Carrettieri
Nazareno faceva il carrettiere, un mestiere che a San Costanzo svolgevano in molti. Si era costituita addirittura la società dei car-rettieri, in tutto erano dieci o dodici. Il presidente era Nicola Fur-lani, inoltre vi facevano parte: Gig del Plos, Santin d’ Piciafoc, Ar-mando del Re, Primo Renzoni, Primo d’ Bugos, Marino d’ Cucuia, ed altri ancora.
Allora questa società aveva l’appalto della breccia da parte del Comune. Le strade erano bianche, non ancora asfaltate e i carret-tieri dovevano portare tanti metri di breccia per le strade di tutto il Comune; facevano quello che oggi fanno i camionisti.
La breccia la prendevano a Marotta verso la foce del Cesano e si aiutavano l’un l’altro a caricare.
Partivano tutti in fila a passo lento, col ritmo dato dall’incedere pigro degli asini e dei muli. Al ritorno uno scaricava per la costa di Marotta, un altro per quella di Fano, un altro ancora per quella di Torrette; altri venivano su e portavano la breccia a Cerasa e a Stac-ciola; dovevano servire tutto il territorio comunale.
I carrettieri avevano anche il trasporto del grano dal Consorzio al porto di Fano da dove veniva spedito per essere venduto in altre par-ti d’Italia. A volte facevano il trasporto anche per i contadini, o per qualche negoziante che aveva bisogno di merce dai paesi limitrofi.
Nazareno si alzava molto presto perché la mattina tutta la squa-dra partiva verso le quattro anche d’inverno, per arrivare lungo il mare di Marotta. A volte facevano più di un viaggio.
Lina e Elia, le due figlie ormai grandi, andavano invece con la mamma a fare il fieno.
Il lavoro di carrettiere di Nazareno era l’unica risorsa certa per la famiglia ma anche questo pieno di imprevisti. All’inizio l’uomo aveva un mulo per trasportare il carretto; per comprarlo gli ave-va dato mille lire il suocero che tutti chiamaave-vano Babon ma che si chiamava Giuseppe. Il mulo, però, gli morì presto così comprò due somari prima Binda e poi Olmo che era nero nero. Quando anche questo somaro morì comprò Guerra. Binda e Guerra erano, a quei tempi, due corridori campioni di ciclismo e Nazareno, in loro ono-re, chiamò così i due animali. Binda era quello che tirava, era mol-to bravo, aveva la forza di un leone e Nazareno gli voleva molmol-to be-ne; Guerra, invece, faceva da bilanciere. L’uomo li incitava con la frusta:“Dai Binda, dai Guerra” e loro ubbidivano, ma non li mal-trattò mai. Lavorava fino alle due o le tre del pomeriggio, qualche volta, a seconda dei viaggi che doveva fare, tornava anche a mezzo-giorno. La moglie, che si chiamava Nazarena, proprio come il mari-to, nel frattempo andava in campagna a fare il fieno, a raccogliere le cipolle per il maiale, a fare l’erba per i conigli o a mietere a giornata e portava con sé Elia e Lina, le due figlie grandi non ancora sposa-te. Elia ricorda che la mamma quando andavano verso la Volpella, dove avevano la terra dei suoi cugini, le diceva di andare a cogliere qualche pannocchia di granoturco senza farsi vedere; non stava be-ne che la scoprissero, tra l’altro erano parenti. Lei andava e nascon-deva le pannocchie nella gluppa28. Da questi parenti la mamma an-dava a giornata così durante la mietitura portava anche la figlia; la lasciava lì alcuni giorni almeno poteva mangiare.
La donna tutte le mattine che andava in campagna non rientra-va prima di mezzogiorno. Quando il marito tornarientra-va volerientra-va il man-giare pronto e Nazarena gli diceva. “Io sono stata in campagna a piedi, tu sei andato a cavallo, sono tornata adesso, come fa ad es-sere pronto?”
28 Gluppa: telo di stoffa o zinale in cui si raccoglieva l’erba, formando un fagot-to, per trasportarla sulla testa.
Per cucinare bisognava andare a prendere l’acqua con l’orcio o alla Fonte Vecchia o da Fornaciari, un contadino che aveva la terra a un chilometro circa da casa loro, dietro il Consorzio. La fontana comunale vicino a casa, infatti, dava l’acqua solo due o tre ore al giorno quando loro erano in campagna. Da mangiare c’era molto poco e la donna doveva intridere lì per lì la pasta: tagliolini, taglia-telle, quadrelli.
Qualche volta Nazareno, quando durante i suoi viaggi passava davanti a casa sua per andare a Cerasa, si caricava Teresita, la figlia più piccola, e la portava con sé; per non farla cadere la faceva sedere dietro sulla ghiaia; lei era molto contenta di quei viaggi.
La situazione economica della famiglia cambiò un po’ quan-do, attorno agli anni ’40, Nazareno ebbe la possibilità di entrare a lavorare al Consorzio come facchino. Comunque non poterono mai permettersi tante piccole cose che avrebbero fatto contenta una bimba, come succedeva nelle famiglie più benestanti. Teresita ri-corda in particolare una circostanza che da piccola la faceva sentire da meno di alcune sue amiche. Verso metà pomeriggio le mamme le chiamavano sempre per la merenda. Lei pensava: “Perché mam-ma non mi chiamam-ma mam-mai?” A casa loro non c’era niente per fare me-renda, inoltre la mamma in quel momento della giornata era anco-ra in campagna per l’erba o il fieno, come faceva a chiamarla? Allo-ra mentre le sue amiche mangiavano pane e marmellata di fichi o pane e olive, se non ne davano una fettina anche a lei, la bimba, per non essere da meno, prendeva una cipollina e la mangiava col sale che teneva nel cavo di una mano.
Quando il babbo iniziò a fare il facchino, Teresita ricorda che gli portava sempre la colazione e la merenda, mentre a mezzogiorno il babbo andava a mangiare a casa. Gli preparava un uovo in frittata o andava al negozio di alimentari di Pain a comperargli un pezzet-to di formaggio a debipezzet-to, poi pagavano quando arrivava la paga. La sorella maggiore, sposata con un contadino vicino, gli portava sem-pre un bicchiere di vino fresco sem-preso dalla grotta e qualche volta gli
andava a prendere la birra nell’osteria del cognato. Il babbo gioiva quando la vedeva arrivare con quel bicchiere di vino o con la bir-ra. Sua sorella, dice Teresita, ebbe sempre particolare riguardo per il babbo e gli fu sempre molto vicina anche quando, ormai anziano, si ammalò gravemente.
Quando Nazareno smise di fare il carrettiere e non avevano più i somari, al loro posto cominciarono a tenere le pecore. Dietro la cucina, che dava sulla strada, c’era una piccola stalla, piuttosto bu-ia, col pavimento di bitume. A Teresita capita ancora di fare qual-che sogno in cui vede la stalla com’era una volta: un recinto con la greppia e, sotto le scale, il posto per il maiale. Avevano quattro o cinque pecore che tenevano per la lana e per gli agnellini che ven-devano al mercato di Mondolfo.
La mamma andava a fare l’erba fresca e la stendeva nel corrido-io, dal portone fino in cima alle scale perché non avevano altro po-sto; lasciava solo il passaggio per salire alle camere. Per avere il fieno per l’inverno faceva il pagliaio da Riciut, un contadino loro paren-te, che aveva la casa e il campo proprio di fronte a casa loro. Andava a raggranellare il fieno per i campi, lo tagliava e lo lasciava sul posto a seccare; quando era secco lo raccoglieva in un fascio e lo portava a casa. Quante volte Teresita le andò incontro per aiutarla!
Avevano anche i conigli che tenevano nei gabbioni sull’orto die-tro casa e la mamma faceva l’erba anche per loro; qualche volta toc-cò anche a Teresita andare ma era poco pratica.
La giovane in quel periodo andava a imparare a fare la sarta ma alla mattina, verso le cinque, prima del levar del sole, doveva porta-re le pecoporta-re a pascolaporta-re in via San Vitale, da Nataloni, un contadino che aveva dato il permesso di farle pascolare in un pezzetto di cam-po incolto. Andava con una amica che si chiamava Mariolina e un amico che si chiamava Aldo, anche loro con le loro pecore. Portava una giacchetta vecchia del babbo e, una volta arrivati, ci si sdraiava per dormire perché aveva molto sonno. Le pecore partivano da so-le, sapevano dove andare, pascolavano tranquille e al ritorno
ognu-na andava nel suo recinto, parevano ammaestrate. Teresita ricorda che una volta, mentre rientravano, colsero le angurie nel campo di un contadino che si incontrava prima di arrivare al pascolo. La frutta non potevano permettersela pertanto, quando potevano, la rubacchiavano ai contadini. Mentre passavano davanti alla casa del contadino erano molto preoccupati che li avesse visti invece la pas-sarono liscia. La frutta potevano di nuovo mangiarla solo quando riusciva a trovarla la mamma in campagna, sempre raccolta di na-scosto: a volte riportava qualche grappolo d’uva o qualche fico fatti scomparire nella gluppa. Lei si accorgeva se la frutta l’aveva o no a seconda di come lasciava cadere il fascio dell’erba nel corridoio di casa. Se lo buttava a terra di botto significava che l’involto contene-va solo erba, se lo appoggiacontene-va con delicatezza volecontene-va dire che conte-neva anche qualche frutto.
Anche la vita di Teresita cambiò radicalmente, quando fu nota-ta da un giovane carabiniere del paese che la corteggiò e infine potè sposarla, portandola a vivere in un paese abbastanza vicino a San Costanzo da permetterle periodici contatti con la famiglia.