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2. 10 Sulla guerra del football

Nel 1969 scoppia quella che è passata alla storia, grazie a Kapuściński, come la “guerra del football”, ovvero il conflitto fra Honduras e Salvador. Ancora una volta il Nostro si ritrova nel posto giusto al momento giusto. Celeberrimo l’incipit de La prima

15 E. Guevara, Dziennik z Boliwii, Książka i Wiedza, Warszawa 1969 traduzione di El diario del Che en

Bolivia,introduzione di Fidel Castro, Instituto del Libro, La Habana 1968. In traduzione italiana compare con

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guerra del football: “Luis Suárez aveva detto che ci sarebbe stata la guerra e io davo

sempre retta a quello che diceva Luis”. E continua:

Questa volta, la sua convinzione che ci sarebbe stata una guerra Luis la espresse dopo avere messo via il giornale con la cronaca della partita di calcio tra le squadre dell’Honduras e del Salvador, che affrontavano le qualifiche per il Campionato del mondo annunciato per l’estate del 1970 in Messico. […]

“In America Latina”, disse, “il confine fra football e politica è molto tenue” (Kapuściński 2010a: 172)

Kapuściński è l’unico reporter straniero in Honduras allo scoppio della guerra ed è il primo a trasmettere al mondo la notizia dell’inizio del conflitto. Non contento dello scoop, vuole andare al fronte e, poiché già all’indomani dello scoppio della guerra arrivano altri corrispondenti con le sue stesse intenzioni, un gruppo di loro ottiene appunto il permesso di andare dove si sta combattendo; a loro rischio e pericolo, si intende. Il gruppo di giornalisti si lancia in questa spedizione con la volontà di arrivare in prima linea, ad ogni costo, anche quello di non tornare vivi. Così Kapuściński si ritrova catapultato nel cuore di quell’inferno che è il fronte della guerra, di ogni guerra, per raccontarlo al mondo. Un altro di quei momenti che ne ha consolidato la fama come uno dei più importanti reporter del Novecento e che ha contribuito a crearne il mito.

La strada serpeggiava intorno a una montagna boscosa. Oltrepassammo il villaggio deserto di San Francisco, poi ci fu una serie interminabile di curve finché all’improvviso, subito dopo un tornante, ci trovammo in piena azione bellica. Soldati correvano e sparavano, sul monte sibilavano gli obici, dalle due parti della strada le mitragliatrici lanciavano raffiche prolungate. L’autista frenò di colpo e in quello stesso momento sulla strada davanti a noi esplose un obice. Subito dopo, un altro fischio seguito da una seconda esplosione, poi da una terza. Cristo, pensai, questa è la fine (Kapuściński 2010: 189)

Episodio ad altissima tensione e descritto con un linguaggio vivido, diretto, immediato e veloce: quando cioè la forma si adatta perfettamente alla materia. Queste pagine sulla cosiddetta “guerra del football” sono diventate un classico per i reportage di guerra: sono pagine molto forti e incisive, come dovrebbero essere tutte le pagine che

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raccontano di guerra. Senza dubbio la carrellata di immagini che ci scorrono davanti leggendo questo reportage, dai feriti silenziosi che non lasciano trapelare nemmeno un lamento, stoici nella sopportazione di un dolore che sembra trascendere quello fisico, ai prigionieri accasciati al suolo che non vedranno la prossima alba, passando per il soldato spossato psicologicamente prima che fisicamente dalla permanenza al fronte, sono immagini tanto significative e rappresentative della situazione hic et nunc di quella guerra, quanto immagini comuni ad ogni guerra. Perché, in fondo, tutte le guerre si somigliano nonostante latitudini, longitudini e distanze temporali: “la guerra è sempre una confusione indescrivibile e un terribile spreco di vite e di cose. Gli uomini fanno la guerra da migliaia di anni, eppure ogni volta si ricomincia tutto da capo come se fosse la prima volta” (Kapuściński 2010a: 182).

Ma ancora più iconiche, a nostro parere, sono le conclusioni del racconto di questa guerra:

La guerra del football è durata cento ore. Ha causato seimila morti e qualche decina di migliaia di feriti. Circa cinquantamila persone hanno perso casa e terra. Numerosi villaggi sono andati distrutti. L’intervento dell’America latina ha posto fine alle operazioni belliche, ma ancora oggi alla frontiera tra Honduras e Salvador si registrano scontri armati e villaggi incendiati. […]

La guerra si è conclusa con una tregua. La frontiera è rimasta invariata: una frontiera tracciata a occhio nella boscaglia, su un terreno montuoso rivendicato da entrambi gli stati.

I due governi sono rimasti soddisfatti della guerra perché per qualche giorno Honduras e Salvador hanno riempito le prime pagine dei giornali del mondo intero, attirando l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. I piccoli stati del Terzo, del Quarto e di tutti gli altri mondi poveri possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue. Triste, ma vero (Kapuściński 2010:197-198)

2. 11 J’ accuse, ovvero: il caso Karl von Spreti

La prima regola per fare buon giornalismo e quindi per capire davvero un fatto ed essere in grado di raccontarlo poi, è saper contestualizzare il fatto stesso. Poiché è solo ampliando il cono di luce alle zone limitrofe e circostanti si potrà avere un quadro chiaro sulle dinamiche che influiscono o hanno influito su quell’avvenimento. Senza queste

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accortezze, altrimenti, si rischia di cogliere solo una parte del problema, un’angolatura prospettica non esaustiva alla comprensione del fenomeno preso in considerazione. Ecco che quindi, ad esempio, di fronte al rapimento e alla morte di un diplomatico ci si potrebbe limitare ad una ferma e sdegnata condanna dell’accaduto, puntando il dito sugli esecutori bollandoli di etichette quali “brutali assassini”. Ma Kapuściński, che fa buon giornalismo, nel breve reportage che quasi diventa un pamphlet, tratta il caso del rapimento ed omicidio del diplomatico tedesco Karl von Spreti avvenuto nel marzo 1970 in Guatemala da una prospettiva più ampia e problematica:

Da cosa ero guidato nello scrivere, ad es., un testo sul Guatemala? Innanzitutto mi premeva difendere quella gente, difendere i guerriglieri, difendere la loro dignità, le loro ragioni. Si sentivano cose terribili sul loro conto, le storie più infami, giacché l’intero sistema di informazione diffuso nel mondo è il sistema della destra. Essa non farà parola su quali dittature ci siano là, quali regimi, quali contingenze reali costringano questi militanti alla lotta (Domosławski 2012: 280)

Un testo importante da leggere, per capire come Kapuściński interpreta il mondo: i media occidentali deformerebbero la realtà presentando solo una versione dei fatti che, in quanto tale, è manchevole, non completa, fuorviante. Diventa allora compito del reporter colmare questo vuoto di informazione: le azioni della guerriglia di sinistra nei paesi latinoamericani assumerebbero tutt’altro significato se analizzati con questi presupposti. Ed è esattamente il compito che Kapuściński decide di assumersi. Come possiamo definire terroristi dei giovani che scelgono consapevolmente la lotta, nonostante sia loro chiaro sin da subito che finiranno ammazzati in qualche vicolo senza nome, perché non hanno altra soluzione possibile per cambiare la realtà in cui si ritrovano a dover vivere?

Che resta da fare quando si è consci che la via pacifica, l’istruzione o la propaganda non potranno sortire alcun effetto? “Come possono definirsi terroristi quelle persone? Posso definirle militanti, eroi. Non posso fingere che non esista quel terrore istituzionale, primo e fondamentale, contro il quale appunto insorgono, vanno a combattere e lottare. Questa è tutta la verità, e se qualcuno vuole limitarsi a una mezza verità o a un quarto di verità, soggiace o serve la falsità, l’ipocrisia” dirà Kapuściński (Domosławski 2012: 280). Il Kapuściński che attacca è un Kapuściński che si permette di farlo dopo anni vissuti in America Latina, anni di viaggi, anni di incontri, anni di letture e anni di dialoghi, anni in cui ha potuto sperimentare nella quotidianità queste realtà.

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Si tratta di uno scritto fortemente polemico nei confronti della superficialità dei media: Kapuściński spiega il contesto dell’omicidio alla luce della storia della colonizzazione tedesca (oltre che statunitense) del paese. Partendo da posizioni nettamente antiamericane, racconta la vicenda della multinazionale United Fruits che dal 1901 occupa le terre migliori del paese con le proprie piantagioni, l’invasione del 1954 e la successiva ondata di terrore, i 3000 avversari politici del regime militare assassinati nel solo 1968, le collusioni tra Germania Federale e regime guatemalteco. (De Fanti 2009: CVII)

Prima di tornare in Polonia, dal Messico, Kapuściński invia relazioni sul Cile dove Allende ha vinto le elezioni, sulla Bolivia e i progressi della rivoluzione che vi sta avvenendo (famosa la sua visita all’università San Andrés di La Paz), sulla guerra dei pescatori in Ecuador e del successivo tentativo di golpe, sulla politica interna dell’Uruguay, sul massacro di studenti durante una manifestazione a Città del Messico. Si reca in Colombia dove è in corso lo stato d’assedio, a Santiago del Cile durante la visita di Fidel Castro, in Venezuela, in Costarica; ma ormai anche il capitolo latinoamericano sta volgendo al termine, e il rientro in patria è ormai alle porte.