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"La compassione in Aristotele e l'interpretazione di Martha Nussbaum”

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione ... 1

Capitolo I. Aristotele e le emozioni ... 6

Ta pathe nella Retorica ... 7

Ta pathe nell’Etica Nicomachea ... 25

Capitolo II. La compassione in Aristotele ... 51

La definizione di compassione ... 51

La rete emotiva della compassione ... 60

Compassione e paura tra finzione e realtà ... 69

La moralità della compassione ... 85

Capitolo III. Uno sguardo contemporaneo sulla compassione ... 112

Il neoaristotelismo di Martha Nussbaum ... 112

Compassione: emozione tragica ... 133

Compassione: emozione civile ... 147

Conclusioni ... 179

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Introduzione

Il mio interesse per la compassione nasce per motivi personali. Durante un percorso di riflessione sui temi dell’educazione civica e sui fondamenti della qualità del vivere civile si è manifestata in me un’insoddisfazione nei confronti del paradigma dei diritti e doveri col quale tendevo ad identificarmi nel tentativo di dare ragione delle motivazioni etiche che sorreggono un buon vivere civile e delle spinte che tendono invece a sovvertirlo. Progressivamente si è affacciata in me l’idea che fosse necessario ripensarlo, a causa della difficoltà che mi pareva di incontrare nel comprendere in esso le diverse tensioni distruttive e l’individualismo che non solo ostacolano la possibilità di una società giusta, equa, libera ed onesta, ma che, inoltre, spingono al disinteressamento dei singoli per gli altri simili e per il benessere della comunità. Mi sono quindi avvicinata a riflessioni sull’empatia e sulla compassione a partire da domande di tipo etico, pratico, civico, politico; in particolare mi sono concentrata sulla compassione con lo spirito di chi è in cammino su una via di personale chiarificazione riguardo a questioni che sento pressanti: ad esempio capire quali siano la natura ed il potenziale ruolo delle emozioni in una società, e quali siano, in particolare, quelli della compassione; inoltre comprendere se la compassione possa essere uno strumento utile per migliorare la qualità della società e della vita civile, poiché veicola una percezione attenta all’altro, ai bisogni e desideri altrui, alla pura e semplice “presenza” dell’altro – altro che può essere il diverso, ma anche la semplice alterità di persone simili a noi eppure sconosciute, cui siamo legati dal vincolo sociale.

Con questi desideri mi sono dunque rivolta ad Aristotele e a una delle più fruttuose e durature definizioni della compassione, che è divenuta imprescindibile per la sua acutezza e profondità.

Questo lavoro è inteso come un analisi della compassione in Aristotele sulla base delle interpretazioni anglosassoni, e in particolare alla luce delle letture cognitiviste. In particolare ho analizzato la proposta di Martha Nussbaum per la compassione, basata sulla definizione aristotelica, nella convinzione che un modo fruttuoso di accostarsi al pensiero antico sia farlo dialogare con la contemporaneità, per mettere in luce le diverse sfaccettature e possibilità di sviluppo che ne nascono. In particolare ho cercato di seguire gli sviluppi etici, pratici, di una possibile interpretazione della compassione, per indagare se e in che modo essa possa contribuire allo sviluppo di una “morale civile” e di legami sociali basati sulla considerazione e sul rispetto dell’altro. Mi sono chiesta in particolare se la compassione possa rappresentare una spinta interna al soggetto, e quindi alla società, sufficiente a muovere l’individuo al rispetto degli altri, alla considerazione dei diritti altrui e all’abbandono dell’egoismo in favore dell’altruismo. Altruismo che, in ultima analisi, potrebbe sfociare nel rispetto delle leggi: uno

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dei motivi di fondo che mi spingono ad indagare il regno della compassione è infatti comprendere se il rispetto delle leggi ed il senso della giustizia possano fondarsi su altre basi che non la considerazione del dovere.

Concentrarsi su Aristotele è chiaramente un passo iniziale, ma forse anche necessario, poiché la sua concezione della compassione è ancora fondamentale, anche se non l’unica e non esaustiva, nel paradigma concettuale di riferimento relativo alla compassione. Acquista allora più senso anche l’accostamento con il pensiero contemporaneo, in particolare con quello di Martha Nussbaum.

Nussbaum intende riproporre l’importanza della teorizzazione in etica, la centralità della valutazione razionale di standard e criteri valutativi, ma anche degli strumenti che una teoria etica può utilizzare. Come vedremo, le emozioni in questo senso diventano molto importanti, anche se devono pur sempre essere sottoposte al vaglio della ragione: una razionalità aperta, ricettiva, che attraverso una profonda comprensione dell’emotività e delle facoltà cognitive possa valutare nel merito ogni emozione, ponendo le basi per un’educazione emotiva ragionata, valutativa. Il tema dell’educazione emotiva mi pare sempre più urgente, in un mondo dominato dalla duplice tensione verso una razionalità “fredda e calcolante” ed un’emozionalità ostentata e cieca, due tendenze opposte e potenzialmente parimenti dannose. Anche sul piano individuale, le persone sembrano sempre più carenti di quella consapevolezza che sarebbe importante per comprendere e gestire la propria vita emotiva, le proprie reazioni agli eventi e le esperienze della vita che sottopongono a sovraffaticamento, tensione, angoscia, smarrimento. Una buona educazione emotiva sarebbe insieme un utile strumento di prevenzione e di promozione di una migliore qualità della vita personale e pubblica.

Comprendendo le concettualizzazioni che stanno alla base delle emozioni, è possibile anche una loro valutazione fondata. L’operazione che preme a Nussbaum è dunque sviluppare una teoria etica sulla base della quale concepire un tipo di educazione che selezioni le emozioni, educando a quelle positive e scoraggiando – per non dire, nel migliore dei casi, impedendo – l’insorgere di quelle negative, dannose, basate su giudizi errati. Il fine che Nussbaum tiene in vista è quello pratico, la possibilità di pensare e realizzare una società “compassionevole” in cui l’emozionalità dei cittadini e della cittadinanza nel suo insieme siano in armonia con la giustizia e, di più, siano un veicolo della giustizia.

Questi intenti di ricerca devono però presupporre un’analisi della compassione come emozione a se stante, delle sue caratteristiche, della sua fenomenologia e dei suoi effetti, per

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comprendere in che cosa consista la valenza positiva della compassione e come “utilizzarla” al meglio.

Le domande fondamentali cui si rivolge il mio lavoro riguardano di conseguenza la possibilità di considerare la compassione un’emozione “morale”, la possibilità della compassione di generare azioni morali, la valutazione della compassione come risposta cognitiva in sé e la possibilità di inserirla in una teoria etica normativa. La domanda fondamentale sottesa alla mia ricerca è dunque se abbia o meno senso pensare alla compassione in termini morali, o se piuttosto sarebbe più corretto ed utile pensarla su di un piano etico, ed inserirla all’interno di un sistema etico della virtù come, argomento nel testo, Aristotele fa. Allo stesso tempo analizzerò la posizione di Nussbaum sulla compassione, in quanto derivante da, e innalzatasi sul pensiero di Aristotele nel tentativo di affrontare, grazie alle sue “armi” antiche ma sempre nuove, le sfide della modernità.

L’analisi dei testi aristotelici si concentrerà su Etica Nicomachea, Retorica, Poetica, Politica, De anima e De motu animalium. Ripercorrerò il tema delle emozioni nell’Etica Nicomachea, descrivendo come esse facciano parte del percorso educativo proposto da Aristotele ed il loro ruolo e contributo all’interno della virtù. La teoria dell’azione che sorregge la proposta etica di Aristotele è espressa nelle opere psicologiche, sulla base delle quali specificherò il rapporto fra desideri, azioni ed emozioni. Analizzerò la definizione della compassione e la sua fenomenologia presentata nella Retorica, descrivendone la struttura concettuale ed il contenuto cognitivo, sulla base di un’interpretazione in senso cognitivo delle emozioni come costituite da opinioni e giudizi; questa interpretazione permette di dare ragione al meglio dell’interazione reciproca fra emozioni. Mi concentrerò in particolare sugli elementi di pensiero che Aristotele inserisce nella compassione come fenomeno emotivo e sulla rete emotiva della compassione. Passerò poi all’analisi del ruolo della compassione come emozione tragica descritta nella Poetica e quindi del fenomeno catartico, anche sulla base dei corrispondenti passi nella Politica, per comprendere meglio la valenza specifica della compassione, e ponendomi la domanda sulla finalità della tragedia per Aristotele. Da essa si potrebbe infatti dedurre un eventuale ruolo specifico assegnato da Aristotele alla compassione. Qui si innesta l’analisi dell’interpretazione che Martha Nussbaum offre dei medesimi temi in Aristotele.

Il ruolo di Nussbaum nel mio lavoro è di rappresentare quello sguardo contemporaneo sul pensiero aristotelico che offrirebbe una possibile risposta ai miei interessi concernenti la compassione, di natura etica e civica. Descriverò il neoaristotelismo di Nussbaum cercando di

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mostrare in che modo i suoi intenti trovino le proprie radici nel pensiero di Aristotele, del quale Nussbaum ritiene di condividere lo spirito con cui si accosta alla realtà ed ai problemi filosofici. Da uno sviluppo delle trattazioni aristoteliche Nussbaum ricava le proprie concezioni dell’immaginazione, della percezione, della razionalità pratica e in particolare della compassione. Ne analizzerò i presupposti e la diversa caratterizzazione, nonché le conclusioni. Approfondirò infine la relazione fra le due concezioni della compassione, muovendo a Nussbaum alcune obiezioni di metodo e di contenuto in merito al modo in cui ella modifica i prerequisiti e quindi il contenuto concettuale della compassione, pur lasciando pressoché inalterata la definizione aristotelica. Da ultimo proporrò, sulla base delle analisi condotte, una lettura personale del concetto di compassione.

Una precisazione mi pare necessaria anche in sede introduttiva: nello studiare la compassione in Aristotele, il ruolo ad essa assegnabile e la funzione della tragedia mi limiterò ai testi aristotelici, considerandoli per quello che essi possono dirci, indipendentemente dalle altre espressioni della cultura greca precedente e contemporanea ad Aristotele – ad esempio oratoria, testi storici, poetici, commedie, tragedie. Una specifica problematica è posta dalla tragedia: benché Aristotele faccia riferimento alle tragedie a lui note, io non lo farò e mi limiterò a considerare quanto da lui affermato nelle proprie opere, in un’ottica non storicistica, ma legata piuttosto ai nodi concettuali presenti e alle posizioni espresse nei suoi testi. Non intendo quindi attribuire particolari concezioni della tragedia alla cultura del tempo semplicemente espandendo acriticamente considerazioni che si possono ricavare dai soli testi aristotelici. Piuttosto, intendo mostrare qualcosa sulle posizioni rappresentate nelle opere aristoteliche: innanzitutto come le stesse affermazioni di Aristotele sulla tragedia, sulla sua funzione e sul ruolo delle emozioni tragiche siano motivo di disaccordo fra gli interpreti e inoltre come sia possibile anche argomentare, pur in un’ottica cognitivista, a favore di una concezione estetica ma non educativa della fruizione della tragedia, proprio sulla base dei testi aristotelici. Questa possibilità, a mio parere fondata, potrebbe essere utile per approfondire e stimolare un ripensamento delle argomentazioni che sostengono il contrario, in modo da perfezionarle e, ove possibile, fornire una base utile per sviluppare ed arricchire il pensiero sulla compassione come emozione sociale, civica, financo morale.

Mi pare Nussbaum cerchi di fare un’operazione di questo genere per la compassione, ma talvolta il suo tentativo di utilizzarla come veicolo di solidarietà mi sembra forzato, tenendo presente che ella si rifà fondamentalmente alla definizione aristotelica, che ripropone e mai rinnega.

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Cercherò di mostrare queste problematiche e di muovere delle critiche spinta soprattutto dal desiderio di perfezionare il tentativo di valorizzare la compassione; nella convinzione che per farlo, però, sia necessario un attento lavoro di analisi e specificazione delle sue peculiarità, di distinzione di fenomeni diversi, di chiarificazione di concetti: in questo caso, un delineare i confini della compassione in maniera più precisa, anche limitandoli o restringendoli. In altre parole, non è detto che una riduzione del campo di azione della compassione equivalga a sminuirla, diminuirne il valore o l’utilità, bensì il contrario. Restringere il senso della compassione, senza che essa debba rendere conto di tutte le dinamiche di altruismo, generosità e virtù che si vogliono far risalire a lei, permette forse che essa porti più frutto: pensare al ruolo della compassione in modo da limitarlo “quantitativamente” e da distinguerlo dai fenomeni simili consente di “espanderlo” qualitativamente, valorizzandone le possibilità etiche; significa ritagliarle un ambito cognitivo peculiare e conferirle un senso proprio. Le ragioni della compassione potrebbero essere dunque più specifiche, ma non per questo meno profonde o meno utili di un qualsiasi impulso altruistico.

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Capitolo I. Aristotele e le emozioni

In questo capitolo mi occuperò delle emozioni nel pensiero aristotelico. Cercherò di mostrare come le emozioni facciano parte di una rete strutturale che unisce teoria dell’azione, etica, politica e come quindi il piano sociale e quello individuale siano, da tale punto di vista, strettamente connessi. Proverò inoltre a mostrare il ruolo delle emozioni nel sistema etico di Aristotele ed il peso che esse hanno per la realizzazione della virtù.

Aristotele non ha lasciato una trattazione esaustiva e mirata delle emozioni, bensì piuttosto una trattazione diffusa, con riferimenti più o meno chiari che si trovano in opere diverse, per esempio in De Anima, Parva Naturalia, De Motu Animalium, Etica Nicomachea, Politica, Retorica, Poetica.

Ciò che noi traduciamo come emozioni è il termine pathe: letteralmente ciò che si subisce o patisce, ciò di cui si fa esperienza, ma anche malattia, impressione, sensazione, affezione ed infine turbamento psichico, emozione, sentimento, passione. La varietà dei significati connessi al termine pathos implica la necessità di analizzare il contesto in cui esso compare, considerando la possibilità che il singolo autore ne faccia un uso peculiare, associandolo ad ambiti e significati particolari, in modo abbastanza libero. In Aristotele è il riferimento al mondo psichico ad essere predominante: di volta in volta i pathe ne circoscrivono in modi diversi gli aspetti seguendo un criterio che varia a seconda del contesto, di ciò che all’autore è utile tenere in considerazione.

Ta pathe abbracciano dunque gli appetiti (epithymia), l’animosità (thymos), le emozioni e per capire di cosa Aristotele stia veramente parlando in ogni caso specifico è necessario muoversi nella direzione opposta a quella seguita comunemente: da come Aristotele caratterizza e riempie di significato il termine di volta in volta possiamo capire l’estensione dell’ambito dei pathe, mantenendo una certa elasticità nel trovare la traduzione corrispondente.

Uno dei presupposti della mia analisi è che a tal fine si possano utilizzare tutte le opere di Aristotele, facendo riferimento dunque a opere etiche, politiche, biologiche, che sicuramente presentano differenze, un impianto diverso, requisiti differenti (si pensi alla minore scientificità richiesta, per ammissione stessa di Aristotele, dalla trattazione etica), ma possono essere lette come frutto di una visione unitaria, capace di sorreggere anche il peso di eventuali contraddizioni interne.

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7 Ta pathe nella Retorica

La Retorica è l’opera dedicata da Aristotele alla techne retorike. Qui troviamo la trattazione più dettagliata di tutta una serie di fenomeni cui oggi facciamo riferimento come emozioni, ma che Aristotele classifica sempre sotto il nome di pathe. Il testo non è esplicitamente dedicato alla psicologia delle emozioni, infatti è concepito come un trattato di retorica in concorrenza con quelli che circolavano comunemente nella Atene del tempo, manuali che, secondo Aristotele, avevano un difetto fondamentale: non considerando propriamente la natura della retorica, essi ne tralasciavano l’aspetto fondamentale – si tratta di una techne, pertanto “solo le argomentazioni rientrano nella tecnica”1 – a favore di aspetti accessori – mezzi per indurre i

giudici a propendere per una parte in causa piuttosto che per l’altra, non sulla base di un ragionamento2. Come nota Fortenbaugh, uno dei pregi della ricerca di Aristotele nell’ambito della retorica è l’aver mostrato che le emozioni possono essere ragionevoli e che “emotional appeal need not be a matter of charms and enchantments”3:

As long as emotions went unanalysed it was possible to look upon emotional appeal as a kind of persuasion distinct from and hostile to reasoned argumentation. In the absence of an examination of emotion that made clear the involvement of cognition in emotional response, it was possible to think of emotional appeal primarily as a kind of charm or enchantment that overcomes the hearer, that works upon him in the manner of a drug. […] Aristotle developed a view of emotion that made clear the necessary involvement of cognition in emotional response and so made clear that emotional responses may be reasonable and unreasonable. Far from being hostile to reason, emotions are amenable to reason, so that an orator can arouse and allay emotion while presenting reasoned arguments.4

Se la retorica deve essere una techne, essa avrà un proprio metodo, alla definizione del quale, dei modi e dei mezzi della persuasione tramite i discorsi, è dedicato il primo libro dell’opera. La retorica è definita come “la facoltà (dynamis) di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun oggetto”5 e si differenzia dalle altre arti e scienze perché il suo oggetto sono

i mezzi persuasivi che possono essere utilizzati in relazione agli oggetti di tutti gli altri saperi. Dunque se da un lato il suo oggetto consiste proprio nei mezzi persuasivi delle argomentazioni, dall’altro essa sembra non avere un oggetto determinato, suo proprio, in quanto le argomentazioni vertono su soggetti differenti e devono risultare persuasive di volta in volta in

1 Rhet. I, 1354a13, Mondadori, Milano, 1996, Introduzione di F. Montanari, a cura di M. Dorati.

2 Come vedremo in seguito a proposito della tragedia, Aristotele assume la medesima posizione teorica nella

Poetica, in cui sostiene che è la trama, intesa come susseguirsi di eventi concatenati, ad essere portatrice delle ragioni della tragedia e dunque il nucleo del tragico sta nella narrazione dei fatti, non nella messa in scena dell’opera, per la cui efficacia diventa sufficiente la sola lettura del testo. Così come nella poesia non sono lo spettacolo, la musica, gli ornamenti a produrre l’effetto tragico, nel discorso retorico non sono i mezzi estrinseci all’argomentazione a produrre la persuasione, bensì è il discorso stesso a determinarla.

3 W. W. Fortenbaugh, Aristotle’s Rhetoric on Emotions in Articles on Aristotle Vol. 4; Psycology and Aesthetics,

edited by J. Barnes, M. Schofield, R. Sorabji, Duckworth, London, 1979, p. 134.

4 Ivi, pp.148-149. 5 Rhet. I, 1355b26.

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ambiti diversi. La tecnica del retore dunque consiste nel saper produrre discorsi persuasivi indipendentemente dal loro contenuto6 e questo è possibile combinando tre mezzi diversi:

Le argomentazioni offerte per mezzo del discorso sono di tre specie: le prime dipendono dal carattere dell’oratore, le seconde dalla possibilità di predisporre l’ascoltatore in un dato modo, le ultime dal discorso stesso, in quanto dimostra o sembra dimostrare qualcosa […] Poiché le argomentazioni dipendono da questi tre mezzi, è evidente che comprenderle è proprio di chi è in grado di compiere ragionamenti logici e di riflettere intorno ai caratteri, alle virtù, e, in terzo luogo, intorno alle emozioni – quale sia l’essenza di ogni emozione, quali siano le sue qualità, da cosa e come essa si produca.7

La complessità dell’approccio aristotelico al discorso retorico emerge dalla stratificazione dei più livelli persuasivi che egli individua. Dire che la persuasione deve essere condotta per mezzo delle argomentazioni non significa affidarsi semplicemente all’aspetto formale del discorso o alla conoscenza esatta e scientifica dell’oggetto di cui si parla (nel qual caso saremmo nell’ambito della scienza o della dialettica); una parte del contenuto persuasivo si trova quasi “fra le righe”, ed è trasportato insieme a ciò che viene detto, ma non coincide con esso. Il I libro della Retorica tratta la persuasione tramite il carattere dell’oratore, che consiste nel produrre argomentazioni implicitamente rivelanti alcune caratteristiche chiave dell’oratore come persona: credibilità, affidabilità, benevolenza, saggezza, sono tutte doti che un buon oratore deve dimostrare nei suoi discorsi. Così, per farlo, il retore non deve parlare di sé al pubblico, bensì deve costruire un’argomentazione plasmata sulle caratteristiche (usi, costumi, credenze, convinzioni) del pubblico che ha di fronte, in modo tale da veicolare l’idea che egli sia accomunato ad esso dagli stessi fondamenti della socializzazione, che egli condivida le convinzioni generali del pubblico e il punto di vista particolare sulle circostanze di cui si tratta. Aristotele dedica una lunga analisi descrittiva alle credenze sul fine ultimo degli esseri umani, la felicità, sui fini delle azioni, sull’utile e sul bene; interessante è a questo proposito la

6 Molto dibattuto è il rapporto fra retorica, etica e politica in Aristotele: il problema del ruolo della retorica nella

polis e nella forma ideale di governo è discusso, così come l’approccio che Aristotele adotta in quest’opera nei confronti della retorica in relazione alla critica platonica, sebbene quest’ultimo sia forse di più semplice soluzione. Aristotele scrive: “la retorica è una sorta di ramificazione della dialettica e della scienza etica, che è giusto definire politica. […] essa rappresenta una sorta di settore o di copia della dialettica, poiché nessuna delle due è una scienza relativa alla natura di un oggetto definito, ma entrambe sono soltanto facoltà di fornire ragionamenti. […] proprio come nella dialettica vi sono da un lato l’induzione, dall’altro il sillogismo e il sillogismo apparente, così accade anche nella retorica: l’esempio è infatti un’induzione, l’entimema un sillogismo, l’entimema apparente un sillogismo apparente” (Rhet. 1356a25 e segg.). Il legame fra retorica e politica dipende invece non dalla forma, ma dagli scopi e dalle circostanze in cui si fa uso della retorica: l’arte della persuasione tramite i discorsi realizza le proprie potenzialità nel contesto politico, quindi da un lato verte sui temi propri della politica, sebbene in modo diverso, dall’altro i suoi luoghi sono gli stessi della politica, ovvero l’assemblea dei cittadini riuniti in giudizio o per deliberare. Questo rapporto di comunanza fra politica e retorica è problematico dal punto di vista morale, in quanto Aristotele non descrive chiaramente in che modo, fino a qual punto, in quali circostanze il politico possa o debba fare uso della retorica. Una discussione dettagliata del problema si trova in S. Halliwell, The Challenge of Rhetoric to Political and Ethical Theory e in C.D.C. Reeve, Philosophy, Politics, and Rhetoric in Aristotle, entrambi in Essays on Aristotle’s Rhetoric, edited by Amélie Oksenberg Rorty, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London, 1996, pp. 175-190 e 191-205.

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trattazione delle forme di governo a 1365b20 e segg., infatti è importante “distinguere le usanze, le leggi e gli interessi di ciascuna, poiché tutti vengono convinti in base a ciò che è vantaggioso e salvare le istituzioni è vantaggioso. Inoltre, le decisioni dell’autorità posseggono autorità, e le forme di autorità si distinguono in base alle forme di governo”.

Tre generi di discorso retorico vengono distinti8 in base al tipo di uditore cui sono diretti, che determina anche il fine del discorso stesso: deliberativo è il discorso diretto ad un ascoltatore che decide in merito ad eventi futuri nell’assemblea; giudiziario è quello diretto ad un ascoltatore che decide di eventi passati; epidittico è il discorso diretto ad uno spettatore e riguarda il presente. L’oratoria deliberativa si compie tramite l’esortazione e la dissuasione; quella giudiziaria tramite accusa e difesa; l’oratoria epidittica tramite la lode e il biasimo. Possiamo distinguere i tre generi anche in base al fine: chi consiglia mira all’utile o al nocivo; chi sostiene una causa al giusto o all’ingiusto; chi loda o biasima ha in vista il bello o il brutto. Cominciamo a capire che il discorso persuasivo è tale ad un livello abbastanza profondo e spesso la persuasione dell’ascoltatore avviene senza che egli ne sia pienamente consapevole. Eppure il metodo della tecnica sta tutto nei discorsi e nelle argomentazioni, non si fa mai appello a metodi che solletichino l’ascoltatore in modi impropri, inadatti ai contesti in cui i discorsi hanno luogo. Purtuttavia si compie in qualche modo l’appello all’emotività dell’ascoltatore. Esso è l’oggetto del II libro, in cui troviamo l’analisi più dettagliata delle emozioni che ci sia pervenuta di Aristotele. Essa riguarda il secondo mezzo di persuasione, quella che si realizza “tramite gli ascoltatori, quando questi siano condotti dal discorso a provare una certa emozione”9.

A questo punto è necessario distinguere la trattazione del primo da quella del secondo libro, infatti il livello di profondità di Aristotele non può essere il medesimo, considerata la diversità degli approcci. Persuadere l’ascoltatore tramite il carattere significa rendere l’ascoltatore prono a credere all’oratore proprio in quanto egli è (o sembra) dotato di certe qualità e caratteristiche, proprietà che rendono automaticamente credibile ciò che egli dice. Dunque la plausibilità dei contenuti in questo caso è subordinata alla valutazione dell’oratore, che a sua volta si basa non su criteri “oggettivi” o di “verità”, bensì sui criteri dell’ascoltatore, criteri del tutto peculiari cui l’oratore deve mostrarsi conforme. Ciò che è fondamentale che l’oratore sappia, dunque, per potersi mostrare convincente come persona, non è la verità, ma ciò che il suo ascoltatore ritiene tale; non ciò che è bene, utile, giusto in assoluto, ma ciò che l’ascoltatore ritiene tale. Lo stesso

8 Rhet, I, 3.

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vale per quanto riguarda i contenuti degli entimemi, ovvero dei sillogismi retorici. Non è necessario dunque che Aristotele proponga, in questa sezione, una prospettiva filosofica su tali aspetti: lo farà nelle opere etiche, ma è ragionevole pensare che in questo contesto si stia attenendo in qualche misura10 alle credenze più diffuse e che le incongruenze fra Retorica ed opere etiche non invalidino la teoria etica di Aristotele così come è espressa in queste ultime.

Per quanto riguarda la trattazione del II libro, invece, vale il ragionamento opposto: è improbabile che Aristotele intenda proporre un’analisi delle emozioni superficiale, basata sul principio del “per lo più” o sulle credenze più diffuse, proprio perché la conoscenza approfondita dell’emotività umana è necessaria all’oratore che voglia indirizzarsi all’ascoltatore utilizzando le emozioni come mezzo persuasivo. È nell’interesse del retore infatti conoscere non le opinioni più diffuse – fossero anche profondamente radicate – sulle emozioni, ma cosa esse siano e come funzionino veramente per poter sperare di avere qualche appiglio sugli ascoltatori. Bisogna distinguere fra la conoscenza delle opinioni dell’ascoltatore e la conoscenza delle emozioni come fenomeno psichico in sé; in questo caso è dunque ragionevole pensare che Aristotele stia proponendo una analisi seria ed approfondita delle emozioni e delle loro implicazioni, sulla quale possiamo fare affidamento per comprendere la sua concezione delle emozioni e che possiamo tentare di coniugare con le teorie da lui espresse nelle sue altre opere. Questo è ciò che tenterò di fare nella sezione dedicata alle emozioni nell’Etica Nicomachea. Tener presente il contesto in cui le emozioni vengono introdotte è comunque necessario per capire se la trattazione sia o meno influenzata dallo scopo che l’autore si propone – utilizzare le emozioni in ambito retorico a fini persuasivi.

Le emozioni (ta pathe) sono i fattori in base ai quali gli uomini, mutando opinione, differiscono in rapporto ai giudizi, e sono accompagnate da dolore e piacere: per esempio l’ira, la pietà, la paura, e tutte le altre simili o contrarie a queste. A proposito di ogni emozione, inoltre, si devono distinguere tre aspetti. Voglio dire, per esempio, a proposito dell’ira, in quale disposizione d’animo si è portati all’ira, con quali persone si è soliti adirarsi, e in quali circostanze. Se noi conoscessimo solo uno o due di questi elementi, sarebbe impossibile destare l’ira.11

Analizziamo gli indizi che ci permettono di sostenere la tesi che Aristotele qui si stia occupando effettivamente di quell’insieme di fenomeni psichici che chiamiamo emozioni, escludendo dalla trattazione altri fenomeni che possono comunque essere fatti rientrare nell’insieme dei pathe, delle passioni, per esempio gli appetiti (epithymiai) e gli stessi piaceri e dolori.

10 In quale misura le posizioni espresse in Retorica I siano da ritersi endoxa, opinioni diffuse, o possano essere

utilizzate in un confronto con quelle delle Etiche per mettere in luce le concezioni aristoteliche su questioni come l’eudaimonia, il bene, i fini, è dibattuto. Cf. T. H. Irwin, Ethics in the Rhetoric and in the Ethics, in Essays on Aristotle’s Rhetoric, op. cit., pp. 142-174.

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Innanzitutto l’elenco succinto con cui egli esordisce presenta classici esempi di emozioni: ira (orge), pietà (eleos), paura (phobos).

Inoltre troviamo una esplicita distinzione fra emozione ed appetito nella trattazione dell’ira, in cui, analizzando i motivi da cui essa può scaturire, Aristotele elenca una serie di circostanze in cui, quando un altro reprime, ostacola o impedisce che soddisfiamo un appetito, si scatena la nostra ira nei suoi confronti: essendo l’epithymia legata a bisogni corporei (fame, sete, sesso), impedire che li soddisfiamo può essere vissuto come un attacco diretto dall’altro alla propria persona e anche, più sottilmente, come una svalutazione che l’altro compie di noi: mancare di riconoscere l’importanza dei bisogni dell’altro è come sminuirlo apertamente, nello svalutare la sua possibilità di imporsi su di noi, e quindi uno sminuirne il valore. Questo è il nocciolo da cui secondo Aristotele si scatena l’ira: il fatto che l’altro mi abbia sminuito in maniera manifesta, oppure la convinzione da parte mia che l’altro mi abbia sminuito con pensieri, parole, opere. La definizione dell’ira (Rhet. II, 2) infatti recita “desiderio di aperta vendetta, accompagnato da dolore, per una palese offesa –dia phainomenen oligorian – rivolta alla nostra persona o a qualcuno a noi legato, quando l’offesa non è meritata” – la causa è in effetti l’apparente sminuire operato dall’altro, dove phainomenen può significare sia “che appare a me”, sia “manifesto”, evidente. E la descrizione di Aristotele del rapporto fra ira ed appetiti è la seguente:

Gli uomini si adirano quando soffrono, perché chi soffre desidera qualcosa; inoltre, se qualcuno impedisce loro qualcosa direttamente – ad esempio se si impedisce di bere ad un assetato – e anche se non lo fa direttamente, ma sembra fare la stessa cosa. Ci si adira poi con tutti coloro che si oppongono, che non collaborano, che ostacolano in qualche modo questa condizione d’animo. Pertanto, chi è ammalato, chi è povero, chi combatte, chi è innamorato, chi è assetato, chi in sintesi, ha un desiderio e non può soddisfarlo, è portato all’ira ed è eccitabile, in particolare contro coloro che tengono in scarsa considerazione la sua condizione presente: il malato, ad esempio, è portato all’ira in rapporto alla malattia, il povero alla povertà, il combattente alla guerra, l’innamorato all’amore, e così via per il resto. Ognuno trova infatti la propria strada verso l’ira aperta dall’emozione (pathous) presente in lui.12

Trovo incoerente tradurre pathos con emozione in questo passo, in quanto il problema sta proprio nel distinguere i diversi fenomeni psichici raggruppati da Aristotele sotto il termine pathos. A confluire nell’insieme delle passioni sono quei fenomeni che vengono in qualche misura esperiti dal soggetto con passività, ma il grado di passività e le caratteristiche dei singoli fenomeni cambiano da uno all’altro. Comune alle passioni è l’esperienza di piacere e dolore, che sono costitutivi, ma in maniera diversa, sia delle emozioni, sia degli appetiti. Aristotele utilizza questo aspetto per isolare esplicitamente l’ambito delle passioni, utilizzando un termine apposito; d’altronde la definizione dei pathe di cui si occupa nella Retorica è chiara nel fare

12 Rhet. 1379a11-24.

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riferimento solo ad alcuni tipi di passioni, che sono accompagnate da piacere e dolore, ma sono definite nella loro essenza e alterità dal riferimento ai giudizi e la trattazione è coerente nell’attenersi a questo ambito ristretto. Nel passo cui ho fatto riferimento inoltre Aristotele sta distinguendo fenomeni dichiaratamente diversi, per cui sarebbe necessario mantenere tale distinzione anche nella traduzione: è chiaro che egli sta citando casi disparati, appetiti corporei come la sete o la fame, situazioni corporee come la malattia13, condizioni in cui desideri e bisogni corporei sono sacrificati (la povertà), o in cui (la guerra) entra in gioco un’emozione fondamentale come la paura, ma anche e soprattutto il dolore e i desideri del combattente. Dunque sarebbe più appropriato, in questo passo, tradurre pathos con passione, visto che lo stesso Aristotele qui non va più a fondo nel distinguere emozioni, appetiti, desideri.

La ragione fondamentale per sostenere che Aristotele nella Retorica stia deliberatamente trattando l’ambito specifico delle emozioni, tenendole consapevolmente distinte dalle altre passioni, si trova però proprio rivolgendosi alla trattazione stessa. Deve farci riflettere innanzitutto l’utilità o meno di analizzare le emozioni in un trattato che aspiri a rifondare la retorica come techne, ovvero come un sapere pratico guidato da regole, orientato all’efficacia, poiché mira ad ottenere un prodotto esterno. Le emozioni hanno due ruoli principali: nel ricercare la persuasione per mezzo del carattere dell’oratore, è necessario comprendere la natura ed il funzionamento delle emozioni per assicurare che l’oratore sappia far trasparire nel proprio discorso benevolenza e sentimenti di amicizia nei confronti del pubblico14 – aspetto più utile nell’ambito deliberativo; invece la persuasione tramite l’ascoltatore sfrutta proprio il fatto che l’ascoltatore si trovi, possa trovarsi o possa essere indotto a trovarsi in una data disposizione emotiva – aspetto più utile nell’ambito giudiziario, infatti “i giudizi non vengono emessi allo stesso modo se si è influenzati da sentimenti di amore o di gioia, oppure di amicizia o di odio”15.

[…] le cose non sembrano uguali per chi prova sentimenti d’amicizia o di odio, per chi è incollerito o tranquillo, ma sembrano completamente diverse, o diverse in quanto a importanza: se il giudice prova sentimenti di amicizia nei confronti di colui che deve giudicare, penserà che questi non ha commesso alcuna ingiustizia, o che ne abbia commessa una irrilevante, se invece gli è ostile crederà il contrario. A un uomo che desidera qualcosa e ha buone

13 Nell’ottica della concezione “medica” di piacere e dolore, la malattia è strettamente associata ad essi in quanto

stato alterato del corpo che dovrebbe tendere ad un ristabilimento della propria condizione naturale, e come tale è associata a dolore, mentre la guarigione a piacere.

14 A 1378a8 si parla di eunoia, la benevolenza, un’emozione ben diversa dall’amicizia oggetto dei libri VIII e IX

dell’Etica Nicomachea. Affinché l’oratore appaia bendisposto nei confronti del pubblico, è sufficiente che il pubblico creda che egli provi un tipo di emozione positiva nei suoi confronti, tale che egli desidererà il bene del pubblico e dunque desidererà farne gli interessi e consigliarlo per il meglio. Posto che egli abbia questo desiderio, dovrà mostrarsi anche saggio e virtuoso affinché il pubblico ritenga che i suoi consigli siano effettivamente rivolti al bene, all’utile, al vantaggioso e che la sua propria virtù gli impedisca di danneggiare gli altri, e dunque il pubblico stesso, con consigli fallaci o ingannatori.

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speranze di ottenerla, qualora si tratti di una cosa piacevole, sembrerà che ciò debba realizzarsi e risultare positivo, mentre il contrario si avrà per chi è indifferente o mal disposto.16

Queste affermazioni stimolano alcune considerazioni. Il motivo per cui è così rilevante occuparsi di questo tipo di pathe per Aristotele è che essi influenzano i giudizi delle persone. Più propriamente sono, come abbiamo visto, ciò in base a cui gli uomini differiscono nei propri giudizi. Abbiamo dunque un altro segnale del fatto che Aristotele stia cercando, pur senza passare attraverso l’apposita coniazione di un nuovo termine, di delimitare un ambito specifico: quello delle passioni che hanno un rapporto essenziale con il giudizio. È chiaro che gli appetiti non possono essere inclusi in questo sottogruppo, in quanto l’epithymia è un desiderio corporeo, immediato ed irrazionale: è assente da essa qualsiasi tipo di valutazione della realtà (è cieca) e non si può rivolgerglisi razionalmente (è sorda). Inoltre gli appetiti sono qualcosa di radicato nel corpo perché esso non ne è solo l’oggetto, ma anche la fonte: non sono espressione di una relazione dell’individuo con l’esterno, con la realtà che lo circonda, bensì sono autoreferenziali. Chiaramente anche le emozioni hanno una base corporea, ovvero hanno effetti sul corpo e si manifestano anche attraverso esso nelle reazioni fisiche (arrossire, sbiancare, tremare, spalancare gli occhi, avere gli occhi sbarrati, sorridere sono tutti esempi di manifestazioni emotive). Ma si tratta, appunto, di manifestazioni o reazioni fisiche a qualcosa che ha le proprie ragioni al di fuori del corpo e, se possiamo parlare di ragioni, significa che si tratta di un contenuto cognitivo. Così non è per gli appetiti: non c’è alcun aspetto valutativo in essi, niente che li leghi essenzialmente al giudicare (krinein). L’ambiguità del termine non è dannosa in questo contesto: ovviamente nell’ambito giudiziario giudicare significa assolvere o condannare un imputato; nell’ambito deliberativo abbiamo però ugualmente un giudizio, riguardante l’utilità o meno, l’opportunità o meno, di un corso d’azione perseguibile. In entrambi i casi giudicare significa valutare: operare delle distinzioni, discernere, leggere uno stato di cose, interpretarlo. Essenzialità del giudizio significa che esso entra nella definizione di alcuni tra i pathe, che possiamo cominciare a chiamare emozioni17. La cosa fondamentale qui è che, nel

giudicare, il soggetto è attivo, non passivo, e anche rileggendo la definizione dei pathe a 1378a19 notiamo che piacere e dolore li accompagnano; questo sembra confermare la tesi che effettivamente le passioni di cui Aristotele parla non siano un insieme generico, ma ben delimitato a quelle in cui la presenza di piacere e dolore è non essenziale, ovvero non è il

16 Rhet. II, 1377b 16-1378a5.

17 Se esista un set basilare di emozioni riconosciute universalmente (nel tempo e nello spazio) è problema oggetto

di dibattito. Per un quadro introduttivo al problema della corrispondenza fra le emozioni degli antichi e quelle dei moderni cf. D. Konstan, The Emotions of the Ancient Greeks. Studies in Aristotle and Classical Literature, University of Toronto Press Incorporated, Toronto 2006. Per una teoria e un’analisi dettagliata sulla natura delle emozioni cf. A. Ben-Zeev, The Subtlety of Emotions, MIT Press, Cambridge, 2001.

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riferimento a piacere e dolore a definire l’essenza di ogni emozione, né la sua specificità. A sua volta questo conferma l’ipotesi che l’esclusione degli appetiti e dei desideri dalla trattazione della Retorica sia intenzionale e non frutto di una incongruenza da parte di Aristotele, il quale è piuttosto congruente invece nel concentrarsi su quei fenomeni psichici rilevanti dal punto di vista della persuasione che avviene con le parole. Nelle emozioni c’è infatti una componente di attività del soggetto che valuta la realtà con cui si trova a confronto. Questa valutazione non è razionale, ma è pur sempre cognitiva, il che significa che contiene un pensiero e questo pensiero è la nostra opinione in merito; ciò è valido nonostante possa accadere a livello inconsapevole, senza che il soggetto ritenga di operare alcunché. Non si tratta di una valutazione come quella che potrebbe compiere la parte calcolante dell’anima (logistikon), non si tratta di soppesare pro e contro, né di individuare i mezzi in vista di un fine: questo tipo di valutazione può essere influenzato dagli appetiti, che sono desideri irrazionali, e in quanto tali pongono fini (così come la boulesis)18. Le emozioni invece agiscono ad un livello diverso, non sono un tipo di orexis e

soprattutto interagiscono con i giudizi; per capire in che modo non è sufficiente limitarsi alla definizione generale, perché anche le analisi delle singole emozioni sono parte della costruzione della definizione stessa, in quanto la fenomenologia delle varie emozioni mette in luce molti aspetti che nella prima non emergono.

Riprendiamo l’enunciazione: “A proposito di ogni emozione si devono distinguere tre aspetti”, ovvero la disposizione d’animo, l’oggetto e le circostanze. Questa è la struttura di fondo che Aristotele individua e attorno alla quale cerca di strutturare l’analisi di ciascuna emozione. L’oggetto dell’emozione è sempre una persona particolare, a causa delle sue azioni o delle sue parole o della sua fortuna (nel senso ampio di sorte, delle circostanze, siano esse positive o negative, in cui ella si viene a trovare, volontariamente o involontariamente). La disposizione d’animo è quella in cui si trova il soggetto, dipende a sua volta dalle circostanze che egli sta attraversando e da come le sta vivendo, ed a sua volta influenza la possibilità che una data emozione insorga o meno; la disposizione d’animo costituisce infatti il terreno dal quale l’emozione dovrebbe sorgere, ovvero il materiale cognitivo preesistente, sul quale dovrebbe innestarsi quello determinato dell’emozione (e anche da questa dinamica nasce la rete complessa di relazioni fra carattere ed emozioni tra loro). Le circostanze sono quelle in cui si trova il soggetto. A questi elementi strutturali se ne aggiungono due che non appartengono esplicitamente a tutte le emozioni: il fine e il riferimento alla giustizia. Il fatto che un’emozione

18 Sul concetto di orexis e la descrizione di epithymia, thymos e boulesis cf. EN 1139a17-33, 1147a25 e segg., DA

432b-433b, MA VI. Per la trattazione di De Anima e De Motu Animalium rimando al terzo capitolo, in cui li analizzerò alla luce della posizione di Martha Nussbaum.

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tenda intrinsecamente ad un fine, ovvero a realizzare qualcosa di estrinseco, ad operare un cambiamento sul mondo, dimostra che la concezione di Aristotele è lontana dal considerare le emozioni come una mera affezione corporea dal carattere passivo: vi sono emozioni che essenzialmente esprimono una tendenza verso un fine, il che significa che si caratterizzano anche per un aspetto attivo. Il soggetto che prova un’emozione di questo tipo la vivrà passivamente nella misura in cui essa è per lui qualcosa di irriflesso, un fenomeno sul quale egli o ella non si è mai trovato a riflettere, che dunque non gli o le è apparso nella sua complessità e potrà sentirsene travolto. Che il vissuto del soggetto sia tale, però, non implica nulla dal punto di vista della natura effettiva dell’emozione. Vediamo l’esempio dell’ira, una delle emozioni più caratteristiche poiché presenta tutti gli aspetti che abbiamo elencato:

“Definiamo l’ira come un desiderio di aperta vendetta, accompagnato da dolore, per una palese offesa rivolta alla nostra persona o a qualcuno a noi legato, quando l’offesa non è meritata”19.

La circostanza necessaria affinché il soggetto provi ira è che ritenga di essere stato sminuito intenzionalmente da qualcuno che a quel punto sarà l’oggetto dell’ira. Le disposizioni d’animo che favoriscono l’insorgere dell’ira sono tutte quelle connesse ad un malessere, al dolore, ad una condizione di bisogno, di insicurezza, di debolezza, poiché esse rendono più facile che l’agire altrui sia percepito come una forma di mancanza di rispetto, di disinteresse e quindi come un essere sminuiti, semplicemente perché gli stati di bisogno richiederebbero, al contrario, un surplus di attenzioni e un riconoscimento che al contrario viene negato; oppure sono le condizioni d’animo connesse ad un’aspettativa che poi viene sconfessata dall’altro, tendenzialmente un’aspettativa di riconoscimento (per qualcosa che abbiamo detto, fatto o per qualcosa che siamo) per cui ci si aspetterebbe che l’altro riconoscesse il nostro valore ed agisse di conseguenza. Infine notiamo che l’ira è definita innanzitutto in base al fine: la vendetta. Il desiderio contenuto nell’ira la definisce nella sua essenza e le dona ulteriori sfaccettature: nell’ira, oltre al dolore, è contenuto anche un piacere legato alla prefigurazione della vendetta ed alla speranza di compierla. Da notare appunto lo stretto legame fra le emozioni e la possibilità: non si provano sentimenti di speranza nei confronti di ciò che si ritiene sia impossibile o fuori della propria portata, per esempio l’ira sorge nei confronti di persone che non sono percepite come superiori, cui dunque il soggetto non concede la possibilità di denigrarlo o sminuirlo, che quindi egli non teme e pertanto ritiene effettivamente possibile realizzare la vendetta e in particolare il vendicarsi sminuendole apertamente allo stesso modo; similmente, la paura scaturisce da mali terribili che devono essere percepiti sul punto di

19 Rhet. II, 1378a31-33.

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accadere a noi, imminenti; la compassione riguarda gli stessi mali di cui si ha paura; la vergogna riguarda azioni che avremmo la possibilità di compiere o addirittura già compiute; l’emulazione, l’invidia, lo sdegno riguardano beni che il soggetto dell’emozione si ritiene capace o degno di ottenere; l’essere amici (to philein) è definito “il desiderare per qualcuno ciò che si ritiene un bene ed essere pronti a realizzarlo, per quanto è possibile”20. Dunque troviamo in tutti i casi un senso di contatto con la realtà. Ma se nel caso dell’ira è necessario che il soggetto nutra la speranza di vendicarsi, egli deve pensarsi come sminuito nelle intenzioni dell’altro, nella visione dell’altro, ma non effettivamente, ovvero deve ritenere di essere praticamente in grado di vendicarsi, di avere il potere di farlo, per potersi arrabbiare. Non si arrabbiano coloro che non pensano di avere la forza, la capacità o i mezzi per attuare la vendetta, e neppure coloro che si sentono inferiori o sono in qualche modo subordinati all’autore dell’oltraggio.

L’altro elemento accessorio, il riferimento alla giustizia, è meno diffuso. Le emozioni che hanno un fine intrinseco esplicitato nella definizione sono come abbiamo visto l’ira (orge – il cui fine è la vendetta), ma anche l’amichevolezza (to philein – il cui fine è fare il bene dell’amico), il favore (charis – il cui fine è compiere un servizio a vantaggio di chi ne ha bisogno), l’invidia (phthonos – il cui fine è togliere all’altro dei beni), l’emulazione (zelos, il cui fine è ottenere anche per sé i beni che ha l’altro). Ciò significa che queste emozioni hanno già uno scopo ben preciso nel momento in cui sorgono. Il riferimento alla giustizia è invece caratteristico di compassione (eleos), sdegno (nemesan), in un certo senso dell’ira, nella misura in cui l’essere sminuiti è percepito come ingiusto perché l’atto è stato compiuto da un nostro pari e non da qualcuno a noi superiore. Che l’ingiustizia sia reale o soltanto percepita come tale dal soggetto, il risultato è il medesimo e si traduce in un desiderio di compensazione rispetto alla situazione che ha destato l’emozione. Questo è chiaro nel caso dell’ira, meno pacifico nel caso di compassione e sdegno, che non sembrano di per sé muovere il soggetto all’azione. C’è comunque la percezione di un ordine che è stato sconvolto.

Abbiamo visto le diverse componenti attorno alle quali si struttura l’emozione. Ma che cosa effettivamente sia un’emozione non è ancora chiaro: è necessario capire il ruolo giocato da piacere e dolore e dai giudizi.

Le emozioni sono per definizione accompagnate (hepetai) da piacere e dolore e sono pathe. Sicuramente quindi piacere e dolore sono essenziali alle emozioni: non nel senso che l’emozione per essere tale debba includere piacere e/o dolore, bensì nel senso che essi fanno

20 Rhet. II, 1381a.

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parte di ciò che essa è. L’odio per esempio è l’unica emozione fredda, mentre tutte le altre sono definite come un tipo di piacere o dolore e non semplicemente come emozioni piacevoli o dolorose: piacere e dolore non sono conseguenze del provare un’emozione, piuttosto è l’emozione che si manifesta come un tipo di piacere o di dolore. Chiaramente non si riduce solo a ciò ed essi non sono neppure sufficienti a distinguere le emozioni le une dalle altre, sebbene si possa argomentare21 che ciascuna emozione sia accompagnata da un proprio dolore, qualitativamente diverso dagli altri, sulla base del modello presente in EN, in cui ciascuna attività comporta un piacere suo proprio: non credo che le emozioni possano essere classificate come attività, ma quel principio può essere utilizzato per lo meno per sostenere che Aristotele ammette l’esistenza di piaceri qualitativamente diversi, dato che è piuttosto in linea con l’esperienza comune e con la considerazione del fatto che i piaceri e i dolori legati alle emozioni non sono esperiti alla stessa stregua di quelli dovuti per esempio a una ferita o all’attività sessuale. Con ciò non sto sostenendo che si debba distinguere fra dolori o piaceri fisici e psichici (e che le emozioni ricadano sotto quest’ultimo tipo), bensì solo che possiamo rintracciare modalità diverse e tipi diversi di piaceri e dolori, di cui questo è un esempio. Per quanto riguarda l’odio, il fatto che sia un emozione “fredda”, non accompagnata da piacere o dolore, conforta la tesi che questi ultimi siano parte dell’emozione ma non fondamentali, avvalorando anche la tesi che legge l’esclusione di epithymia dalla trattazione nella Retorica come una scelta coerente. Infatti abbiamo sostenuto che Aristotele qui stia delimitando il sottoinsieme delle emozioni all’interno dell’insieme più vasto delle passioni, ovvero quei fenomeni psichici che l’individuo subisce come un’affezione. Possiamo infatti presumere che il soggetto non sia passivo allo stesso modo in tutti i casi, né quantitativamente né qualitativamente. Nel caso delle emozioni la passività è minore che nel caso degli appetiti: le emozioni sono accompagnate da piacere e dolore, hanno effetti sul corpo, ma il vero nucleo portatore di senso dell’emozione è il giudizio da essa espresso, che è ovviamente rivolto verso la realtà esterna, mentre gli appetiti scaturiscono da bisogni corporei e si esauriscono nel corpo, rivolgendosi all’esterno solo per trovare i mezzi per la propria soddisfazione. Le emozioni sono modalità con cui il soggetto ha a che fare con ciò che lo circonda e in particolare con gli altri, e tutto questo si dà nel giudizio. Tutte queste annotazioni sono in effetti coerenti con il progetto di Aristotele per la retorica: restaurarla come arte della persuasione attraverso logoi, i discorsi, che sono razionali e come tali devono indirizzarsi a qualcosa su cui la razionalità possa fare appiglio in qualche modo. Gli appetiti non lo sono, mentre le emozioni sono quei pathe che “ascoltano” la ragione e possono

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essere influenzati da essa; ecco dunque la loro caratteristica distintiva essenziale: sono ciò per cui gli individui differiscono rispetto ai propri giudizi. Vediamo come, seguendo la pregevole analisi di Leighton22.

Innanzitutto si può differire rispetto ai giudizi perché, una volta che si è affetti da una data emozione, essa influenzerà il giudizio: le emozioni hanno effetto sui giudizi in base al fine cui tendono. Lo stesso termine giudizio indica sia il verdetto di un giudice, sia una valutazione, la lettura delle cose, l’interpretazione che si dà di un realtà. Un fine è uno scopo che più o meno consapevolmente il soggetto affetto da una data emozione persegue proprio perché è l’emozione a disporlo così. Se prendiamo nuovamente l’esempio dell’ira, una persona affetta dall’ira nei confronti di un’altra sarà più incline a giudicarne il comportamento severamente, perché mossa dal desiderio di vendetta. Invece una persona che prova sentimenti di amicizia23 nei confronti di qualcuno sarà più incline ad essere indulgente nei suoi confronti, perché mossa dal desiderio di beneficare l’amico. Questa dinamica è immediata: il fine dell’emozione mi porta ad esprimere valutazioni conseguenti ed a farlo in modo consapevole.

Gli individui affetti da un’emozione differiscono in rapporto ai giudizi anche perché è l’emozione stessa ad essere un giudizio. L’emozione ha di per sé un contenuto cognitivo: contiene un’opinione sulla realtà, esprime, nel momento in cui il soggetto ne è affetto, quella che è la sua visione delle cose e proprio l’opinione può essere modificata col discorso razionale, al quale è sensibile. Per farlo è possibile innanzitutto mostrare evidenze ulteriori, che facciano apparire le cose sotto una luce diversa e quindi le rendano suscettibili di essere interpretate diversamente. Alcuni esempi. La rabbia contiene l’opinione che l’altro abbia voluto intenzionalmente sminuirmi; se mi rendo conto che in realtà non c’è stata nessuna mancanza di rispetto, nessuna offesa, oppure nessuna intenzionale, la rabbia svanirà. Proprio sulla base del loro contenuto cognitivo le emozioni interagiscono in maniera complessa l’una con le altre: sono, sì, eventi isolati e transeunti, ma costituiscono una sorta di “paesaggio emotivo” ricco di contenuti. Aristotele può quindi costruire una vera e propria rete emotiva di legami e opposizioni dovuti al contenuto cognitivo di ciascuna emozione, per cui, mentre alcune emozioni sono affini, altre si escludono a vicenda. Ecco il secondo modo in cui l’emozione modifica il giudizio: non è un’influenza estrinseca e consequenziale, bensì intrinseca, perché essere affetti da una data emozione significa giudicare in un certo modo e non in un altro. In

22 S. R. Leighton, Aristotle and the Emotions, op. cit., pp. 206-237.

23 Sempre intendendo con ciò un’emozione, diciamola amichevolezza, del tutto diversa dalla condizione stabile e

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questo modo si escludono le basi per provare quelle emozioni che comportano giudizi opposti ai primi. Leighton parla di “set” o “complexes”:

In the second case, emotions are complexes involving judgments, each complex excluding certain other emotion complexes, their judgments, and certain other judgments as well. It is not that envy brings about a change of judgments such that one does not show or feel pity; rather, to be moved to envy involves being moved to a particular set of judgments that excludes those of pity. Similarly, it is not that being angry makes us view the object of emotion as insulting, but being angry involves viewing the object as insulting.24

Quest’ultimo punto è di grande importanza: provare una certa emozione significa vederne l’oggetto in un certo modo, percepirlo in un certo modo, ed è questa percezione ad escludere quelle emozioni che comportano visioni opposte. Una citazione dall’analisi del favore (charin) è utile alla chiarezza:

Di conseguenza, dal momento che è evidente per quali persone, per quali ragioni, e con quale disposizione d’animo nasca un sentimento di favore, è chiaro che è di qui che si devono trarre gli argomenti, mostrando che gli uni si trovano o si sono trovati in un tale stato di bisogno o di sofferenza, e che altri hanno reso o stanno rendendo un tale servizio in tali circostanze di necessità. Ed è anche evidente con quali mezzi è possibile cancellare il favore e rendere sgradito qualcuno: si sosterrà infatti che quella persona rende o ha reso un dato servizio per interesse personale (e questo si è detto che non è “favore”), o che è accaduto per caso, o perché fu costretto, oppure che ha solo restituito, e non dato qualcosa, sia consapevolmente, perché in entrambi i casi si tratta di un cambio, e di conseguenza neppure in questo modo potrebbe essere un favore.25

In passaggi come questo Aristotele sta dando indicazioni tecniche all’oratore su come indurre o inibire un’emozione negli ascoltatori. Dal punto di vista del lettore interessato a comprendere la concezione delle emozioni di Aristotele, essi sono fondamentali perché, mostrando come l’oratore le possa utilizzare, forniscono indicazioni importanti su come esse operino e in particolare sui modi in cui influenzano il giudizio. Viene detto esplicitamente che l’oratore può far nascere un sentimento di favore: deve mostrare a parole, nel discorso, che la persona oggetto del giudizio lo merita per determinate sue opere passate o per la sua condizione attuale, costruendo argomenti che lo dimostrino. Se al contrario chi ascolta ha uno sguardo favorevole sull’altro, l’oratore può letteralmente mutare il favore in disfavore, costruendo argomentazioni che mostrino quanto l’altro non meriti tale favore. È chiaro che mostrare il demerito dell’imputato non solo elimina i sentimenti di favore nei suoi confronti, ma ne genera anche altri, di disfavore. Dunque l’oratore ha due possibilità: escludere l’emozione da cui gli ascoltatori sono affetti mostrando loro aspetti che non avevano notato, aggiungendo informazioni o proponendo un’interpretazione nuova delle circostanze, oppure portarli a provare un’emozione che escluda quella che avrebbe conseguenze indesiderate per i propri scopi. Ciò è possibile perché affinché siamo affetti da un’emozione è necessario avere

24 S. R. Leighton, Aristotle and the Emotions, op. cit., p. 210. 25 Rhet. II, 1385b 1-5.

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l’opinione che le cose stiano proprio così, poter vedere la realtà in un certo modo: è necessaria una base cognitiva che non è “neutra”, nel senso che se si percepisce la realtà in un certo modo è impossibile contemporaneamente provare un’emozione che guarda alle cose nel modo opposto. È interessante notare come nel caso giudiziario Aristotele stia parlando proprio di emozioni dirette legate ad elementi precisi, aspetti particolari della vita dell’imputato, per esempio, che non abbiano a che fare direttamente col capo di imputazione, ma con la sua persona in generale. Non sta sostenendo che l’oratore debba suscitare nel pubblico il desiderio di assolverlo o condannarlo, bensì che deve suscitare emozioni come compassione, invidia, rabbia, sdegno, che il pubblico prova nei confronti dell’imputato per motivi personali o ulteriori: sono emozioni che portano in sé una visione complessiva di quella persona, per cui cambia il modo in cui la persona viene percepita da chi deve giudicarla e cambiano le prospettive in cui il giudizio è inserito: se per esempio l’oratore desidera muovere il giudice all’invidia, dovrà far sì che egli pensi che l’imputato possieda dei beni in maniera eccessiva, beni che non dovrebbe poter possedere se egli stesso non li possiede, dato che si tratta di un suo pari; questo “non dovrebbe poter possedere” si tradurrà in un sentimento ostile, di opposizione personale, che tende a spogliare l’altro di questi beni in sovrappiù (rispetto a sé) e quindi a danneggiarlo, se si tratta di un giudizio in tribunale, giudicandolo colpevole. Un altro esempio è quello dello sdegno: anch’esso, come l’invidia, guarda negativamente al fatto che l’altro possieda dei beni, ma non di per sé, bensì perché li possiede immeritatamente. Mentre l’invidia è un’emozione eterodiretta che però rimane fermamente centrata su di sé, lo sdegno può essere centrato sul merito. “Può”, in quanto il demerito non è sempre oggettivo: Aristotele descrive molte situazioni in cui i beni altrui sono ritenuti immeritati per motivi decisamente infondati, non razionali, nel qual caso si tratta di un riferimento al merito del tutto arbitrario che scinde (seppur inconsapevolmente) il merito dalla giustizia. In entrambi i casi, il giudice sarà mosso allo sdegno nei confronti dell’imputato se l’oratore lo indurrà a ritenere che l’imputato non abbia diritto di possedere quei beni cui egli stesso non ha accesso e quindi cercherà eventualmente di danneggiarlo. Il fulcro della tecnica persuasiva è però in entrambi i casi la possibilità, muovendo l’altro per esempio a provare invidia o sdegno, di escludere implicitamente i “set cognitivi” opposti, in questo caso la compassione o il favore: pensare che l’altro possieda dei beni senza meritarli oppure pensare che li possieda “e io no”, esclude altri pensieri, per esempio: concentrarsi sui beni esclude il pensiero dei mali, eventualmente immeritati, e quindi la compassione; concentrarsi sul confronto con se stessi esclude invece il riferimento al merito e quindi la visione degli eventuali meriti dell’altro e delle eventuali

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sventure che lo hanno colpito ingiustamente e quindi sia il favore che la compassione; concentrarsi sul demerito relativo a certi beni posseduti dall’imputato esclude il pensiero dei beni compiuti o elargiti dal medesimo e quindi il favore. Di nuovo, per riprendere Leighton, qui il punto non è che l’emozione ci faccia vedere le cose in un certo modo, bensì che l’emozione è un modo di vedere le cose.

Le cose sono rese più complicate dalla attività contemporanea di questi meccanismi cognitivi tra loro e anche dall’esistenza di ulteriori modalità in cui si può dire le emozioni determinino differenze nei giudizi.

Già descrivendo l’esempio dell’invidia è emerso che, pur non essendo presente un fine intrinseco all’emozione, fine che orienti l’azione del soggetto esplicitamente, si può comunque dire che questa emozione lo disporrà inconsapevolmente nella condizione di cercare di danneggiarlo in qualche modo. Leighton parla di “favor/disfavor method”:

Of a certain case which otherwise we would be unsure how to evaluate, the emotion disposes us and makes us desire to favor or disfavor the person to whom the emotion relates. Since we do need to form some opinion of the case, we correspondingly judge the case harshly or favorably. Thus emotion alters judgment. Should there be a number of related cases, one’s judgment not just of each particular case, but of the person will be likewise swayed. For example, we shall tend to be charitable about the motives of a beloved, judging ambiguous cases in this light.26

Dunque in questo caso sì, l’emozione ci fa vedere le cose in un certo modo, nel senso che tende a modificare il modo in cui ci si avvicina alle circostanze: provare un’emozione nei confronti della persona coinvolta nella situazione da valutare significa che un intero insieme di opinioni, valutazioni, giudizi è coinvolto nel momento in cui si guarda ad essa. A differenza del caso precedente, in cui il soggetto viene mosso a provare una certa emozione proprio per alterarne la percezione dell’altro, qui l’emozione è un elemento che fa parte dello sfondo da cui dipenderà il giudizio. Nei casi ambigui, l’emozione tende a “sedurre” il giudizio perché ha la tendenza ad autogiustificarsi, a cercare quindi delle ragioni che giustifichino l’emozione stessa ed il fatto di provarla. Questo è un modo in cui le emozioni si radicano profondamente nel soggetto e tendono continuamente a rigenerarsi.

In tutti questi tre primi casi resta dunque sullo sfondo una caratteristica fondamentale delle emozioni: esse hanno non solo un contenuto cognitivo, ma anche un ruolo cognitivo. Il contenuto cognitivo è quello che influisce sulle conseguenze del provare l’emozione. Riassumendo: nel caso dell’amicizia, il soggetto è innanzitutto desideroso di beneficare l’amico e in quanto tale è spinto a giudicarlo positivamente per evitare di nuocergli; inoltre il set cognitivo dell’amicizia esclude quelli delle emozioni competitive come ira, sdegno, invidia;

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infine il fatto che il soggetto percepisca l’altro come amico fa sì che il giudizio che si fa delle circostanze che lo coinvolgono sia più benevolo, ed egli tenderà a scusare l’altro più facilmente, a trovare motivazioni che lo giustifichino e continuino a dipingerlo come una persona nel complesso buona, che proprio per questo non potrà aver agito male. Il ruolo cognitivo delle emozioni è invece quello di contribuire alla nostra percezione della realtà. Le emozioni sono attive già nel momento in cui “riceviamo” i dati della realtà esterna e li rielaboriamo. Precisamente le emozioni hanno due caratteristiche: lavorano tramite aspettative e operano selezioni. Vediamo come.

Una peculiarità delle emozioni è che hanno influenza sul nostro stato cognitivo e quindi sull’aspetto cognitivo delle nostre percezioni. Il modo in cui il variegato e sconnesso materiale sensibile viene organizzato in una percezione determinata e dotata di senso compiuto dipende anche dal trovarsi o meno in un particolare stato emotivo, essendo quest’ultimo un modo particolare di essere disposti a percepire la realtà. L’emozione infatti è un legame col mondo esterno che viaggia nei due sensi: da un lato cercando giustificazioni di se stessa nella realtà, dall’altro però anche poiché ha la tendenza a costruire la realtà nella percezione in modi conformi a se stessa. Le emozioni racchiudono come una aspettativa: un’opinione, una credenza sul futuro, dunque il sentimento che qualcosa accadrà. Quando ci aspettiamo qualcosa e crediamo che accadrà (abbiamo un’opinione sul futuro) non possiamo fare a meno di interpretare le cose alla luce di tale aspettativa. Nei testi aristotelici vi sono molti esempi del genere: in un passo nel Dei Sogni27 Aristotele descrive la situazione di un innamorato che, preso dall’emozione dell’innamoramento, tende a vedere l’amato dappertutto ed a ritrovare tracce di lui ovunque, fino a scambiare per lui dei perfetti sconosciuti. Anche il caso della paura è esemplificativo, infatti una persona in preda al terrore tenderà ad essere spaventata da tutto ed a vedere ovunque la fonte stessa della minaccia: chi per esempio sta camminando di sera in una strada buia, di cui gli è stato detto sia una zona pericolosa da attraversare da soli, tenderà a vedere in ogni angolo l’ombra di una persona pronta ad aggredirlo o a interpretare ogni rumore come quello dei passi di qualcuno che lo sta seguendo. La parola chiave qui è interpretare: le emozioni, con questa sorta di inganno di cui ci rendono vittime, non sono degli stati confusionali totalmente chiusi alla ragione che si impadroniscono del soggetto e delle sue visioni, bensì sono ingannatrici nella loro attività interpretativa, poiché prendono parte al processo di costruzione di senso con cui il soggetto si rapporta con la propria realtà. Nel momento in cui una serie di dati sensoriali gli si presentano, essi sono oggetti di percezione per

27 De insomn. 2, 460b5-9.

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