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combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie, non costituisce un rifiuto a

sensi della direttiva del Consiglio del 15 luglio 1975, 75/42/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE”); ciò che aveva consentito agli interpreti di elaborare un principio, secondo cui, in caso di riutilizzo diretto, senza previa trasformazione, non era richiesto dal diritto comunitario, che la sostanza o l’oggetto fosse riutilizzato dallo stesso produttore, essendo sufficiente che il riuso fosse effettivamente operato “in continuità del processo di produzione”, così DE SADELEER, Rifiuti, prodotti, sottoprodotti, cit., 42. Critico nei confronti della decisione V. PAONE, La

tutela dell’ambiente e l’inquinamento da rifiuti, cit., 199, il quale avanza perplessità sulle considerazioni

espresse dalla Corte sulla natura del pet-coke, in quanto sorvola sul fatto che la combustione per la produzione di energia costituiva modalità tipica di recupero di rifiuti, che il reimpiego della sostanza avveniva dopo almeno tre operazioni preliminari e che la stessa raffineria di Gela considerasse il coke da petrolio quale rifiuto. Deve in ogni caso rilevarsi come la sentenza, partendo dalla considerazione che nel caso concreto il coke da petrolio non costituisse un rifiuto, ometteva di pronunciarsi sulle altre questioni sollevate dal Giudice di Gela, ed in particolare sulla compatibilità della normativa italiana con quella comunitaria, non chiarendo, peraltro, se la specifica sostanza potesse sempre e comunque essere sottratta alla disciplina sui rifiuti.

195 Ciò che dovrebbe rilevare ai fini migliore comprensione dei criteri di individuazione del rifiuto è, invero, la diretta utilizzabilità della cosa alla sua originaria conformazione, in mancanza della quale si può ragionevolmente ritenere l’intenzione di disfarsene: tornando agli esempi citati, quindi, l’autoveicolo

guasto ma riparabile o usato da vendere a terzi, che può ancora essere utilizzato come autoveicolo, non è

rifiuto, mentre lo è nel caso in cui si trovi in condizioni tali da non conservare più tale caratteristica anche se i suoi componenti possono essere recuperati e rivenduti (in tal senso si veda G. AMENDOLA, Rifiuto,

disfarsi, recupero e smaltimento: problemi vecchi e nuovi del recente decreto sui rifiuti, in Riv. giur. ambiente, 1998, 193 ss.). Ancor più chiaramente, si è osservato che i vecchi giornali o un mobile usato

sono rifiuti se, non essendo più di nessuna utilità per il detentore, vengono conferiti ad un servizio di raccolta o alienati a terzi, mentre non lo sono, se ceduti ad un antiquario o ad un collezionista che continueranno ad utilizzarli secondo la loro originaria destinazione (PAONE, Residui, sottoprodotti e

rifiuti: quale futuro?, cit., p. 553).

196 Cfr. P. GIAMPIETRO, L’interpretazione “autentica” della nozione di rifiuto secondo la Corte di

Venendo al caso di specie, si è visto che la Corte, in applicazione delle suddette restrizioni, stabiliva che costituiva rifiuto il materiale ferroso destinato alle imprese siderurgiche riutilizzato tal quale, e sottoposto soltanto al trattamento minimale della cernita, che lascia immutate le originarie caratteristiche merceologiche della sostanza e non comporta alcuna trasformazione; si aggiungeva, inoltre, che il materiale in oggetto perdesse la qualifica di rifiuto solo al momento della sua trasformazione in prodotto finito per la cui realizzazione veniva riutilizzato; è evidente come tale ricostruzione non lasciasse alcuno spazio di operatività alla nozione “di materia prima secondaria”, già elaborata dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, in quanto, di fatto, assorbita da quella di rifiuto da un lato e prodotto dall’altro.

Tuttavia, come già segnalato, la questione che destava le maggiori preoccupazioni

aveva riguardo alle conseguenze della sentenza sui procedimenti penali ed

amministrativi riguardanti condotte di gestione di residui di produzione o di consumo

astrattamente rientranti nella definizione dell’art. 14 d.l. 138/2002.

La Corte di Giustizia, infatti, non affronta direttamente il tema spinoso della legge da applicare al caso concreto da parte del giudice nazionale, limitandosi a richiamare i suoi precedenti secondo cui “una direttiva non può avere l’effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni”. Viene, peraltro, evidenziato come nel caso di specie le condotte dell’imputato erano state commesse nella vigenza della normativa pregressa, conforme all’ordinamento comunitario. Le modifiche sopravvenute le avevano, poi, sottratte dalla portata applicativa della disposizione sanzionatoria.

Facendo rinvio a quanto esposto nel corso del Capitolo precedente sui conflitti “triadici”, in questa sede si richiameranno le sentenze del giudice di legittimità e delle leggi (fino alla fondamentale sentenza 25 gennaio 2010, n. 28 della Corte costituzionale), che hanno affrontato il problema relativo alle modalità in cui deve riconoscersi la preminenza del diritto comunitario, ove norme interne sopravvenute, più favorevoli all’imputato, abbiano neutralizzato l’efficacia di disposizioni preesistenti, conformi al dettato sovranazionale.

A fronte della situazione di incertezza generata dalla nozione di rifiuto delineata dalla Corte, si registrano due orientamenti: alcune pronunce di legittimità e di merito riconoscono ad essa portata autoapplicativa; altre, invece, evidenziano come il dovere-potere di disapplicazione riguardi le sole ipotesi di contrasto tra una norma interna e norma comunitaria self-executing, conseguentemente, considerato che le sentenze del giudice lussemburghese hanno la stessa efficacia delle disposizioni interpretate, il giudice italiano che avesse dato applicazione alla suddetta pronuncia avrebbe finito col dare diretta applicazione ad una direttiva comunitaria sprovvista di effetto diretto197.

197 Va, peraltro, evidenziato che la giurisprudenza di legittimità, ricorrendo ad interpretazioni estremamente rigorose dei requisiti richiesti dall’art. 14, di fatto lo disapplicava, cfr. Cass. pen., sez. III, 19 gennaio 2005, n. 4702, Scipioni, in CED rv.230682, e Id., 19 maggio 2006, n. 23494, Curto, in Riv.

pen., 2007, p. 171, che hanno fatto rientrare nelle operazioni di recupero la rigenerazione dei pneumatici

usati; ID., 8 marzo 2005, n. 12366, Fatta e altro, in Dir. e giur. agr., 2006, p. 254, che ha escluso la qualifica di residuo riutilizzabile tal quale al “pastazzo di agrumi”, in quanto sottoposto a fermentazione; ID., 9 giugno 2005, n. 36955, Noto, in Cass. pen., 2006, p. 2940, ha ritenuto pregiudizievole per l’ambiente il riutilizzo di materiali provenienti da demolizione edilizia.

Ciò detto, non vi è dubbio che in ogni caso, l’eventuale disapplicazione dell’art.14 avrebbe comunque dovuto fare salvi i fatti di reato commessi durante la sua vigenza prima della sentenza Niselli, in virtù del principio di irretroattività della norma penale più sfavorevole, senz’altro applicabile relativamente ai fatti concomitanti; e che paradossalmente, la disapplicazione non avrebbe potuto operare neanche con riferimento al procedimento pendente presso il Tribunale di Terni che aveva originato l’arresto in esame198. Si osserva, infine, che la vigenza della normativa nazionale avrebbe al limite potuto rilevare come elemento di scusabilità dell’error iuris, ai sensi della rilettura costituzionale dell’art. 5 c.p.199.

Si è visto che altro problema di grande rilevanza concerneva l’individuazione dello

strumento giuridico esperibile per rimediare al vulnus recato alla direttiva europea

dall’intervento in commento. La Corte di Cassazione in una importante pronuncia del

2006

200

affronta questa tematica, affermando che la via corretta per far valere il

contrasto del diritto interno con quello comunitario, fosse rappresentata dal ricorso

all’incidente di costituzionalità ex artt. 11 e 117 Cost

201

.

Nel caso sottoposto al suo esame, il giudice ravvisava che l’art. 14, escludendo dalla