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Comprensione e giudizio

Il giudizio degli spettator

1. Comprensione e giudizio

Si è fatto cenno, citando del discorso di ringraziamento di Arendt per il premio Sonning, all’espressione cristiana «Chi sei tu per giudicare?». Arendt riconduce in maniera appropriata questa espressione – ricorrente anche nel linguaggio comune – al linguaggio cristiano, poiché in effetti farebbe da eco alle celebri parole di Gesù Cristo, riportate in varie versioni, ad esempio, nel protovangelo di Giacomo «Chi sei tu che ti fai giudice del tuo prossimo?» (4, 12), o nella Lettera ai Romani di Paolo di Tarso, «Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo?» (14, 4) o, esemplarmente, nel vangelo di Luca, in cui l’apostolo riporta il noto interrogativo posto da Gesù, «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave ch’è nel tuo?» (6, 41), in seguito all’inequivocabile comandamento «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato» (6, 37).

Ebbene, proprio in relazione a quest’ultimo passo di Gesù, che pone in relazione la comprensione (nei termini dell’astensione dal giudizio, che sembrerebbe equivalere, secondo il Gesù del vangelo di Luca, all’essere indulgenti) e il perdono, Arendt propone un chiarimento del rapporto che intercorre tra i due termini nel saggio Understanding and Politics, anche alla luce dell’equivoco ingenerato dalla celebre espressione di Madame de

Staël, «Tout comprendre c’est tout perdonner» («Comprendere equivale a perdonare»)318.

Ciò che Arendt intende spiegare, nelle pagine di questo testo, è che il processo di comprensione di un fatto politico – ella fa chiaramente riferimento al totalitarismo e agli atti compiuti sia dai membri del governo tedesco sia alle omissioni da parte della società civile, sebbene ciò non ci precluda di astrarre da questi casi specifici –, contrariamente alle raccomandazioni di Cristo, così come riportate dai vangeli, non significa perdonare il fatto e i suoi responsabili, bensì significa, al contrario, esercitare la propria capacità di giudizio politico, in senso riflettente:

[l]a comprensione, che va distinta dal possesso di informazioni corrette e dalla conoscenza scientifica, è un processo complesso che non produce mai risultati inequivocabili: è un’attività senza fine, con cui, in una situazione di mutamento e trasformazione costanti, veniamo a patti e ci riconciliamo con la realtà319.

Da questo passo, si noterà, si evince chiaramente l’intrinseco carattere giudizioso della comprensione, poiché, a differenza del pensare filosofico, avrebbe come suo oggetto qualcosa di specifico, che è nel mondo (nella «realtà»), dal quale il soggetto che vuole comprendere si ritrae per poi farvi ritorno («veniamo a patti e ci riconciliamo»). Sarebbe insita nella stessa parola, d’altronde, la relazione tra comprensione e giudizio: dal latino comprehendĕre, la parola “comprensione” designa l’atto mediante il quale si perviene alla formulazione di un concetto, come risultato di un procedimento che “prende” e “mette insieme” aspetti sensibili particolari di un determinato oggetto o di una molteplicità di oggetti.

Se la massima cristiana, dunque, può avere validità nell’ambito della moralità per chi attribuisce valore alle parole di Cristo (il quale, tuttavia, ambiva notoriamente a estendere i propri principi oltre i confini del privato, entro i quali, secondo Arendt, la moralità interiore dovrebbe invece restare confinata), la stessa massima sembrerebbe non poter valere allo stesso modo per l’ambito politico: le buone intenzioni della morale, infatti, non

318 Espressione contenuta nel romanzo ambientato in Italia, Corinne, ou l’Italie, del 1807; trad.

it. di a cura di A. E. SIGNORINI, Corinna o l’Italia, Mondadori, Milano 2006.

sono azioni politiche proprio perché non entrano nel mondo dell’apparenza e, di conseguenza, non assumono una forma esterna che le renda intelligibili da parte di altri soggetti umani, fisicamente presenti nel mondo, i quali proprio in virtù di questa presenza non possono che assumere il ruolo di spettatori e di “giudici” delle azioni altrui. Gli spettatori, a loro volta, occuperebbero posizioni anche molto diverse rispetto al luogo spaziale in cui si trova l’attore particolare: la pluralità delle opinioni, come si ricorderà dal capitolo precedente, presupporrebbe proprio il punto di vista, l’angolatura prospettica, informando così il quid proprium dello spazio politico. All’astensione dal giudizio tipica della moralità farebbe dunque da contraltare la necessità del giudizio, tipica della politicità: «il perdono», conclude così Arendt, «ha così poco a che fare con la comprensione che non ne rappresenta né la condizione né la conseguenza»320.

La comprensione dei fatti andrebbe distinta dunque dal perdono poiché tra i due termini non intercorrerebbe né un rapporto logico né un rapporto necessario: il perdono, che Arendt definisce «una delle più grandi capacità umane e probabilmente la più audace delle ambizioni umane in quanto si propone un compito apparentemente impossibile – disfare ciò che è stato fatto»321, sarebbe un’azione posta in essere dal singolo individuo che culminerebbe in un singolo atto definitivo, consistente appunto nella pretesa di condonare gli effetti sortiti da una data azione. La comprensione, invece, sarebbe un processo ininterrotto al quale non farebbero seguito risultati definitivi, o inappellabili: Arendt sostiene addirittura che la comprensione «rappresent[i] il modo specificamente umano di vivere, in quanto», nella sua opinione, «ogni individuo ha bisogno di riconciliarsi con un mondo in cui è arrivato, con la nascita, come straniero e in cui, in virtù della sua irriducibile unicità, rimarrà sempre uno straniero»322.

Come ha messo in evidenza Roberto Esposito, tra gli altri, la centralità della comprensione all’interno del pensiero di Arendt renderebbe manifesta l’inconciliabilità tra prassi e teoria (cfr. CAP. I, infra), che risiederebbe nella

già discussa rivendicazione di una validità non subordinata e di una logicità

320 Ibid. 321 Ibid. 322 Ivi, p. 108.

interna all’agire politico323. Marco Cangiotti, invece, sembrerebbe insistere maggiormente sul movimento ermeneutico mediante il quale il pensiero, come nelle parole di Arendt sopra citate, si riconcilierebbe con i fatti politici324: nella sua attitudine ad attribuire un significato mai pienamente definitivo ai fatti, la comprensione avrebbe molte caratteristiche in comune con il giudizio, così come l’indottrinamento – la forma degenerata della comprensione – ne avrebbe con i pregiudizi, condividendo con questi il ruolo di proteggere l’individuo dalla realtà e preparando il terreno, spesso, a ideologie di vario tipo (cfr. CAP. III, infra)325. «Molte persone benintenzionate», polemizza in questo senso Arendt,

vorrebbero interrompere [il processo della comprensione] per educare gli altri e alzare il livello dell’opinione pubblica. Secondo costoro i libri possono fungere da armi ed è possibile combattere con le parole. Ma le armi e la lotta rientrano nella sfera della violenza, e la violenza, a differenza del potere, è muta; la violenza comincia laddove il discorso finisce. Le parole usate per combattere perdono la loro qualità del discorso; diventano dei cliché. Ed è proprio il livello di penetrazione dei cliché nel nostro linguaggio e nei nostri dibattiti quotidiani a darci la misura non solo di quanto ci siamo privati della nostra facoltà di discorso, ma anche di quanto siamo disponibili a ricorrere a mezzi di violenza, che sono ben più efficaci dei cattivi libri (e solo i cattivi libri possono essere buone armi), per risolvere le nostre controversie. L’esito di tutti questi tentativi è l’indottrinamento326.

L’indottrinamento, dunque, sarebbe contraddistinto dalla cristallizzazione delle parole e del discorso nei luoghi comuni, dal fatto di trascendere la sfera relativamente stabile dei fatti e delle cifre e dalla formulazione di «asserzioni apodittiche, come se avessero la stessa affidabilità dei fatti e delle cifre»327.

323 Cfr. R. ESPOSITO, Categorie dell’impolitico, Il Mulino, Bologna 1999.

324 Cfr. M. CANGIOTTI, Il pensiero come comprensione. La teoria “ermeneutica” di Hannah

Arendt, in S. MALETTA, Il legame segreto. La libertà in Hannah Arendt, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 29 sgg.

325 Cfr. anche MATTUCCI, La politica esemplare, cit., pp. 138 sgg.

326 ARENDT, Comprensione e politica (le difficoltà del comprendere), cit., p. 108. Sulla

distinzione tra “violenza” e “potere”, cfr. EAD., Sulla violenza, cit.

Arendt opera poi una distinzione tra «comprensione preliminare» e «comprensione autentica»328; distinzione che sembrerebbe del tutto speculare a quelle, già prese in esame, tra giudizio e pregiudizio e tra giudizio determinante e giudizio riflettente.

La comprensione preliminare, invero, si accontenterebbe di assimilare ciò che è nuovo a ciò che è vecchio: pur configurando un’intuizione di significato, essa manifesterebbe in maniera non dissimile dal pregiudizio una tendenza acritica orientata alla sussunzione del “nuovo” sotto parametri e criteri familiari. Da ciò discenderebbe dunque non solo l’impossibilità di attribuire un significato appropriato all’evento nuovo al quale si assiste, ma anche l’incapacità di mobilitarsi nella direzione più adeguata.

«La comprensione autentica», al contrario:

ritorna sempre sui giudizi e i pregiudizi che hanno preceduto e guidato l’indagine strettamente scientifica. Le scienze possono solo illuminare, ma né dimostrare né confutare la comprensione preliminare acritica da cui prendono le mosse. Se lo scienziato, fuorviato dallo sforzo stesso della sua ricerca, comincia ad atteggiarsi a esperto di politica e a disprezzare la comprensione comune da cui egli ha pur preso le mosse, smarrirà immediatamente il filo d’Arianna del senso comune che solo può guidarlo con sicurezza attraverso il labirinto dei suoi stessi risultati. Se, d’altro canto, lo studioso aspira a trascendere la sua stessa conoscenza – e non vi è altro modo per rendere la conoscenza significativa se non trascenderla – deve tornare a farsi molto umile e prestare orecchio al linguaggio comune […]329.

328 Ivi, p. 111.

329 Ivi, p. 112. Cfr. anche p. 114: «Come ebbe a notare una volta Nietzsche, rientrerebbe

nell’ambito dello “sviluppo della scienza dissolvere il ‘noto’ nell’ignoto: ma la scienza vuole fare l’opposto ed è ispirata dall’istinto di ridurre l’ignoto a qualcosa di noto” (La volontà di potenza, n. 608)». E p. 115: « Il paradosso della situazione moderna sembra essere questo: che il nostro bisogno di trascendere sia la comprensione preliminare, sia l’approccio strettamente scientifico deriva dalla perdita dei nostri strumenti di comprensione. La nostra ricerca di significato è al contempo stimolata e frustrata dalla nostra incapacità di generare significato. La definizione kantiana dell’ottusità è tutt’altro che fuori luogo, qui. Sin dall’inizio del secolo la crescente assenza di significato è andata di pari passo con una perdita del senso comune che, per molti aspetti, ha assunto i connotati di una crescente ottusità. Per quanto ne sappiamo, in nessuna civiltà precedente le persone sono arrivate a un tale livello di credulità da formare le proprie abitudini di acquirenti in sintonia con la massima che “l’autoincensamento è la raccomandazione migliore”, il presupposto di ogni pubblicità. Ed è altrettanto improbabile che un’epoca precedente avrebbe mai potuto farsi convincere a prendere sul serio una terapia che sostiene di poter aiutare i propri

Il ritornare sui giudizi e sui pregiudizi precedenti, caratteristico della comprensione che Arendt definisce «autentica», metterebbe ancora una volta in evidenza il nesso tra comprensione e giudizio, poiché entrambi potrebbero essere descritti – preliminarmente – come la sussunzione di un particolare sotto una regola universale – che secondo il Kant della Critica della ragione pura costituirebbe «la definizione stessa del giudizio, la cui assenza egli ha mirabilmente definito come “stupidità”, un “difetto per cui non c’è rimedio”330» –, sebbene tale sussunzione (tipica del giudizio determinante) possa apparire di difficile praticabilità in quei momenti della storia in cui il darsi di eventi nuovi e inattesi scombina «i parametri con cui misurare e le regole sotto cui sussumere il particolare»331: in tutti quei momenti, dunque, Arendt suggerisce che la facoltà della comprensione umana non possa che assumere le sembianze di un giudizio riflettente, poiché «un essere la cui essenza è l’inizio può avere abbastanza originalità dentro di sé per comprendere senza categorie preconcette e giudicare senza l’ausilio di quelle regole consuetudinarie in cui consiste la moralità»332.

pazienti solo se essi sborsano una gran quantità di denaro a coloro che la somministrano – a meno che, ovviamente, non esista una società primitiva in cui il passaggio di denaro possieda di per sé qualche potere magico. […] In questa situazione, l’ottusità, nel senso kantiano del termine, è diventata il difetto di tutti e non può pertanto essere più considerata “senza rimedio”. L’ottusità è diventata comune come un tempo lo era il senso comune; e ciò non significa che essa sia il sintomo di una società di massa o che le persone “intelligenti” ne vadano esenti. La sola differenza è che l’ottusità rimane beatamente tacita tra i non intellettuali e diviene insopportabilmente offensiva tra le persone “intelligenti”. Nel caso dell’intellighenzia, si può persino dire che quanto più un individuo è intelligente, tanto più irritante è l’ottusità che lo accomuna a tutti gli altri».

330 Ivi, p. 114. Cfr. anche KANT, Critica della ragione pura, cit., p. 214: «[l]a mancanza di

capacità di giudizio è propriamente ciò che si chiama stupidità, e contro tale difetto non c’è assolutamente rimedio. Un cervello ottuso o limitato, cui non manchi nulla se non una misura conveniente di intelletto e una precisione nei concetti dell’intelletto, può certo agguerrirsi con lo studio, sino a raggiungere anche l’erudizione. Tuttavia, poiché in tal caso manca di solito altresì il giudizio (secunda Petri), si incontrano non di rado uomini assai eruditi, che nell’uso della loro scienza lasciano spesso scorgere quel difetto giammai emendabile».

331ARENDT, Comprensione e politica (le difficoltà del comprendere), cit., p. 115. 332 Ivi, p. 125.