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modificare la disciplina dei controlli sul trasporto dei rifiuti pericolosi né la normativa in materia di Albo

nazionale dei gestori ambientali (cfr. Corte Cost., 14 marzo 2008, n. 62, con cui il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Provincia autonoma di Bolzano 26 maggio 2006, n. 4 (“La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo”) per violazione della direttiva 2006/12/CE sui rifiuti (e quindi, mediatamente, dell’art. 117, comma 1, Cost.) e ciò in ragione del contrasto della normativa provinciale con la nozione comunitaria di rifiuto elaborata dalla Corte di Lussemburgo; cfr. anche la sentenza n. 28 del 2010, cit., per la definizione di sottoprodotto).

155 Così PULITANÒ, voce Ignoranza della legge (diritto penale), in Enc. Dir., Giuffrè, 1970, vol. XX, p. 41

156 È evidente come il corretto inquadramento della nozione di rifiuto sia di fondamentale importanza per l’individuazione delle sostanze, che devono sottostare alle disposizioni in materia. A questo riguardo un ben noto problema di qualificazione giuridica è quello relativo alle materie fecali, che hanno una particolare predisposizione a presentarsi di volta in volta come oggetto della disciplina sui rifiuti, ed in particolare come oggetto del reato di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, di cui si è occupata anche di recente la Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. III 13 aprile 2010, n. 22036, in Cass.

Pen., n. 1, 2012, p. 218, con nota di D. POTETTI, Le materie fecali di origine animale, fra la normativa sui rifiuti e quella sugli scarichi idrici), o di quella sugli scarichi idrici, cfr. infra nota n. 305.

157 Come accennato in precedenza, infatti, molto spesso si riscontra, nella pratica applicazione di tali disposizioni, la tendenza a simulare la sussistenza di condizioni tali da sottrarre dal novero dei rifiuti determinate sostanze, per gestirle, pur essendo a tutti gli effetti rifiuti, al di fuori di ogni controllo.

La definizione viene inizialmente riprodotta, in modo invero impreciso, nel d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, il cui art. 2 dispone che è rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto derivante da attività umana o da

cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono” 158.

La diversità di formulazione veniva superata dai primi commentatori attraverso un’interpretazione “ortopedica” ispirata al dettato della direttiva, al fine di rapportare il concetto di abbandono a quello di “assenza di utilità” per il detentore, il quale conseguentemente si disfaceva o intendeva disfarsi della cosa159.

Tale impostazione è stata fatta propria anche dalla giurisprudenza di legittimità, che si è occupata di un ipotizzato contrasto tra la definizione nazionale e quella comunitaria, in quanto la prima con il termine “abbandono” si sarebbe riferita ad uno stato obiettivo delle cose, mentre la seconda avrebbe dato una nozione più ristretta di rifiuto, perché con il termine “disfarsi” avrebbe richiamato una condotta umana: secondo la Corte di Cassazione i due termini sono equivalenti, atteso che “anche la situazione di

abbandono della cosa ha l’implicito requisito della dimissione da parte del detentore”160.

158 Tale provvedimento, che recepisce oltre alla direttiva in commento anche quelle 78/319/CE sui rifiuti tossici e pericolosi e 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e policlorotrifenili, contrariamente alla legislazione previgente (r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, testo unico delle leggi sanitarie; l. 20 marzo 1941, n. 366, in materia di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani), fornisce, all’art. 2, una definizione di rifiuto; paradossalmente è con l’emanazione di una norma definitoria, che cominciano ad emergere questioni interpretative in ordine alla corretta delimitazione dell’oggetto materiale della condotta. In altre parole, sembra doversi constatare che la nozione di rifiuto non ha posto significativi problemi sino a quando non è stata normativamente definita. In realtà ciò non deve sorprendere, dal momento che la tutela penale della gestione dei rifiuti pregressa era strettamente collegata alla tutela della salute umana, individuale e collettiva (tutele che, nonostante il moltiplicarsi delle normative speciali, trovano ancor oggi applicazione in sede giurisdizionale, per lo più in concorso con le nuove fattispecie sanzionatorie: cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. I, 10 dicembre 2009, n. 1422, A. e altro, in Dir. e giust., 2010 che ha applicato l’art. 650 c.p. alla violazione di un provvedimento emesso per ragioni di igiene pubblica dal sindaco ai sensi dell’art. 217, r.d. 1265/1934). Cfr. F.C. PALAZZO,

Principi fondamentali e opzioni politico criminali nella tutela penale dell’ambiente, in Ambiente e diritto,

a cura di S. Grassi, M. Cecchetti, A. Andronio, Firenze, 1999, II, 555 ss., che osserva come sia più agevole, soprattutto in una prospettiva di concreta offensività del fatto, ritagliare comportamenti offensivi nei confronti di ognuna delle componenti ambientali singolarmente considerate, piuttosto che nei confronti del sistema naturale nel suo complesso; nello stesso senso, G. DE FRANCESCO, Interessi

collettivi e tutela penale, “Funzioni” e programmi di disciplina dell’attuale complessità sociale, in Studi in onore di G. Marinucci, Milano, 2006, I, 937.

159 G. AMENDOLA, Smaltimento di rifiuti e legge penale, Napoli, 1985, 16 ss.; A. POSTIGLIONE, La

disciplina dei rifiuti in Italia, in Riv. pen., 1984, 993 ss.; N. LUGARESI, Il riutilizzo dei rifiuti e il regime autorizzatorio per lo smaltimento dei rifiuti, in Sanità pubb., 1987, 781 ss.

160 Cfr. Cass. pen., sez. III, 16 febbraio 1988, Ridolfi, in Giust. pen., 1989, II, 427, che, quindi, accoglie una concezione oggettiva di rifiuto secondo cui poteva ritenersi escluso dalla relativa nozione soltanto il materiale di scarto destinato ad essere utilizzato tal quale all’interno dello stesso insediamento produttivo che lo ha prodotto, venendo soltanto in questo caso a mancare la sussistenza della condizione di abbandono o di destinazione all’abbandono della sostanza. A tale impostazione, si contrappone la teoria soggettivistica, alla cui stregua l’espressione “destinata all’abbandono”, soprattutto se letta in raffronto con il termine “abbandonato” e in rapporto al testo della direttiva comunitaria che il decreto del 1982

L’infelice trasposizione della definizione comunitaria non appare, comunque, legata a mera sciatteria, ma piuttosto ad una sorta di resistenza culturale del nostro legislatore, il quale muoveva dalle precedenti normative in materia161, ancorate ad un concetto di rifiuto legato a quello di immondizia, di res derelicta. Tra i vari problemi applicativi sollevati da tale prima definizione legislativa di rifiuto vi è da segnalare la questione della riconducibilità ad essa di alcuni residui di produzione industriale162. Il legislatore interviene sul punto con la legge 9 novembre 1988, n. 475 (di conversione con modificazioni del d.l. 9 settembre 1988, n. 397, recante disposizioni urgenti in materia di smaltimento dei rifiuti industriali), che introduce la categoria delle “materie prime secondarie”163

, al fine di sottrarle alla più severa disciplina generale di cui al d.p.r. n. 915 del 1982, rinviando poi la loro puntuale individuazione ad un atto successivo, nella specie il D.M. 26 gennaio 1990 del Ministero dell'ambiente. La disciplina, tuttavia, non chiariva quali fossero le conseguenze della violazione della procedure previste per la particolare categoria di residui così come disciplinata dall’art. 3 del decreto ministeriale, alimentando le incertezze circa il loro inquadramento giuridico. In particolare, i sostenitori della teoria soggettiva, sostenevano che la novella normativa andasse a disciplinare una categoria, quella in esame, già ricavabile dal d.P.R. 915/1982, frutto di elaborazione dottrinale e riconosciuta dalle pronunce della giurisprudenza. Secondo tale impostazione, le materie prime secondarie ricomprenderebbero quei residui, che il detentore vuole riutilizzare piuttosto che abbandonare, e quindi ab origine sottratti alla nozione e alla disciplina sui rifiuti; la categoria si collocherebbe a monte della nozione di rifiuto, risultando alternativa e anzi contrapposta alla stessa. Secondo una diversa impostazione, invece, la categoria delle materie prime secondarie doveva essere ritenuta un genus speciale di rifiuti, sottoposti a specifica disciplina e ad eccezioni particolari. In altre parole, le materie prime secondarie, già a norma dell’art. 2 della l. 475/1988, sarebbero state da considerarsi rifiuti che, solo a determinate condizioni, potevano essere sottratti alla relativa disciplina. Come si vede, dunque, le opposte interpretazioni portavano ad effetti radicalmente diversi con particolare riferimento alla disciplina sanzionatoria: secondo la prima impostazione, l’eventuale violazione della disciplina particolare dettata per le materie prime secondarie poteva comportare una responsabilità amministrativa, laddove prevista, ma mai l’applicazione delle fattispecie penali incentrate sull’oggettività giuridica del “rifiuto”; viceversa, secondo la seconda impostazione, le materie prime secondarie rimanevano rifiuti, la cui disciplina derogatoria era condizionata dal pieno rispetto delle procedure speciali previste dalla legge, con la conseguenza che l’eventuale violazione di quest’ultime comportava la piena applicabilità delle sanzioni amministrative e penali previsti dalla normativa sulla gestione dei rifiuti. In questa situazione di incertezza, interviene la Corte Costituzionale con la sentenza 30 ottobre 1990, n. 512, occasionata da un ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dalla provincia autonoma di Trento, che lamentava l’illegittimità costituzionale di numerosi articoli del decreto ministeriale, in quanto esorbitanti dai limiti propri del potere ministeriale di emanare norme tecniche generali. La Consulta in numerosi obiter dicta si sofferma sulla nozione di rifiuto, confermando

intendeva recepire, non poteva non alludere alla destinazione impressa alla cosa dalla volontà del suo detentore.

161 Cfr. supra nota n. 157.

162 La direttiva n. 442/75 non conteneva alcuna norma sulle materie prime secondarie, non chiarendo, quindi, quando un rifiuto, a seguito di determinate operazioni di recupero, cessasse di essere, diventano di nuovo fruibile sul mercato come prodotto (c.d. End of Waste).

163 L’art. 2, L. 475/1988 le identificava come “i residui derivanti da processi produttivi e che sono

suscettibili, eventualmente previ idonei trattamenti, di essere utilizzati come materie prime in altri processi produttivi della stessa o di altra natura”.

l’orientamento già espresso dalla Corte di Giustizia164 e dal giudice di legittimità165, secondo cui essa non deve essere intesa nel senso di escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, in quanto l’utilizzo da parte di altri processi produttivi, non può per ciò solo vanificare il controllo pubblico di fasi essenziali di smaltimento. Ciò premesso, nel caso di specie, la Consulta dichiara costituzionalmente illegittime le norme impugnate sotto il profilo che non è lecito emanare, mediante un decreto ministeriale, una serie di prescrizioni che impongono agli operatori del settore alcuni adempimenti o che estendono alle materie prime secondarie alcune norme di valore legislativo previste per i rifiuti o per le materie prime, “dal momento che sono state adottate senza la dovuta copertura legale e con un atto (decreto ministeriale) inidoneo a validamente porre norme diverse da quelle tecniche generali”. La pronuncia in esame ha, quindi, comportato la sostanziale caducazione del d.m. 26 gennaio 1990, decretando di fatto la mancata attuazione della l. 475/1988.

La direttiva 156/91/CE del 18 marzo 1991 introduce alcune importanti modifiche alla