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La coltivazione del tabacco

Vicino a dove un tempo c’era l’edicola di Sant’Antonio, più tar-di abbattuta da una mietitrebbia, proprio vicino al paese tar-di Mon-teporzio, c’era la casa dove viveva la famiglia di Antonio, in tutto nove persone: i nonni, il padre e suo fratello, con le rispettive fami-glie. I suoi genitori avevano tre figli: due maschi e per ultima una femmina; gli zii invece non avevano figli.

Vivevano in un fondo di quattordici ettari che apparteneva a un grande latifondista di Roma

A quei tempi lungo il Cesano si coltivava il tabacco e lo facevano anche loro. All’inizio ne coltivavano una qualità con cui si produ-cevano i sigari, Antonio crede di ricordare che si chiamasse “Kent”.

Iniziavano i preparativi della coltivazione a marzo preparando il banco, uno spazio con del buon terriccio dove venivano piantati i semi, piccoli piccoli, più o meno come quelli della rucola. Glieli forniva un concessionario di Senigallia che aveva il monopolio per lo Stato, e il tabacco veniva riconsegnato a lui.

Quando le piantine, spuntate dai semi, erano arrivate all’altezza di una decina di centimetri, con due belle foglioline, si trapianta-vano nel campo in mezzo ai filari delle viti. Prima, con un filo per mantenere la direzione retta, si tracciavano dei filari della grandezza di quattordici, quindici metri; nel filo c’erano dei nodi alla distan-za di sessanta centimetri, che era la distandistan-za che doveva esserci tra una piantina e l’altra. Poi si faceva l’”arata” cioè il solco con l’aratro tirato da una sola mucca per farla andare diritta, in due si poteva-no sbilanciare. Il solco serviva anche per innaffiare il tabacco perché ci si faceva scorre l’acqua. Durante la crescita il tabacco non aveva

bisogno di nessuna cura, si annaffiava soltanto, prendendo l’acqua dal pozzo con il motore elettrico e usando i tubi di irrigazione, a scorrimento; i primi tubi usati furono quelli lasciati dagli Alleati durante la guerra, poi arrivarono quelli di zinco. Quando la pianta, con il fusto diritto e le sue belle foglie che le si allargavano attorno, aveva raggiunto un metro, un metro e venti di altezza, si cimava co-sì non si allungava più ma si espandevano le foglie.

Arrivato il momento del raccolto, all’inizio dell’estate, la pianta si tagliava ad una certa altezza da terra poi si portava a casa; qui si girava a testa in giù e si metteva a cavallo di una stanga a iniziare a seccare vicino alla “tabaccara”, un essiccatoio in muratura. Più tardi queste piantine si appendevano alle travi e alle traverse della “tabac-cara” e venivano affumicate.

Al centro della stanza c’era un essiccatoio che bruciava legna e faceva fumo. Ci voleva una quindicina di giorni per l’essicazione;

una volta essiccato il tabacco si metteva appeso nei magazzini dove circolava l’aria così si asciugava molto bene.

A novembre si “sbranciava” cioè si toglievano tutte le foglie e si creavano mazzi da cinquanta foglie ciascuno. Si ottenevano fo-glie di due qualità: quelle di prima scelta e quelle di seconda scel-ta. I mazzi poi si consegnavano al concessionario di Senigallia. A contare le foglie andava un capozona, che si chiamava Guglielmo, una brava persona, che agevolava un po’ nel conto: contava una fo-glie qui una là, poi faceva una media così restava sempre un po’ di margine per la famiglia. Antonio ricorda comunque che una volta, al conteggio, ne mancò un po’ allora arrivò la finanza. Il tabacco in casa un po’ ce n’era, ma poco. Si salvarono perché il nonno era infermo e l’avevano nascosto sotto il suo letto dove la finanza non andò a controllare.

Dopo alcuni anni dalla coltivazione del tabacco da sigaro lo Sta-to passò a quello da sigaretta, forse la marca si chiamava “Brait” La piantagione e la raccolta si svolgevano come per il tabacco da sigaro però la pianta non si cimava, diventava alta e le foglie si

raccoglieva-no man maraccoglieva-no che maturavaraccoglieva-no; durante la stagione si facevaraccoglieva-no due raccolte. Per essiccare questa qualità di tabacco la famiglia dovette fare un nuovo impianto nella “tabaccara”, perché serviva una stufa che andava a lignite. Una volta raccolto si caricava su un carro poi si portava a casa. A casa si infilava, lungo un filo, foglia per foglia, poi si metteva a cavallo di una stanga, una foglia di qua e una di là;

le stanghe, di circa un metro e venti, chiamate “campate”, venivano appese al soffitto della “tabaccara” per mezzo di sostegni e si comin-ciava l’essicazione. Pian piano, un po’ alla volta, si alzava la tempe-ratura fino a portarla a 70 - 80 gradi. Ecco perché sono stati fatti i camini che con l’altro metodo di essicazione non servivano. Que-sta essicazione avveniva in sei, sette giorni. Una volta secco prima di imballarlo bisognava inumidirlo per poterlo lavorare; lo si faceva col vapore che proveniva da una botte piena d’acqua che sotto ave-va il fuoco. L’ultima raccolta si faceave-va inumidire da sola, con l’aria, lasciandola appesa dopo l’essicazione, ma la prima bisognava farlo col vapore perché la tabaccara serviva per il secondo raccolto. Con questo tabacco c’era meno controllo; ad esempio: di trenta mila piante che si piantavano, se ne dovevano consegnare tanti quintali.

Nel ‘57 la famiglia smise di coltivarlo perché successe un fatto strano. Per seccare il tabacco da sigaro occorreva la legna che si ot-teneva in Amministrazione: l’azienda a cui faceva capo la famiglia aveva tanti contadini e nei fondi si rimediava la legna; per secca-re invece il tabacco per le sigasecca-rette, come detto prima, si usava una stufa di ghisa che doveva mandare una caloria diversa, questa stu-fa andava a lignite che doveva essere comprata, così aumentarono le spese. Il tabacco da sigari, inoltre, si tagliava e il lavoro si poteva fare tutto in famiglia; per raccogliere le foglie del secondo, invece, bisognava fare il fretta e occorreva chiamare gli operai: in un giorno bisognava completare la tabaccara, la “cotta”, ecco perchè ci vole-vano tutte queste persone. Gli operai si pagavole-vano un tanto a stanga così al contadino rimaneva poco. Loro chiesero allora di poter esse-re aiutati dall’Amministrazione ma non furono ascoltati; inteesse-ressati

poi i sindacati e un avvocato ebbero ragione. Anche se quella volta la spuntarono pochi anni dopo smisero comunque perché il lavoro prese un’altra direzione: il proprietario ampliò la stalla e aumentò le bestie: all’inizio ne avevano sedici, diciassette, poi arrivarono ad averne venticinque. Allevavano i torelli, cioè i vitelloni che faceva-no arrivare fifaceva-no a cinque quintali e mezzo, poi li vendevamo per macellare. Ne allevavano circa cinque o sei all’anno; addirittura, quando nascevano le femmine, le vendevano e comperavano un vi-tello perché cresceva più velocemente. Per sfamare tutte quelle be-stie coltivavano l’erba medica ma non bastava, bisognava comprar-la in Amministrazione. Siccome col padrone si faceva tutto a metà, spartivano anche l’erba e il granturco, lui ne lasciava un po’ per le bestie, il resto lo portava in Amministrazione. Quando perciò la lo-ro parte era finita dovevano richiederla al padlo-rone che la dava sen-za farla pagare. Oltre all’allevamento delle bestie, poco prima degli anni sessanta cominciarono a coltivare i cavolfiori; siccome il po-dere era situato verso il fiume avevano l’acqua e potevano irrigarli.

Ma nel ’62 Antonio, allora aveva venticinque anni, come molti giovani quella volta, tentò di affrancarsi dalla terra e pensò di fare un’esperienza di lavoro in Lussemburgo; ci stette un anno e nel ’63 ritornò a casa dove riprese a lavorare la terra. Nel ’64 si sposò e smi-se definitivamente di fare il contadino; imparò a fare il muratore perché questo lavoro rendeva senz’altro di più.