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L’infra tra gli uomini: lo spazio pubblico

L’azione, che, come si è visto, sarebbe intrecciata al fatto della nascita, riscatterebbe «l’essere umano dalla mancanza di significato della mera vita biologica» e sarebbe, dunque, «costitutivamente legata alla pluralità»93, al fatto, cioè, che gli esseri umani, diversi e unici, avrebbero la possibilità di incontrarsi in uno spazio di visibilità in cui apparire gli uni agli altri. Questo sarebbe dunque, come rileva Forti, il punto di partenza – elementare e fondamentale – della trattazione arendtiana dello spazio pubblico (espressione da lei usata in modo interscambiabile con “mondo”, “spazio dell’apparenza” o “spazio politico”).

90 Ivi, p. 128. 91 Ibid.

92 H. ARENDT, What is Freedom?, in Between Past and Future, cit.; trad. it., Che cos’è la

libertà?, in Tra passato e futuro, cit., p. 220.

Da un punto di vista ontologico, l’espressione non avrebbe a che fare necessariamente con una determinata collocazione fisica, né con un principio di territorialità; lo spazio pubblico denoterebbe, semmai, la condizione di possibilità dell’essere-insieme, il trascendentale della politica, come può evincersi chiaramente dal passo seguente:

lo spazio dell’apparenza si forma ovunque gli uomini condividano la modalità dell’azione e del discorso, e quindi anticipa e prevede ogni costituzione formale della sfera pubblica e delle varie forme di governo, le varie forme cioè in cui la sfera pubblica può essere organizzata94.

O come può evincersi, per altro verso, anche in quel passo del rapporto sul processo a Eichmann, in cui Arendt fa invece riferimento a uno spazio politico ben determinato, quale quello di Israele:

Israele avrebbe potuto arrogarsi la giurisdizione territoriale senza difficoltà, sol che avesse spiegato che il “territorio”, come lo intende la legge, è un concetto politico e giuridico, e non semplicemente geografico. Quel termine non si riferisce tanto a un pezzo di terra quanto allo spazio che c’è tra gli individui che formano un gruppo, cioè individui legati uno all’altro (ma al tempo stesso separati e protetti) da molte cose che hanno in comune: lingua, religione, storia, usanze, leggi. Proprio queste cose in comune sono lo spazio in cui i vari membri del gruppo hanno rapporti e contatti tra di loro95.

Le «cose in comune», dunque, le quali costituirebbero a loro volta il mondo (cfr. § 1, infra), metterebbero in relazione gli uomini tra loro, ma al contempo li separerebbero, poiché per Arendt l’elemento caratteristico dello spazio pubblico non sarebbe già il calore della prossimità fisica, tipica dello spazio privato (o tipica dei ghetti dei «paria», o degli «umiliati» e «offesi»96), bensì la luce dell’equidistanza, della visibilità e della

94ARENDT, Vita activa, cit., p. 146.

95 H. ARENDT, Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, The Viking Press,

New York 1963; trad. it. di P. BERNARDINI, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964, p. 269.

96ARENDT, L’umanità in tempi bui, cit., pp. 218 sgg. Cfr. anche p. 221: «È vero però che in

tempi bui il calore, che presso i paria è sostituto della luce, esercita un grande fascino su tutti coloro che si vergognano del mondo così come è al punto di voler rifugiarsi nell’invisibilità. E

trasparenza degli atti e delle parole, proprio come per Kant lo spazio pubblico è la “condizione di possibilità del vedere”.

Arendt esprime bene questa delimitazione spaziale ricorrendo alla metafora evocativa dello stare riuniti intorno a un tavolo:

vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo, come ogni in-fra [in-between], mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo. Le sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda97.

Il tratto peculiare di questo spazio sarebbe dunque quello di unire e, al contempo, di separare, non solo nel senso di mantenere distanze tra gli individui, ma anche nel senso di differenziare: articolare la pluralità umana in relazioni che non siano né verticali, né gerarchiche, ma nemmeno di tipo “fusionale”, perché in questo caso i molti si ricompatterebbero nell’Uno della folla (come avverrebbe, secondo lei, nelle odierne società di massa – cfr. CAP. III, § 2.1 infra – o come sarebbe avvenuto nel totalitarismo, in cui il mondo aveva perso il suo potere di mettere in relazione e di separare). La condizione di possibilità della “pubblicità” e della “politica”, secondo Arendt, risiederebbe proprio nell’intervallo tra i singoli, che manterrebbe in vita la pluralità costitutiva del genere umano, impedendo che, nel «cader[si] addosso a vicenda», gli uomini evolvano in una massa amorfa.

nell’invisibilità, in quell’oscurità in cui, essendo nascosti, non si ha nemmeno più bisogno di vedere il mondo visibile, solo il calore e la fraternità degli uomini stipati gli uni contro gli altri possono compensare la misteriosa irrealtà che contraddistingue le relazioni umane ogni volta che esse si sviluppano nell’acosmia assoluta e senza essere collegate a un mondo comune a tutti. È facile, in un tale stato di assenza di mondo e di irrealtà, concludere che l’elemento comune a tutti gli uomini non è il mondo ma la “natura umana” di questo o quel tipo, a seconda dell’interprete. Poco importa che si metta l’accento sulla ragione, identica per tutti gli uomini, o su un sentimento riscontrabile in tutti come la capacità di compatire. Il razionalismo e il sentimentalismo del XVIII secolo sono solo due aspetti di una stessa situazione; entrambi possono condurre in egual misura all’entusiastico eccesso in cui gli individui si sentono legati da vincoli di fraternità con tutti gli uomini. Razionalità e sentimentalismo non furono peraltro che sostituti psicologici, localizzati nell’invisibile, del mondo comune visibile, allora perduto».

Molte delle questioni qui sollevate troveranno più ampia articolazione nel corso di questo lavoro. Ai fini del presente argomento, invece, può essere utile accennare che da queste assunzioni sulla natura dello spazio pubblico, si dipana la riarticolazione arendtiana del concetto di eguaglianza. Nel pensiero di Arendt questo concetto non intrattiene legami, com’è forse facile intuire, con un’eguaglianza di tipo naturale, né di tipo socioeconomico; indicherebbe semmai l’identica possibilità, in capo a ciascun individuo, di prender parte alla vita del mondo comune.

Per riformulare questo concetto, Arendt si avvale notoriamente dell’isonomia greca e dell’æquitas repubblicana, entrambe le quali esporrebbero un significato maggiormente politico rispetto all’ideale liberale di eguaglianza così come sarebbe venuto a formarsi in epoca moderna, in accezione universale, secondo il quale tutti gli uomini sarebbero naturalmente eguali (l’umanità sarebbe qui pensata come un singolare collettivo). L’ideale greco e l’ideale repubblicano di eguaglianza, invero, non postulerebbe un dato di fatto, bensì un “progetto” inerente la costruzione di uno spazio politico in cui fondare l’eguaglianza e non già riconoscerla98. Un’eguaglianza così intesa, dunque, non sarebbe qualcosa che l’individuo possiede indipendentemente dagli altri, ma emergerebbe, ancora una volta, solo nella relazione con gli altri: «una formalizzazione di relazioni reciproche e simmetriche che, anziché azzerare, lascia sussistere la singolarità di ognuno. Un’uguaglianza, dunque, che è inseparabile dalla differenza»99.

98ARENDT, Che cos’è la politica?, cit., p. 35.