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Le imbottite di Nora

Era arrivato settembre e Nora aveva avuto un po’ di ordini per fare le imbottite.

Il marito l’aiutava a montare il telaio: doppie aste di legno lungo i lati della stanza, fissate agli angoli e tenute sollevate da quattro ca-valletti. Tra le aste si fissavano i bordi della stoffa di cotone pesante, aranciata o rosso bordò; sopra si spargeva la lana in modo unifor-me, poi si stendeva e si fissava un nuovo telo. Preparata la struttura si passavano le imbastiture lungo i bordi per non far fuoriuscire la lana; con un gessetto, aiutati da una lunga asta, si tracciavano, sul-la stoffa, disegni geometrici, per lo più quadrati e losanghe. Allora Nora cominciava a passare lungo i bordi e lungo le linee geometri-che dei punti fitti fitti con un filo di cotone resistente. L’ago, lungo e spesso, passava sopra e sotto l’imbottita con ritmo uguale e No-ra accompagnava con la mano lo scorrere del filo. Il lavoro non eNo-ra difficile, ma richiedeva molta precisione. Anche la posizione non era agevole: dopo un po’ le braccia si intorpidivano e la schiena di-ventava dolorante e rigida specialmente quando bisognava dare i punti centrali allungandosi e stando curvi sopra il telaio.

Ma Nora era giovane e il lavoro fisico non la spaventava. Quan-do non lavorava al telaio passava e ripassava la casa che era linda come uno specchio.

Inoltre il suo lavoro era stagionale, iniziava alla fine dell’estate e terminava all’inizio dell’inverno; durava poco ma si svolgeva in ca-sa; non era più come andare a lavorare nei magazzini della verdura di Fano o Metaurilia dove d’inverno, in piedi, dovevi selezionare casse e casse di cavolfiori che ti gelavano le mani.

Tutto sommato, pensava, la vita con lei era stata generosa. I suoi fratelli erano tutti emigrati: una sorella in Canada, due fratelli in Svizzera, il fratello più grande era stato dato in affido. Quando erano piccoli, benché suo padre facesse il muratore e la mamma la sarta, non avevano a sufficienza. Una volta cresciuti, dopo la guer-ra, per i giovani non c’era lavoro, solo emigrare offriva nuove pro-spettive.

Lei, invece, da adolescente, aveva iniziato ad andare a lavorare come stagionale nei magazzini dove si imballavano, per essere spe-dite all’estero, casse e casse di pomodori, cavolfiori, peperoni. Era un lavoro ripetitivo, pesante, da svolgere sempre in piedi, ma si guadagnava a sufficienza e si prendeva con regolarità un salario su cui si poteva contare; il lavoro, tuttavia, era saltuario, non impegna-va tutto l’anno e inoltre la sua durata dipendeimpegna-va da come era andata la stagione della raccolta. Erano tante, comunque, le persone che vi lavoravano, soprattutto donne.

Raggiunti i venti anni la mamma però volle che la figlia impa-rasse un mestiere: saper fare qualcosa poteva sempre tornare uti-le. Una zia sapeva cucire le imbottite così la scelta fu presto fatta.

“Quella volta bisognava fare quello che dicevano i genitori!” dice ora Nora.

Intanto la ragazza aveva conosciuto un giovane di San Costanzo, mingherlino, moro, con occhi neri buoni, e di carattere mite. Era un reduce di guerra che aveva fatto l’esperienza del lager e che aveva più volte rischiato la vita durante le decimazioni. Quel giovane se-rio, coi suoi modi discreti, aveva destato l’interesse di Nora perché riusciva a stemperare il carattere focoso di lei.

Così a ventiquattro anni Nora si sposò e andò a vivere a San Costanzo, nel borgo di Solfanuccio, in una casetta di proprietà del marito. Era situata un pochino al di sotto della strada e aveva un ampio piazzale davanti e una striscia di giardino a livello della car-reggiata, a cui si accedeva grazie ad alcuni gradini. Di fianco alla casa c’era una capanna che serviva come garage e come ripostiglio

e, dietro, un orto che coltivava il marito, mentre Nora pensava al giardino. Ci faceva crescere calle, violaciocche, narcisi, rose, e non ci faceva salire nessuno.

Dopo sposata, sebbene il marito reduce di guerra godesse di una discreta pensione che gli permetteva di mantenere la famiglia, Nora volle continuare a lavorare per contribuire anche lei alle spe-se. Il marito, infatti, tornato debilitato dalla prigionia, aveva biso-gno di vivere in un clima salubre e di respirare l’aria di montagna;

così ogni estate la famiglia passava un mese in una località del no-stro Appennino e con il lavoro di Nora questa vacanza non pesava sull’economia della casa.

Nora continuò a confezionare imbottite anche dopo la nascita del primo figlio, una bambina, perché il marito la aiutava. Intanto però, erano gli inizi degli anni sessanta, il lavoro cominciava a di-minuire perché le trapunte, ora, si potevano trovare già pronte nei negozi. Quando le nacque il secondo figlio, perciò, smise di lavora-re perché due bambini richiedevano tutta la sua attenzione e tutto il suo tempo.

La sarta

“Nazareno, questa figlia non può andare a giornata come le so-relle;” gli disse un giorno il dottore “ha un fisico troppo delicato, non ce la fa; bisogna che la mandi a imparare un mestiere”.

“Come fosse facile!” pensava Nazareno.

Lui e sua moglie che, per pura coincidenza si chiamava Nazare-na anche lei, avevano avuto cinque figlie e a tutte dovevano prov-vedere la dote; non era impresa facile per un carrettiere e per sua moglie che, come tutte le donne di allora, arrotondava le magre en-trate andando a giornata dai contadini e allevando pecore e conigli.

Ma il medico aveva ragione, anche loro si erano accorti che quella figlia era più delicata delle altre così mandarono Ginia a im-parare a fare la sarta.

Ginia non era proprio il nome della ragazza; era un’abbreviazio-ne di Virginia, ma siccome così si chiamava la nonna paterna, in famiglia cominciarono a chiamarla come faceva la sorellina più pic-cola, e questo nomignolo le rimase appiccicato addosso.

In paese c’era Dide, una giovane sarta che piaceva a Ginia e le cui madri erano amiche, così cominciò ad andare ad imparare il mestiere da lei.

Dide abitava in una delle due case più belle di via Villetta Adria-tica, una costruzione a due piani di fattura elegante, con cornicioni bugnati, marcapiani in rilievo e un bel balcone a ringhiera. La casa era circondata da un vasto terreno che sul davanti era tenuto a giar-dino, dietro a orto e a spazio per le piccole bestiole d’allevamento.

Del giardino si occupava Dide, dell’orto la madre.

La giovane lavorava in una stanza a piano terra che dava sul giar-dino.

Ginia andava al lavoro molto volentieri; quando arrivava tutto quel giardino le sembrava una meraviglia e le piaceva attardarsi a osservare le calle, le zinie, le violaciocche, i narcisi coltivati in ai-uole.

A casa sua c’era dello spazio, dietro, ma era occupato dalle gab-bie dei conigli e dal recinto dei polli.

La giovane apprezzava molto che i suoi genitori l’avessero avvia-ta a un mestiere: non le sembrava vero non doversi più alzare all’al-ba per fare l’erall’al-ba per i conigli e tornare a giorno inoltrato con la gluppa sulla testa senza più forze.

In quel periodo Dide aveva solo lei come apprendista ma le due giovani non erano quasi mai sole: quando era a casa dai campi in casa c’era Giustina, la madre, qualche volta arrivava una cliente e, molto spesso, il fidanzato di Dide.

Un giovane, che capitava ogni tanto a Villetta a trovare degli amici, aveva mostrato interesse per la ragazza che aveva una corpo-ratura alta e slanciata, un bel viso schietto, capelli dritti e corti ma resi ondulati dalla permanente. A Ginia il ragazzo non dispiaceva e si confidava con Dide che, di qualche anno più grande, era fidan-zata da un po’.

Il lavoro scorreva in modo rilassato tranne quando c’erano da fi-nire gli abiti per una cerimonia, in particolare l’abito da sposa. Di-de allora era sempre tesa perché la responsabilità era tanta e anche Ginia lavorava con molta più attenzione.

All’inizio dell’apprendistato il lavoro era monotono ma l’ago era meno pesante della falce. Quando la ragazza cominciò a cucire da sola le prime gonne e i primi vestiti, la soddisfazione che provò la ripagò di tutti i sopramani e i sottopunti che aveva dato nei primi tempi.

Un altro aspetto che le piaceva del suo lavoro, o meglio del fatto di andare a casa della sua amica e insegnante, era che spesso poteva fermarsi a pranzo.

A casa di Ginia la madre, quando tornava verso mezzogiorno

dall’aver fatto l’erba, preparava in fretta i tagliolini con la fava, in un brodo vegetale scarno insaporito solo da pezzi di pomodoro gal-leggianti. A Ginia quei tagliolini non andavano giù. Dide e Giusti-na lo sapevano così, spesso, facevano rimanere la ragazza a pranzo.

Non che da loro si sfarzasse ma erano un po’ meno in ristrettezza e il cibo era meglio condito.

L’apprendistato di Ginia durò circa tre anni poi dovette andare a Fano alla scuola di taglio da una sarta rinomata da cui andavano molte delle apprendiste della zona.

Quando finalmente potè lavorare in proprio, i genitori le com-prarono la macchina da cucire, una Singer a pedale di cui andava molto fiera e che conservò per tanti anni.

Ebbe i primi cottimi soprattutto grazie alla divisione di una grande famiglia patriarcale in più nuclei familiari, i quali la scelsero come sarta perché la conoscevano fin da piccola.

La soddisfazione più grande per Ginia, diventata sarta, fu quella di poter cucire gli abiti per sé e le sorelle.

Periodicamente ricevevano dai parenti emigrati in America dei pacchi di abiti dismessi. Aprirli era una meraviglia: contenevano abiti da riadattare per tutti. Quando passava per il paese, con uno di quegli abiti rimesso a nuovo, Ginia sembrava una modella e tutti si giravano a guardarla; lei, che sapeva di essere una bella ragazza e teneva molto al suo aspetto, si sentiva piena di orgoglio.

Intanto la storia col giovane che l’aveva notata andò avanti. Lui faceva il falegname e quando si sposarono lei aveva solo vent’anni.

Gina cambiò casa ma continuò a fare la sarta, un mestiere che le piaceva molto e che praticò per lunghi anni ancora.