• Non ci sono risultati.

In questo capitolo prenderò in considerazione nel dettaglio la trattazione della compassione, dapprima analizzando la definizione e la fenomenologia della compassione offerta dalla Retorica, per poi coniugarla con la trattazione nella Poetica. In particolare cercherò di comprendere se Aristotele attribuisca alla compassione, fra le emozioni, un ruolo particolare a livello sociale e politico – servirà allo scopo fare riferimento alla Politica –infine tenterò di rispondere alla domanda se la compassione sia o meno in Aristotele un’emozione “morale”. Quest’ultimo è l’importante tema della valutazione qualitativa delle emozioni: capire se esse possano essere classificate da un punto di vista qualitativo, se possa essere individuato un nucleo di emozioni “buone”, altruistiche, e in particolare “morali”, significa capire se esse possano essere pensate come legate all’ambito della moralità, quello degli atti che riguardano il bene altrui, oppure le norme che regolano il rapporto con l’altro e con ciò che ci si aspetta dal soggetto agente.

La definizione di compassione

In Retorica II, 8 Aristotele definisce la compassione (eleos) “una forma di sofferenza di fronte alla visione di un male manifestamente rovinoso o doloroso che ricade su di una persona che non lo merita, un male che anche noi possiamo attenderci di subire – noi stessi o uno dei nostri familiari – e che sembra prossimo”.

La compassione è dunque un’emozione dolorosa, perché è definita come una forma di sofferenza, di dolore (lupe), e nel corso della trattazione non vi è riferimento alcuno ad un eventuale piacere che la accompagni o possa seguirne125. Essa si rivolge ad un male ben preciso: un male rovinoso o doloroso; abbiamo visto che tra i mali non tutti sono dolorosi, possiamo quindi distinguere fra mali dolorosi e mali rovinosi che pure possono non causare dolore, ma il punto fondamentale è che questo male deve essere grave, importante, rilevante, un male che, nell’ottica di Aristotele, possa minacciare l’eudaimonia di colui che lo subisce. Dev’essere inoltre un male manifesto (phainomenos), o che appaia tale a chi lo contempla. L’altra caratteristica fondamentale è che il male sia prossimo allo spettatore: per poter provare compassione bisogna pensare che questo male sia prossimo a sé nello spazio, ovvero ci si può attendere di subire lo stesso male, e prossimo nel tempo, ovvero ci si può attendere di subirlo a

125 Come accade per esempio nel caso dell’ira, che è piuttosto un’emozione mista, in quanto definita come una

forma di sofferenza che contiene però anche una forma di piacere legato all’aspettativa di realizzare la vendetta. Cf. Rhet II, 2.

52

breve, deve essere un male imminente. A questo proposito mi sembra utile citare quanto Aristotele specifica al termine del paragrafo, per sottolineare la concretezza e la plausibilità del suo discorso:

“le sofferenze che determinano pietà sono quelle prossime, mentre quelle che sono accadute o accadranno a distanza di diecimila anni o non muovono del tutto a compassione gli uomini, o non lo fanno nella stessa misura – in quanto essi non si attendono le une e non si ricordano delle altre”126.

Dire che la sventura debba essere prossima non significa sostenere che l’osservatore possa provare compassione solo in presenza di un’equivalente minaccia su di sé: in quel caso egli proverebbe piuttosto paura per se stesso e non avrebbe modo di provare contemporaneamente compassione per l’altro. La prossimità della minaccia è dunque relativa, variabile: possibile, financo probabile, prossima in un tempo degno di essere preso in considerazione (non gli iperbolici diecimila anni) ma non in atto; è necessario che lo spettatore mantenga un minimo di libertà nel riguardare l’altro nella sua sofferenza, senza dover concentrarsi completamente su di sé127. Per quanto riguarda le caratteristiche della sofferenza provata dall’altro, essa deve essere immeritata: se la persona colpita dal male sta soffrendo immeritatamente, questo sollecita la mia compassione per lei. Dunque ci deve essere un forte appiglio con la realtà e con la condizione precipua dell’osservatore affinché egli possa provare compassione.

Per quanto riguarda invece la sofferenza provata dallo spettatore, è chiaro che essa ha molto in comune con la paura. Infatti due sono i prerequisiti affinché il male osservato possa rientrare nell’ambito della compassione. In primo luogo lo spettatore deve poter pensare di essere egli stesso vulnerabile a questo male, deve essere consapevole di poterlo subire, per qualche motivo, in prima persona; dunque deve ravvisare nella persona che lo sta subendo attualmente delle similitudini con se stesso: solo se l’altro è simile a me in qualcosa posso attendermi di subire un male che adesso vedo affliggere l’altro. In secondo luogo, questo male deve essere temuto dallo stesso spettatore, deve essere ritenuto dallo spettatore un male “rovinoso”, ovvero di una gravità estrema, ed imminente: lo spettatore deve ritenere che possa accadere la medesima cosa anche a sé o a qualcuno dei propri cari e deve stimare questa possibilità reale. Queste caratteristiche sono proprio quelle che danno ragione della paura. Se ne riprendiamo la definizione, leggiamo che “il timore può essere definito come una forma di sofferenza o uno sconvolgimento che deriva dalla prefigurazione di un male imminente che causa rovina o dolore, in quanto non si temono tutti i mali – ad esempio essere ingiusti o lenti nel comprendere

126 Rhet. II, 8.

127 Questa problematica ritornerà nella discussione sullo spettatore della tragedia e sulla sua facoltà di provare

53

– ma solo quelli che possono comportare grandi sofferenze o rovina, anche questi ultimi solo nel caso in cui non appaiano remoti, ma imminenti, tanto da sembrare sul punto di verificarsi”128. Dunque nel provare compassione per un’altra persona c’è l’implicito timore che accada a se stessi ciò che sta accadendo all’altro: lo stesso male per cui l’altro viene compatito suscita nello spettatore timore per sé. Dunque la compassione è originariamente legata alla paura. Vedremo in seguito l’importanza di questo legame e come esso venga declinato nell’ambito estetico e politico.

Aristotele struttura la trattazione della compassione secondo i tre criteri individuati all’inizio: in quale disposizione d’animo si trovi colui che prova l’emozione, l’oggetto che causa l’emozione e la persona cui essa è diretta. Vediamoli nel dettaglio, in base alla definizione che abbiamo analizzato.

Per quanto riguarda l’oggetto che muove a compassione:

Sono degne di compassione tra le cose che comportano dolore e sofferenza, tutte quelle che provocano rovina, e tutte quelle che sono causa di annientamento, e i mali di cui sia responsabile il caso, quando siano gravi. Rovinosi e distruttivi sono la morte, i maltrattamenti fisici, le ingiurie, la vecchiaia, le malattie, la mancanza di sostentamento; mali dovuti al caso sono la mancanza o la scarsità di amici (aphilia, oligophilia) (per questo motivo suscita pietà anche l’essere separato da amici e familiari), la bruttezza, la debolezza, l’infermità.129

La prima caratteristica del male oggetto di compassione è la gravità. Non si prova compassione per delle piccolezze o per danni passeggeri, bensì per sventure che minacciano il benessere della persona nel profondo, attaccando la sua stessa vita o quella dei suoi cari, che poi è la stessa cosa. La perdita di un figlio o di un coniuge, per esempio, ma anche di un amico, nella visione aristotelica130, equivale veramente alla perdita di una parte di sé ed è quindi una sventura dolorosa e rovinosa, da compatire. Ma anche i maltrattamenti fisici, le ingiurie, la vecchiaia, le malattie e la mancanza di sostentamento sono fisicamente dolorosi e rovinosi in quanto impediscono la vita nelle sue funzioni principali e possono essi stessi condurre alla morte. Altri mali distribuiti dal caso non sono necessariamente dolorosi, ma sono ugualmente gravi: la bruttezza, la debolezza e l’infermità inficiano gravemente la vita di coloro che ne sono vittime. In questo caso si può liberamente parlare di “vittima”, poiché la valutazione della persona colpita dal male riporta contemporaneamente due dati: il male è immeritato, ovvero la persona è giudicata meritevole nel suo complesso e non meritevole di ricevere un male di siffatta gravità; la persona è però anche totalmente estranea allo svolgimento dei fatti, ovvero il male le è capitato indipendentemente dalle sue azioni e indipendentemente dalle circostanze. I

128 Rhet. II, 5.

129 Ivi, II, 8.

54

mali inflitti dal caso sono mali slegati da qualsiasi catena causale, pertanto non se ne può dare ragione131. Allo stesso modo, anche la rottura della catena causale delle aspettative, quando sono coinvolti beni e mali, è una possibile causa che suscita compassione:

“Muove a compassione anche il fatto che un male giunga in luogo di un bene che ci si attendeva, e il frequente ripetersi di questa situazione, e anche che un bene giunga solo dopo aver subito un male […] e anche il fatto che non sia mai capitato alcun bene, o che, pur essendo capitato, non vi sia stata possibilità di goderne”132.

Dunque anche per la compassione (come per l’ira) entra in gioco il sistema delle aspettative: il fatto che esse vengano disattese o viceversa una sorpresa in positivo influenzano il giudizio dello spettatore sull’evento che capita all’altro. Un altro elemento di valutazione è poi la somma dei beni e dei mali nell’arco della vita: sicuramente un’esistenza colpita da incessanti sventure è più atta a suscitare compassione di una colpita da un’unica sventura, per quanto grande. Ricordo che Aristotele ci ha detto nella definizione che l’oggetto che muove a compassione l’osservatore è un male manifesto, ma questo termine può avere sia una qualificazione oggettiva (che appare a tutti, sotto gli occhi di tutti), sia una qualificazione soggettiva (che appare tale al soggetto dell’emozione). È chiaro che, per definizione, il male che suscita la compassione è distruttivo per cui anche solo uno è sufficiente a inficiare un’intera esistenza; può sembrare dunque cinico stabilire una gerarchia basata sul numero di disgrazie che hanno afflitto una persona, anziché sul loro “peso”, basandosi quindi su criteri quantitativi e non qualitativi. Dal punto di vista soggettivo dell’osservatore, però, è possibile che una persona colpita da numerose sventure sia da ritenere maggiormente degna di compassione di una persona afflitta da un unico male.

Passiamo ad analizzare la disposizione d’animo in cui si trova lo spettatore. Essa dev’essere tale da permettere le dinamiche che si sono viste: paura per il male in questione, un certo grado di identificazione con chi lo subisce, un certo grado di disposizione nei suoi confronti. Scrive Aristotele:

è evidente che chi potrà provare compassione deve necessariamente essere una persona tale da credere di poter subire un male, lei stessa o uno dei suoi familiari, e che questo male deve essere del tipo di cui si è parlato nella definizione, o uguale, o simile. Per questo motivo non provano compassione né le persone che sono cadute in una completa rovina (non credono di poter soffrire ulteriormente in quanto hanno già sofferto quanto possibile) né quelle che si ritengono straordinariamente fortunate e che sono anzi arroganti, poiché, se pensano di possedere tutti i beni, evidentemente crederanno anche che non sia possibile per loro soffrire qualche male, dal momento che anche questo fa parte dei beni.133

131 Anche questo dato risulterà fondamentale nell’analisi della tragedia nella Poetica, in relazione agli elementi

che contribuiscono a suscitare la compassione dello spettatore.

132 Rhet. II, 8. 133 Ibidem.

55

Affinché sia possibile l’insorgere della compassione deve essere presente una fragilità di qualche tipo: il soggetto deve credere di poter soffrire. È il caso di chi si trova in una condizione di debolezza: i deboli; i timidi; gli anziani. Questi ultimi fanno parte anche di un’altra categoria soggetta al provare compassione, ovvero coloro che hanno un qualche tipo di conoscenza in merito ai mali: gli anziani per saggezza ed esperienza; le persone colte perché conoscono più cose e sanno ragionare correttamente; in generale le persone che hanno già sofferto e che sono scampate al male. Infine coloro che sono vulnerabili dal punto di vista dei rapporti umani, ovvero coloro che hanno dei philoi, per esempio genitori, figli, moglie, persone che fanno parte della propria stessa vita, la cui perdita costituirebbe un male sia rovinoso che doloroso per il soggetto. I propri cari sono i beni più grandi che si possano possedere: la loro sofferenza o la possibilità di perderli costituiscono mali per cui il soggetto soffrirebbe in prima persona, che andrebbero ad intaccarlo nella propria stessa persona; sono dunque elementi di vulnerabilità. Aristotele riguardo ai philoi scrive che “tutto ciò fa parte di loro e può soffrire i mali di cui si è parlato”134. È molto interessante il rapporto che sussiste fra compassione e paura in questo caso:

le persone che sono strettamente legate a sé sono vissute come parte di se stessi; dunque i mali che le minacciano sono vissuti come delle minacce in prima persona e sono temuti, sono fonte di terrore, mentre i mali che li affliggono non sono fonte di compassione, ma di dolore in sé e per sé.

In generale deve dunque persistere nello spettatore il ricordo di un male subito in passato in prima persona o da uno dei propri cari, oppure la consapevolezza di essere in prima persona esposti allo stesso male, di essere in qualche modo a rischio. Degno di nota il fatto che entrambi gli estremi impediscono che si provi compassione: anche chi è ormai convinto di aver sofferto tutto il possibile non riesce a provare compassione per gli altri, perché non si sente minacciato da mali ulteriori, avendo ormai toccato il fondo della sventura135.

Le condizioni d’animo che fanno invece credere di non poter soffrire sono l’arroganza, il coraggio, l’ira e l’audacia. Infatti l’arroganza è disposizione alla hybris (hybristike diathesis),

134 Rhet. II, 8..

135 Barnes (Rhetoric and Poetics in The Cambridge Companion to Aristotle, Cambridge University Press, 1995,

pp. 259-285) nota (p. 268) che ci sarebbe un’incongruenza fra questa affermazione e quella di poco successiva, a 1386a2-4, in cui Aristotele sostiene che “In generale gli uomini provano compassione quando si trovano in una situazione tale da ricordare che mali di questo genere sono già capitati a loro stessi o a uno dei familiari, o attendono che capitino a loro stessi o a uno dei familiari”. A mio parere non c’è contraddizione fra i due casi, in quanto nel primo Aristotele parla esplicitamente di “persone che sono cadute in una completa rovina” che “non credono di poter soffrire ulteriormente, in quanto hanno già sofferto quanto possibile”, caso ben diverso dall’esperienza molto più comune di aver patito dei mali che, per quanto gravi, rimangono pur sempre dei casi isolati e non impediscono di pensare che altre sventure simili possano accadere in futuro. Il primo caso è evidentemente uno degli estremi che escludono la possibilità della compassione, il secondo, al contrario, ne è un caso modello.

56

ovvero insolenza, tracotanza, violenza, prepotenza, arroganza, e quindi disposizione a non considerare propriamente e adeguatamente il valore di ciò con cui ci si confronta, sia esso una persona, una legge, un divieto, ed a disprezzarli. Chi agisce hybristicamente non teme le conseguenze delle proprie azioni e in particolare chi compie hybris nei riguardi di un’altra persona implicitamente la umilia, la sminuisce e la giudica incapace di nuocerle: non teme che riceverà un male come contraccambio delle proprie azioni. È chiaro che una simile disposizione d’animo non costituisce terreno fertile per la compassione. L’ira è la controparte dell’arroganza, poiché è l’emozione che nasce nella vittima dell’atto di hybris: dunque mentre l’agente prova arroganza, la vittima prova rabbia. Quest’ultima, a causa del desiderio di realizzare la vendetta, contiene la speranza della riuscita, e dunque manca in essa il timore per se stessi, la possibilità di pensare di soccombere al male che si sta fronteggiando, appunto perché ci si ritiene in grado di vendicarsi e capaci di imporsi su colui che, sminuendoci, ci ha manifestamente umiliati. L’audacia è invece proprio l’emozione che esclude la paura, che non percepisce il pericolo incombente come tale o che non lo stima correttamente in tutta la sua gravità. Queste tre condizioni d’animo sono caratterizzate dalla fiducia in sé e da una sopravvalutazione di sé e delle proprie possibilità; il soggetto si pensa immune da mali e sciagure, forte del proprio senso di sé ed eventualmente della propria avventatezza. Questo terreno emotivo impedisce la crescita della paura perché esclude il pensiero di poter soffrire.

È fondamentale a questo punto cominciare a notare il carattere della compassione come emozione complessa. Da un lato essa è rivolta verso l’esterno: guarda all’altro, al suo merito, quindi mette da parte l’ego dello spettatore con le sue pretese, per promuovere uno sguardo attento al bisogno altrui, alla condizione dell’altro ed alla sua sofferenza. Ecco un ulteriore motivo per cui arroganza, ira, audacia, sono tutte disposizioni d’animo che ostacolano la compassione: esse tendono a concentrare tutta l’attenzione del soggetto su se stesso, rendendolo incapace di percepire l’altro come un essere a se stante, come un “fine in sé”, non come l’oggetto della propria emozione, l’oggetto dei propri scopi, ma come una persona indipendente, degna e bisognosa di essere guardata con cura. Sono emozioni che trasformano l’altro in un oggetto. Esiste però un fronte della compassione, il fronte del riferimento al sé, che non è mai abbandonato: il punto non è pensare l’altro “semplicemente come mezzo” o subordinarlo ai propri bisogni e desideri, bensì mantenere sempre il riferimento alla propria esperienza ed al proprio sé in quanto fonti della valutazione della situazione dell’altro. La compassione è un’emozione che in un certo senso deve guardare anche al soggetto che la prova, che è sempre termine ultimo di paragone e imprescindibile criterio di adeguatezza cui

57

raffrontare ciò che sta accadendo all’altro. Cominciamo a vedere questa cosa nel caso del coraggio (l’ultimo fra i quattro stati d’animo che fanno credere di non poter soffrire elencati da Aristotele) e poi nelle altre condizioni d’animo che permettono la compassione.

Il coraggioso (ma anche colui che compie un’azione coraggiosa, nel momento in cui la compie), affronta un pericolo rovinoso o doloroso136 che valuta correttamente come tale: sa che è un male di cui avere paura, ma non è sopraffatto dalla paura stessa, la quale viene piuttosto integrata in una strategia virtuosa di risposta alla minaccia incombente: come abbiamo visto, le emozioni sono strumenti che acuiscono la percettività umana, sia perché selezionano il materiale sensibile e focalizzano l’attenzione del soggetto su determinati contenuti, sia perché, come la paura, approntano anche una maggiore ricettività e rapidità di reazione agli stimoli esterni, anche fisici; dunque la paura come stato emotivo persiste, non è eliminata nell’atto coraggioso (che è un atto virtuoso), eppure cambia il ruolo che essa gioca e le reazioni che ad essa fanno seguito. Dunque anche il coraggioso prova più difficilmente compassione, poiché la sua condizione emotiva è propensa a valutare il male, per quanto rovinoso, come qualcosa da affrontare in vista del kalon e dunque qualcosa che non si ha paura di patire; la paura qui è un indicatore della gravità del male e il tipo di risposta data dalla persona colpita dal male tende comunque ad escludere la compassione: lo spettatore coraggioso non compatirà la persona coraggiosa nel momento in cui avrà l’occasione di compiere un atto nobile, ma non compatirà neppure la persona vile o non coraggiosa, proprio perché mancante della virtù.

Questo ci connette all’altro aspetto fondamentale della compassione, ovvero il fatto che essa contiene una duplice valutazione: dell’oggetto che la provoca (il male) e della persona cui è diretta. Non c’è univocità nel valutare la persona che soffre, non è un dato di fatto che si assume ciecamente, bensì ciò è oggetto di valutazione. La compassione è infatti un’emozione che valuta il merito: affinché una situazione susciti compassione bisogna che il male sia immeritato, che

Documenti correlati