• Non ci sono risultati.

Trans Europa Express

5. 1 L’Italia in seconda classe

5.3 Trans Europa Express

Quello che Paolo Rumiz racconta in questo volume è un “viaggio verticale che mi ha trascinato verso il basso del mappamondo quasi per forza di gravità” (Rumiz 2015: 13). Da Kirkenes (l’ultima Norvegia prima del confine russo) a Odessa, sul Mar Nero. Come già aveva registrato in È Oriente, attraverso motivi letterari, metafore e descrizione degli aspetti delle regioni che visita, Rumiz costruisce un’idea di “Est”che è evidente contrappunto di una di “Ovest”.

Senza dubbio, in entrambi i volumi, Rumiz mostra un sincero e genuino interesse nel conoscere ed entrare in contatto con la vera anima dell’Europa Orientale, scevro da pregiudizi e clichés culturali; d’altra parte, come acutamente nota e argomenta Michał Czorycki in The politics of travel: Eastern Europe in Paolo Rumiz’s È Oriente (2014),

138

storicamente l’idea di Europa dell’Est è stata costruita di contro a quella di civile Ovest tanto che “despite the region’s complexity, internal diversity, and cultural wealth, the discourse about the East as inferior, disordered and anomalous, reinforced by the Cold War model, persists” (Czorycki 2014: 144).

Anche Rumiz sottolinea una dicotomia tra il mondo di qua e quello al di là (ma da cosa? Da una Cortina di Ferro che non esiste più?), ma la sua caratterizzazione ha toni decisamente positivi per quanto riguarda questo “Est” e di criticità per l’”Ovest” cui lo scrittore appartiene:

A ovest l’avventura finiva, nel taccuino le annotazioni erano destinate a rarefarsi e nell’aria c’era quell’impasto inconfondibile di zuccheroso perbenismo cattolico e ossessione protestante del “fare” che avvelena il mio mondo. Ho provato fastidio immediato per il suo moralismo, la sua pulizia farmaceutica, i suoi noiosi fiorellini alle finestre, la sua immotivata presunzione di innocenza. […] A est era meglio. Più fratellanza, più comunicazione, curiosità. Paesaggi primordiali, più luoghi dell’anima (Rumiz 2015:17)

Dicotomia che ritrova, per esempio, anche nel mercato nel mondo dell’Est, che è una “fiera di contaminazioni” che la società occidentale, con la sua anemia alimentare, ha dimenticato.184 Questa tensione tra due poli è un motivo su cui insiste particolarmente, e su cui costruisce tutto il discorso narrativo; ma l’Est, si accorgerà Rumiz, è in realtà il Centro: “macché Est. Questo dove mi trovo è il Centro. La pancia, l’anima del continente. Anche geograficamente è così: sul Tibisco, in Ucraina, ho trovato un obelisco austroungarico che segnava il baricentro di terraferma tra l’Atlantico e gli Urali, il Mediterraneo e il Mare di Barents” (Rumiz 2015: 15).

Questo viaggio poi, come del resto ogni viaggio, porta inevitabilmente con sé l’incontro con la gente: ruolo d’elezione, quello del rapporto con l’altro, su cui molto si è già insistito anche discutendo le figure di Terzani e di Kapuściński. Rumiz usa a riguardo una bella espressione: “bagno di umanità” (Rumiz 2015:17). È negli incontri che il libro trova la sua ragione d’essere: descritti brevemente, con la prosa spezzettata e agile di Rumiz, i personaggi che entrano sulla scena lo fanno in momenti focali che hanno una funzione di introduzione a particolari temi o aspetti del viaggio dando all’autore-viaggiatore importanti lezioni, o rappresentando figure particolarmente interessanti e tipicizzate. Come Vitaly e sua moglie Tatjana, pionieri della pastorizia artica che denunciano la terribile e sfrenata

139

compravendita delle terre russe che mina seriamente la biodiversità di quei luoghi al punto da far temere che essa possa scomparire per sempre. O i brevi scambi di battute con Rita e Volodia, due anziani russi intrappolati in Lettonia dal gioco delle frontiere mobili. Tutti incontri descritti velocemente, alcuni appena abbozzati, che trovano il loro valore proprio nella lapidarietà e incisività dei dialoghi.

L’altro grande leit motiv del volume, ma in realtà di tutta l’opera di Rumiz, di tutto il suo sentire diremmo quasi, è quello della frontiera. Frontiera che, come scriveva Hammond “has also had a particular role as a marker of intensified meaning” mentre l’atto del varcarla crea “moments of drama along a journey and of heightened significante within a travel narrative” (Hammond: 197-198). In effetti, oltre ai numerosi ritorni riflessivi di Rumiz intorno al concetto di frontiera, alle sue caratteristiche e ai significati ad essa attribuiti, la frontiera è stata individuata dallo stesso autore anche come spinta all’atto stesso di viaggiare, un tentativo di risposta alla consumante domanda “cosa c’è dall’altra parte?”, oltre che essere continuamente oggetto di ricerca del suo andare.

Anche questa partenza la deve alla frontiera:

Quando cominciarono a cadere le frontiere e la retorica dello spazio globale si mise a smantellare il senso dell’Altrove, lentamente, per spirito di contraddizione, mi era cresciuta senza che lo sapessi la nostalgia di un confine vero, di quelli di una volta […] Sì, bisognava fare un grande viaggio su un limes […] Partire dunque, ma per dove? La Cortina di ferro non c’era più, i reticolati erano stati sostituiti da spazi addomesticati […] Per cercare spazi bradi bisognava andare oltre, sul margine orientale dell’Unione Europea. (Rumiz 2015:25)

E nel suo viaggio Rumiz incontra e rincorre le frontiere: c’è quella con Kaliningrad, proprio quella che cerca, una frontiera “dura, di quelle che Schengen ci ha disabituato a passare” (Rumiz 2015:159), ma anche quella tra Ucraina e Romania che “è una burla” (Rumiz 2015:209). Ma soprattutto, commenta infine Rumiz: “non c’è assolutamente nulla che dica quali siano i confini di questo paese piatto, e nemmeno quali siano i confini dell’Occidente” (Rumiz 2015:176).

Trans Europa Express è un racconto di un viaggio che certamente non dà spazio

all’invenzione (i luoghi, i personaggi, i dialoghi sono tutti realmente esistiti), ma che è rivestito di una patina di letterarietà che sfiora a volte i toni del poetico, data dallo stile evocativo e malinconico di Rumiz: è forte la componente del suo io, che emerge in particolare nelle riflessioni dell’autore-viaggiatore su temi più ampi suggeriti dai paesaggi

140

e dagli incontri, come il concetto di Europa, di confine o quello di fratellanza. E la forza del libro, oltre che nella bellezza della scrittura dell’autore, sta proprio nel bilanciamento fra la componente di racconto del viaggio in senso stretto e quella riflessiva che scaturisce dalla prima, riuscendo cioè a discutere e raccontare sia il paesaggio sia la mente del viaggiatore. E anzi, molto spesso la riflessione scaturisce proprio dalla descrizione del paesaggio, come quando, ad esempio, viaggiando lungo la Vistola scrive:

Il paesaggio, in compenso, è magnifico. Mucche al pascolo in una nebbia azzurrina, nidi di cicogne nel cielo rosa. La natura non dice che milioni di tedeschi dovettero evacuare da qui e furono sostituiti da altri, polacchi cacciati dal profondo Est, da terre oggi bielorusse, lituane e ucraine, in una doppia deportazione verso occidente.

Che ne sa l’Europa delle ferite di qui? (Rumiz 2015:173).

Il cuore di questo viaggio, lo dice proprio Rumiz, è nella slavità, negli ebrei, nello sradicamento, la Frontiera, il fascismo che torna, la bontà degli Ultimi (Rumiz 2015: 147). Grandi temi particolarmente cari all’autore, sapiente descrittore ed esperto conoscitore della zona dei Balcani e del bacino danubiano.

Questo mondo dell’Oriente, o meglio dell’Europa orientale, cui Rumiz è così legato e da cui è così affascinato, è stato descritto e raccontato anche da Kapuściński e da Terzani, seppur in un momento storico del tutto diverso e con una prospettiva quindi altrettanto diversa. I due autori viaggiano infatti attraverso queste geografie (e ancora più ad Oriente nelle zone del Caucaso) più di vent’anni prima di Rumiz, durante il crollo dell’Unione Sovietica, descrivendone l’impatto sulla popolazione che abita quelle terre: crollo di cui Rumiz commenta invece le conseguenze a distanza di un ventennio.

141

6. Le scarpe e la penna

Cosa accomuna tre professionisti del reportage come Kapuściński, Terzani e Rumiz? Per prima cosa potremmo forse citare il sorriso, che assume una carica fortemente tipicizzante della professione: tutti e tre hanno ricordato e ribadito che il più importante strumento a disposizione del reporter, del giornalista, del viaggiatore, è senza dubbio il sorriso attraverso il quale si instaura più facilmente un contatto con l’altro, che è, in virtù della sua interazione con l’autore, co-protagonista e co-autore del reportage.

C’è quello di Kapuściński, incipit di molti ricordi di amici e colleghi185

, definito suo tratto distintivo; quello di Terzani, di cui insegna il valore al figlio Folco anche quando ci si trova con un fucile puntato contro, e quello bonario di Rumiz con cui attraversa le frontiere.

Diceva Kapuściński: il cinico non è adatto a questo mestiere. E Terzani e Rumiz ben si inseriscono in questa descrizione di professionista non cinico, attento all’altro, che osserva la realtà e i fatti in una prospettiva di relativismo, contraddistinto da un’attitudine all’ascolto: “di nuovo, questo andare dagli «altri»! Chi sono? Che vogliono? Come vivono? Capisci che dinanzi a un’avventura così ti si apriva una finestra, no?”, raccontava Terzani al figlio (Terzani 2006: 104). Le loro vite sembrano dimostrare questo bisogno e questa necessità di empatia, di “vivere le cose insieme alla gente”, come lo definiva Kapuściński (2010a: 15), tanto che nel loro viaggiare componente imprescindibile, senza dubbio, diventa l’inevitabile e irresistibile chiamata all’incontro e al dialogo con gli altri: “[…] quando passa un forestiero non so resistere, gli chiedo dove va, da dove vieni, chi lo ospita…” riassume Rumiz (2015:111). “Ecco - dirà sempre Rumiz - l’arte dell’incontro nasce dalla dichiarazione silenziosa di se stessi. Ryzsard Kapuściński era un professionista di questo sortilegio, che rende superflua ogni domanda e mette gli altri nella condizione di aprirsi spontaneamente” (Rumiz 2016).

Questa attenzione all’altro assumerà un valore sempre più preponderante fino a sfociare in una particolare sensibilità che diventa decisamente evidente e marcata in Kapuściński e Terzani. Come già abbiamo ricordato nel capitolo dedicato alla sua figura, da un dato momento in avanti, in Kapuściński inizia proprio ad affiorare una propensione per taluni temi, che già erano certamente presenti nella sua produzione fino ad allora, quali per l’appunto l’attenzione all’altro che va conosciuto e apprezzato in quanto tale, e non

185 La biografia di Domosławski del maestro (2012) si apre proprio con le immagini del sorriso di Kapuściński, ricordato da colleghi e amici.

142

combattuto o temuto, o l’importanza diventata urgenza nel “villaggio globale”186

del dialogo fra le culture. Anche Terzani si occuperà di queste questioni e lui, da sempre antimilitarista, diventa militante della causa non-violenta e del pacifismo, voce controcorrente in un Occidente post 11 settembre sconvolto, preoccupato e sul piede di guerra.

Sono sensibilità e consapevolezze nate, in entrambi i casi, certo a partire da predisposizioni personali, ma che al contempo ricevettero una spinta decisiva dalle esperienze maturate dai loro viaggi, che permisero loro da un lato di apprezzare il valore della diversità e la bellezza e la ricchezza che si ricavano dal confronto col diverso, dall’altro di vedere con i propri occhi gli orrori delle guerre. Anche Paolo Rumiz dà modo ai lettori di percepire la sua attenzione a questi temi, come quando non può trattenersi dal commentare, con un lamento malinconico, la perdita di fratellanza dell’Occidente che invece aveva ritrovato ad Est (Rumiz 2015:17). Lo sguardo su di questi temi è diverso, poiché ognuno privilegia gli aspetti del mondo che più ritiene, in un dato momento, di dover sottolineare, anche a partire dalla propria sensibilità e dal proprio retroterra culturale.

Tutti e tre grandi giornalisti e affabulatori del viaggio, Kapuściński, Terzani e Rumiz; e se è vero che non c’è un vero legame a unirli (Terzani e Kapuściński neanche s’incontrarono mai personalmente), è fuor d’ogni dubbio che condividano tutti “una certa idea di mondo” e che questa emerga dal loro scrivere.