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2. 16 Come si diventa Ryszard Kapuściński

Una breve ricognizione nella vita di un uomo, prima che di giornalista, reporter e scrittore, non è di certo sufficiente a descrivere a pieno e in maniera esauriente lo stesso uomo. Una cosa però ci pare di averla colta: con una biografia così impregnata di mondo e

28Cfr.Domosławski 2012: 522.

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di storie, un uomo non verrà dimenticato. Tanto più perché ci ha restituito le storie che ha vissuto, scrivendo dei capolavori, alcuni dei quali già sono considerati dei classici, che provano ad avvicinare i lettori ai luoghi più disparati del pianeta, in qualunque luogo noi stessi ci troviamo.

Uno dei più grandi pregi di Kapuściński probabilmente è stato proprio questo: costruire, o perlomeno provare a costruire, dialoghi fra situazioni e persone apparentemente troppo distanti fra loro (geograficamente e culturalmente). Non a caso, nel suo ultimo periodo, amerà definirsi un “traduttore di culture”30

.

Si diventa Ryszard Kapuściński se si sceglie un lavoro, come quello del reporter, che richiede sacrifici e dedizione, che comporta il raccontare il mondo attraverso i propri occhi e le proprie scarpe; quando si ritrova negli Altri uno specchio per sé stessi e se si è attenti ai più poveri e ai più miseri, a quell’enorme massa di esseri umani che non hanno voce, e a cui alcuni giornalisti prestano la loro. Si diventa Ryszard Kapuściński se non si smette mai, fino all’ultimo, di tenere gli occhi spalancati sul mondo con l’ambizione di capirlo (e raccontarlo) ogni giorno un poco di più del precedente.

30 Si veda Kapuściński 2008: 19.

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3. (Auto)Ritratto di un reporter

Essere reporter non è affare per tutti:

Il viaggio a scopo di reportage esclude qualsiasi curiosità turistica, esige un duro lavoro e una solida preparazione teorica, per esempio la conoscenza del terreno su cui ci si muove. È un modo di viaggiare senza un momento di relax, in continua concentrazione e raccoglimento. Dobbiamo essere consapevoli che il luogo nel quale siamo giunti ci viene concesso una volta sola nella vita, che probabilmente non ci torneremo mai più e che abbiamo solo un’ora per conoscerlo. In un’ora dobbiamo registrare l’atmosfera e la situazione, vedere, ricordare, sentire più cose possibili.

Il viaggio del reporter fuori dall’Europa e dagli USA è un viaggio duro, spesso micidiale, poiché nel resto del mondo le comunicazioni sono male organizzate. Il reporter deve affrontare un’enorme fatica logistica, fisica e intellettuale. Il viaggio a scopo di reportage sfibra e distrugge (Kapuściński 2008: 13)

Kapuściński ci insegna che quello del reporter non è un lavoro facile, richiede un sacrificio continuo prima, durante e dopo il viaggio.

Molto importante nel suo metodo di lavoro è proprio la preparazione di un viaggio: la raccolta di dati, informazioni e notizie che dovranno fornire un apparato teorico la cui presenza è essenziale per affrontare una nuova missione e per essere pronto a cosa andrà incontro. Una lezione, quella della necessità di predisporsi intellettualmente all’ambiente che lo attende, che impara sin dai tempi dell’India. Da quel momento in avanti ogni sua partenza sarà appunto preceduta da un’accurata e intensa lettura di svariati testi sulla storia, tradizioni e cultura del luogo che dovrà descrivere; strumenti conoscitivi che si riveleranno per lui fondamentali e imprescindibili nella fase di rielaborazione dei dati visti e vissuti in prima persona.31 Ma anche una volta giunti sul campo sono necessari alcuni requisiti fondamentali:

Agli studenti che mi chiedono cosa si debba fare per diventare corrispondente estero, rispondo che bisogna ottemperare a otto requisiti: salute fisica, resistenza psichica, curiosità del mondo, conoscenza delle lingue, capacità di viaggiare, apertura verso

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genti e culture diverse dalla nostra, passione e, soprattutto, capacità di pensare (Kapuściński 2008: 27)

E come viaggia, una volta arrivato a destinazione, un buon reporter? Leggero. Leggero e da solo.

Chi l’accompagna nei suoi viaggi?

I miei pensieri. Punto e basta. Non si stupisca. […]

Non si tratta di un piacere, ma di uno sforzo che esige concentrazione e il desiderio di conoscere altre genti, altre culture eccetera. È uno sforzo possibile solo a patto di concentrarsi, e quindi di essere soli: ogni lavoro creativo richiede concentrazione e solitudine. Per scrivere poesie o dipingere quadri ci si ritira in solitudine. Se si considera alla stessa stregua la conoscenza del mondo, bisogna essere soli anche durante il viaggio (Kapuściński 2008:14)

Così come il lavoro di rielaborazione e scrittura deve avvenire in un contesto, per così dire, di sacrificio: “per scrivere bisogna chiudersi in una cella, come i monaci. Niente panorami. Bisogna restare senza distrazioni, soli con la memoria. Cervantes scrisse Don Chisciotte in galera, no? Io mi limito a barricarmi nella mia mansarda di Varsavia” (citato in Rumiz 2007). Perché scrivere, dice Kapuściński, è simile al mestiere dell’archeologo: fatica e sudore, un continuo picconare. L’uno scava nella terra, l’altro nella pagina bianca.32 Quello che distingueva il metodo di lavoro sul campo del Nostro da quello degli altri giornalisti, è sicuramente l’approccio che adottava rispetto agli eventi che doveva raccontare. Ricorderà William Pike di come, in Uganda, al contrario di tutti gli altri giornalisti e corrispondenti esteri Kapuściński non assisteva mai ai colloqui ufficiali. Il collega inglese lo ritrovò, a fine negoziati tra governo e ribelli, a parlare con alcuni soldati davanti ad una tazza di tè in una delle loro precarie capanne: si stavano lamentando di non ricevere la paga promessa loro, e di conseguenza essere stati costretti a depredare alcuni villaggi della zona. Il collega inglese percepisce che Kapuściński, parlando con quei soldati, aveva capito quella guerra molto meglio di chi come lui aveva assistito ai colloqui ufficiali (Domoslawski 2012: 409). Ma questo modo di approcciarsi agli eventi passando, per così dire, per vie alternative, è un approccio che il reporter non si riserva di usare solo per paesi esotici e lontani, anzi: ne fa sua caratteristica di lavoro principale, per tutta la vita,

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anche quando deve raccontare di quello che è successo a casa propria: ““Lo vedevo seduto in disparte, sotto un recinto, un albero o su un muretto a parlare con qualcuno”, ricorda la Junczyk-Ziomecka riguardo agli scioperi di Danzica guidati da Solidarność. “Non prendeva appunti, e poi scrisse il miglior pezzo sullo sciopero di tutta la stampa polacca”” (Domoslawski 2012: 367). Insomma, come commenta Gomez (2007): “El periodista necesita saber mimetizarse; es decir, saber camuflarse, tener bajo perfil […] adquirir una visiòn micro de la historias cotidianas y dar importancia de las pequenas noticias”. E non a caso si lamenterà, una volta ottenuta fama e impatto mediatico in tutto il mondo, di non poter più lavorare come era solito fare, perché “che cosa posso venire a sapere, presentandomi in veste di personaggio ufficiale? Un reporter riesce a combinare qualcosa solo se resta anonimo. La gente parla diversamente a un giornalista e a una persona che incontra per caso” (Kapuściński 2008: 81).

Altro elemento imprescindibile, di cui Kapuściński farà sua carta vincente, sono appunto le persone e le domande che permettono di rapportarsi alle suddette. Scriverà, infatti, parlando di Erodoto (e di se stesso):

Come lavorava? Di che cosa si interessava? Come abbordava la gente? Quali domanda poneva? Come ascoltava quello che gli raccontavano? Per me si trattava di cose importanti: in quel periodo cercavo di studiare l’arte del reportage ed Erodoto mi pareva un maestro di prim’ordine. Mi intrigava soprattutto il rapporto tra Erodoto e la gente che incontrava: tutto quello che un giornalista scrive nei reportage proviene dalla gente e il valore di un testo dipende molto dalla qualità del rapporto io-lui, io-gli altri. (Kapuściński 2010a: 171)

Commenta così Antonio Calabrò sulle pagine de “Il Sole 24 ore” recensendo

Lapidarium, ma con delle osservazioni che si possono tranquillamente riferire a tutta

l’opera di Kapuściński:

Fare domande è la chiave del mestiere di scrivere. E avere a disposizione sofisticati strumenti culturali perché le domande stesse siano profonde, le simpatie umane coltivate, le risposte indagate a fondo. Lapidarium, adesso, è la riprova del successo di un tale metodo. E della possibilità che il giornalismo, mestiere artigiano e contemporaneamente esigente lavoro intellettuale, conquisti per sé, pur se a fatica, un

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ruolo fondamentale come strumento di comprensione del mondo nuovo (Calabrò 1997)

Le relazioni con gli altri sono il canale preferenziale attraverso il quale prende forma un reportage: mediante le domande e soprattutto le risposte prende corpo il testo.

Kapuściński arriverà addirittura a definire il reportage come “un genere letterario collettivo” poiché, dice lui: “Non bisogna dimenticare che il reportage è un lavoro collettivo, a più mani. Non scriviamo da soli: un reportage è sempre il frutto di voci e di esperienze altrui” (Kapuściński 2008: 43).33

Un ascolto, lo definisce Maria Nadotti, “attento delle voci minori, dei brusii e dei bisbigli e, soprattutto dei silenzi. Di insignificante, per Kapuściński, non c’è nulla tranne che il chiasso delle fanfare, l’eccesso di luce, i discorsi preconfezionati, tutto ciò insomma che rischia di stordirci e abbagliarci facendoci sfuggire l’essenziale” (Nadotti 2011).

L’attenzione all’altro e la forte carica di empatia che caratterizzano il corrispondente impressionano chi lo conosce e ha modo di parlarci. Lo ricorda così Elena Poniatowska: come un “povero tra i poveri” che condivise sempre le condizioni di coloro che intervistava, mangiava quello che mangiavano loro, dormiva dove dormivano loro (Poniatowska 2010). Parlando del suo lavoro Kapuściński userà spesso termini come “missione” e “sacrificio”, a sottolineare la responsabilità e l’eccezionalità di questa professione che non è adatta ai cinici.34 Accanto a L’altro35 ed Autoritratto di un reporter36, molti passi di riflessione sul proprio lavoro li ritroviamo nei Lapidaria37, come

quando spiega perché i temi principali che egli affronta nel corso di vent’anni di lavoro sono i problemi e le sorti del Terzo Mondo; innanzitutto, dice Kapuściński, questo interesse si spiega a causa delle sue origini: “sono nato in Polessia […] Penso che la nostalgia per questa terra semplice e – oggi diremmo – sottosviluppata abbia influenzato il mio rapporto col mondo: mi sentivo a mio agio nei paesi poveri perché ci ritrovavo

33 Sul tema del reportage come “lavoro collettivo” si veda anche Kapuściński 2016: 9-10.

34 Cfr. Kapuściński, Il cinico non è adatto a questo mestiere. Conversazioni sul buon giornalismo, Edizioni e/o, Roma 2000 a cura di Maria Nadotti.

35

Kapuściński, L’altro, Feltrinelli, Milano 2007 traduzione di Vera Verdiani.

36 Kapuściński, Autoritratto di un reporter, Feltrinelli, Milano 2006 a cura di Krystyna Strączek traduzione di Vera Verdiani.

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In polacco: Lapidarium, Czytelnik, Warszawa 1990; Lapidarium II, 1995; Lapidarium III, 1997;

Lapidarium IV, 2000; Lapidarium V, 2002; Lapidarium VI, 2007.

In italiano: Lapidarium. In viaggio tra i frammenti della storia, Feltrinelli,Milano 1997 traduzione di Vera Verdiani Lapidarium (Frammenti), «la Repubblica. L’almanacco dei libri», 27/01/2007 traduzione di Silvano De Fanti. Infine, per l’edizione dei Meridiani, sono stati selezionati dei passi dai primi cinque volumi delle serie: tranne i passi tratti da Lapidarium II (pubblicati nell’edizione Feltrinelli del 1997), i testi tratti dagli altri volumi sono stati tutti tradotti ex novo da Vera Verdiani.

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qualcosa della Polessia […]” (Kapuściński 2009: 1429); e poi, un interesse per la storia nel suo divenire in un momento storico (la metà del XX secolo) unico e irripetibile, quando cioè stava nascendo il Terzo Mondo.

Altra accortezza propria dello scrivere di Ryszard Kapuściński è l’attenzione al contesto. Sarà lui stesso a soffermarsi su questa distinzione fra buon e cattivo giornalismo: per scrivere qualcosa di valido e far in modo che i lettori possano davvero comprendere un fenomeno non è sufficiente la mera cronaca evenemenziale bensì un’attenzione e un’analisi più profonda delle linee di forza in gioco che influenzano o che intervengono sulla scena (sul tema, ricordiamo per esempio le già citate considerazioni di Kapuściński sul caso Karl von Spreti).