S. R. M. V. intenta continuamente al bene dei Regni Vassalli, così memorie sono da non tralasciarsi quelle, per cui sovente le Reliquie stimabili delle Antichità hanno una gran parte nella mente sublime della S. R. M. V. alla quale nulla riesce tanto gradevole, quanto sono le Pitture, Statue, Bassi Rilievi, Medaglie, o quel di più, che ne’ fioriti suoi Stati, e sotto gli occhi suoi stessi, ed altrove, profondendosi largamente i Tesori della S. R. M. V. si rinvengono. Ella costituisce particolare suo diletto, non solo far dare in Luce della Vetustà i Monumenti, ma altresì conservarli pomposamente nella sua Regia264.

263Cfr. A. Rao, Le ‘consuete formalità’. Corte e Cerimoniali a Napoli da Filippo V alla repubblica del 1799, in A. Antonelli (a cura di), Cerimoniale dei Borboni…, op. cit. , pp. 86-88.

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Tav.23 G.M. Pancrazi, Antichità Siciliane; “Felix Urbium restitutio”, Pellecchia, Napoli 1751. (Napoli Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III).

L’immagine di Carlo avrà fortuna iconografica qualche anno dopo, con la celebre tavola realizzata per il frontespizio delle Antichità di Ercolano Esposte del 1757, dove i reperti di scavo furono inseriti come attributi qualificanti per enfatizzare l’interesse del sovrano per le antichità. Per dare consistenza alla passione dilettantistica del sovrano, occorreva una figura forte che, con passione e studio, affrontasse e gestisse con competenza le richieste del Re, e la scelta rigadde nella figura di Bernardo Tanucci.

Proveniente dalla Toscana, ebbe una solida preparazione classica, consolidata nella scuola di Filippo Buonarroti, primo lucumone dell’Accademia Etrusca di Cortona265, si professava inesperto di antichità figurata e nel 1747 scriveva all’amico Nefetti il mio spasso è lo studio

265Cfr. M. G. Mansi, La stamperia reale al tempo di Carlo di Borbone e l’illustrazione delle antichità, in Carlo di

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dell’antichità e mi è stata data l’occasione dell’escavazione della città di Ercolano….Le fabbriche della villa di Portici che il Re vi va facendo stimolata quella ricerca che è stata la più fertile finora fuor di Roma di figurate antichità di ogni genere. Ogni sera si porta qualche pezzo nella Camera del re si ragiona, nell’ora appunto in cui egli si spoglia per andare a letto e io devo essere presente266. Quei confronti serali nell’intimo delle stanze del sovrano, intensificarono il

rapporto di stima che legava il re al suo ministro, entrambi avevano compreso che l’impresa di Ercolano poteva trasformare quell’angolo di mondo in uno dei nodi cruciali della cultura europea267. Anche quando il sovrano andò via da Napoli per insediarsi sul trono di Spagna, Tanucci continuò ad interessarsi dell’andamento dei ritrovamenti e delle campagne di scavo. Quotidianamente il Re forniva, attraverso uno scambio epistolare con Tanucci, suggerimenti e sollecitazioni, le risposte del ministro seguivano uno schema predefinito in cui dovevano essere riportate notizie politiche, vita di corte, rapporto sulla caccia nei siti reali, riservando sempre uno spazio per la relazione sugli scavi, sugli oggetti rinvenuti, sullo svolgimento dei papiri, sull’allestimento del museo ercolanese, ed anche sulla pubblicazione delle Antichità, accompagnando la lettera con le prove delle tavole incise su rame.

Tale attività andava ad arricchire e consolidare la cultura antiquaria di Tanucci, appagando in parte la sua vocazione culturale, sacrificata al servizio della monarchia. Il Re era solito chiedere al suo ministro delucidazioni sui reperti, il quale, per poter rispondere esaurientemente alle domande del sovrano sui più significativi monumenti rinvenuti268, si occupava in prima persona di dirigere gli scavi e la stamperia. In tal modo riusciva a coordinare tutte le fasi del lavoro utilizzando, una solida struttura metodologica, incentrata sul piano culturale e amministrativo.

Con la reggenza si aprì una nuova fase del riformismo borbonico, le cui vicende furono caratterizzate dalla presenza preponderante del ministro Tanucci all’interno del consiglio di reggenza, nonostante le questioni sollevate dai baroni e feudatari che, legati ai loro feudi e alle loro entrate, temevano la presenza del giurista venuto a Napoli per occuparsi prima della giustizia e poi, dal 1755, del segretariato degli affari esteri269. Tanucci, a cui Carlo aveva affidato il figlio Ferdinando, era la figura di maggiore spicco assumento un ruolo sempre più influente.

266F.Zevi, Gli scavi di Ercolano e le “Antichità”in A.A.V.V. Le Antichità di Ercolano, Banco di Napoli, Napoli 1988 p.13

267Cfr. F. Zevi, Gli scavi di Ercolano e le antichita, in AA. VV., Le Antichita di Ercolano, Ed. Banco di Napoli, Napoli 1988, pp. 11-38.

268Cfr. E. Chiosi, Reale Accademia Ercolanese: Tanucci fra politica e antiquaria, in R. Aiello, M. D’Addio (a cura di),

Tanucci statista giurista letterato, Atti del convegno internazionale di studi per il secondo centenario 1783-1983,

volume II, Napoli 1986, pp. 493-517.

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I viaggiatori che intraprendevano il Grand Tour nelle loro descrizioni formulavano dei giudizi, non sempre benevoli, sulla figura di Tanucci. La letteratura di viaggio era prodotta da un folto numero di rampolli di nobili casate, che, verso la metà del XVIII secolo, giravano per l’Europa diretti soprattutto in Italia, per completare la loro educazione sotto la guida di eruditi, pedagoghi, i cosiddetti travelling praeceptors, ovvero intellettuali votati allo studio in generale delle antichità e dell’architettura in particolare.

In Italia questi viaggiatori furono attratti dalle vestigia di antiche civiltà e dalle bellezze naturali. Quando le scoperte archeologiche di Pompei e di Ercolano divennero le mete più richieste, essi iniziarono ad essere attirati verso il Regno delle Due Sicilie. Il rinnovato interresse per la ricerca del passato non li portò a distrarsi dall’osservare il presente e con esso le condizioni di vita della popolazione e i rapporti tra le varie classi sociali con il potere. Charles Pinot Duclos270, viaggiatore francese e segretario perpetuo dell’Accademia Francese, aveva conosciuto personalmente Tanucci. Noto per aver scritto l’Historie de Louis XI, fu ammesso all’Acadèmie Francaise nel 1746, di cui, poi, occupò la carica di segretario fino al 1756. Nato da una modesta famiglia, frequentò gli ambienti culturali più in vista di Parigi e scrisse nel 1791 il Voyage en Italie271che uscì, postumo, nel 1791. Duclos soggiornò a Napoli nel 1762, annotando notizie sugli scavi di Pompei e sul ministro Tanucci, del quale scriveva che nato da una famiglia borghese egli era professore di diritto a Pisa quando Don Carlos

attualmente Re di Spagna, era in Toscana. Un criminale si era rifugiato in un convento. Nessuno osava violare quell’asilo, ma ne fu bloccato ogni ingresso, in modo che, non potendo i monaci ricevere alcun cibo, furono costretto a liberarlo. Essi gridarono allo scandalo e fecero coro tutti gli altri religiosi. Fu disposta un’inchiesta sul diritto d’Asilo e ne fù incaricato il Tanucci. Carlo fu cosi soddisfatto del modo con quale risolse la questione che quando passo sul trono di Napoli lo condusse con sé e lo elevò al rango di ministro. Quando cedette poi nel 1759 il trono al figlio lasciò al Tanucci l’incarico di tutta l’amministrazione dello stato. Da ora in poi non si fa niente a Napoli che non sia deciso dalla Spagna su consiglio dello stesso ministro egli potrà essere un ottimo giurista ma l’esperienza insegna che coloro i quali hanno applicato le loro capacità allo studio delle leggi, sono fra tutti gli uomini i meno adatti a governare. Gli si può rimproverare

270Cfr. A. Gentile, B. Tanucci nel Giudizio dei viaggiatori degli stanieri, in Archivio storico Terre di Lavoro, volume VIII, anno 1982-1983, Ed. Societa di Storia Patria di terra di Lavoro, Caserta 1985, pp. 43–50.

271Cfr. C.J Pinot Duclos, Voyage en Italiae ou considèrations sur l’Italiae in Oeuvres diverses de D., Parigi, anno X (1802).

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anche la cattiva educazione che ha fatto impartire al giovane re. L’ha affidato al Principe di San Nicandro che lo allevò nella più grossolana ignoranza272.

Nel 1758 Johan Joachim Winckelmann, il grande storico dell’arte e archeologo tedesco, fece il suo primo viaggio a Napoli dove conobbe Tanucci apprezzandone le doti, il carattere e le qualità di letterato, giurista e di uomo di stato. Il ritratto che Winckelmann inviò al conte di Bunau il 21 Febbraio del 1761, ne esaltava la personalità e la sua funzione egemonica nell’ambito della festione del governo napoletano, si legge, infatti, che era professore di diritto

a Pisa, e l’attuale re di Spagna, allora, Infante, lo assunse come quale uditore, come qui dice. Quando l’Infante s’insedio a Napoli a poco a poco Tanucci venne innalzato sino alle dignità più alte. E’ un uomo di grande dottrina, un fiorentino sottile, che agli occhi della maggior parte della gente ha saputo apparire come uno stoico. Il suo aspetto è più da orso polacco che di uomo, e la sua testa, ove gli occhi rimangono nascosti sotto gli ispidi cespugli delle sopracciglia, è lunga circala quarta parte del suo corpo. Le gravi incombenze, il lavoro incessante, l’hanno reso ancora più terribile di quanto è per natura ed è difficilmente accessibile. Con tutte le lettere che gli indirizzai, non potei arrivare a lui, finché non mi introdusse il Conte di Firmian, allora Ministro Imperiale. E’ un uomo di estrema equità, dinazi al quale nessuno osa apparire con un presente; forte nella sua illibatezza regge la sfrenata nobiltà napoletana con mano di ferro. E’ odiato e temuto, ma non corre pericoli. A tavola diventa un’altro uomo; si fa gioviale, e le Grazie parlano in lui. Pensa liberamente, è l’unico uomo che la Curia Romana ha da temere. Ha un’unica figlia273. Ma, nonostante gli elogi, Winckelmann si espresse con aspre critiche in riferimento

allo scempio delle pitture ercolanesi.

A partire dagli anni 50 del Settecento, le antichità rientrarono tra i programmi della politica culturale dei Borbone, il sovrano, infatti, trasformò il suo interresse personale verso gli scavi, intesi come sua assoluta proprietà, e in una missione a carattere istituzionale. Erano gli anni in cui si affermavano nuovi fermenti culturali e scientifici. Dall’infelice dissertazione sull’antica Ercolano scritta dall’antiquario Bayardi, che si occupò, come si è detto, del deludente Catalogo dei Ritrovamenti Ercolanesi, (1755) Carlo poté constatare l’inadeguatezza del lavoro svolto. Nello stesso anno costituì l’Accademia Ercolanese274, nata per rispondere alla necessità di provvedere a uno studio e a una pubblicazione dei reperti. L’Accademia si rivelò essenziale per la diffusione delle antichità, andando a influenzare il gusto della

272A. Gentile, B. Tanucci nel Giudizio dei viaggiatori degli stanieri, in Archivio storico Terre di Lavoro, op.cit., pp. 46- 47

273G. Zampa (a cura di), J. J. Winckelemann, Lettere italiane, Feltrinelli Editore, Milano 1961, p. 81.

274Cfr.A.Alloroggen Bedel, L’antico e la politica culturale dei Borbone, in Herculanense Museum. Laboratorio