• Non ci sono risultati.

Giudizio determinante/giudizio riflettente

Il giudizio degli attor

2. Giudizio determinante/giudizio riflettente

La Kritik der Urteilskraft del 1790 contiene la formulazione kantiana più estesa e compiuta del “giudizio”, sebbene rimandi a questo concetto siano reperibili sia negli scritti precedenti, sia in alcuni scritti successivi. Nell’introduzione al secondo libro della Critica della ragione pura, ad esempio, intitolata “Della capacità trascendentale di giudizio, in generale”, dopo aver definito l’intelletto come «la facoltà delle regole»242, Kant definisce il giudizio come «la facoltà di sussumere sotto regole, cioè di distinguere se qualcosa cada o no sotto una data regola (casus datæ legis)»243, che è cosa ben distinta dalla logica, la quale «non contiene affatto norme per la capacità di giudizio, e neppure può contenerne». Difatti, prosegue,

241ARENDT, La crisi della cultura, cit., p. 285 e s.

242I. KANT, Kritik der reinen Vernunft (1781), trad. it. a cura di G. COLLI, Critica della ragione

pura, Adelphi, Milano 1976, p. 214.

in quanto essa astrae da ogni contenuto della conoscenza, non le rimane null’altro da fare, che dilucidare analiticamente la semplice forma della conoscenza nei concetti, giudizi, inferenze, e costituire così le regole formali di ogni uso dell’intelletto244.

Come invece si legge nel § 4 della Critica del Giudizio, dal titolo “Del giudizio, come facoltà legislativa a priori”,

[i]l Giudizio […] è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale. Se è dato l’universale (la regola, il principio, la legge), il Giudizio che opera la sussunzione del particolare (anche se esso, in quanto Giudizio trascendentale, fornisce a priori le condizioni secondo le quali soltanto può avvenire la sussunzione a quell’universale), è determinante. Se è dato invece soltanto il particolare, e il Giudizio deve trovare l’universale, esso è semplicemente riflettente245.

Il giudizio determinante, dunque, consiste nel sussumere il particolare sotto l’universale: anche Arendt, in merito, scrive che questo tipo di giudizio indica «la sussunzione ordinatrice del singolo e del particolare sotto un’entità generale e universale, la valutazione normalizzatrice secondo criteri in base ai quali il concreto deve legittimarsi e in base ai quali se ne decide»246.

Il fascino che questo tipo di giudizio ha esercitato per lungo tempo, e che continua a esercitare non solo nelle scienze naturali, ma in molte altre discipline, tra cui anche nella filosofia politica, poggerebbe, secondo Alessandro Ferrara, nella sua apparente «oggettività, affidabilità e trasmissibilità»247. L’oggettività dell’universale, cioè il suo essere valido

244 Ibid.

245 I. KANT, Kritik der Urteilskraft, 1790; trad. it. di A. GARGIULO, Critica del Giudizio,

Laterza, Roma-Bari 1997, p. 27. Cfr., per un’interessante lettura critica, H. E. ALLISON, Kant’s Theory of Taste: A Reading of the Critique of Aesthetic Judgment, Cambridge University Press, Cambridge 2001 e B. TILGHMAN, Reflections on Aesthetic Judgment and Other Essays, Ashgate, Burlington 2006. Per un inquadramento maggiormente arendtiano, cfr. invece M. P. LARA, Narrating Evil: Toward a Post-Metaphysical Theory of Reflective Judgment, Columbia University Press, New York 2007.

246ARENDT, Che cos’è la politica?, cit., p. 14. 247FERRARA, La forza dell’esempio, cit., pp. 38 sgg.

indipendentemente dalle prospettive personali, culture, tradizioni, epoche storiche ecc., sarebbe qualcosa che si impone ai soggetti, esigendo il loro riconoscimento, con cogenza ineludibile. La sua affidabilità, invece, risiederebbe nel fatto che chiunque giungerebbe alle medesime conclusioni se fornito delle medesime informazioni di partenza o se il suo ragionamento non fosse distorto da passioni o interessi particolari (come si è visto anche in Aristotele). La sua trasmissibilità, infine, riguarderebbe il fatto che sarebbe possibile collegare questa forma di giudizio a un insieme di regole o principi che potrebbero poi essere enunciati e insegnati antecedentemente e indipendentemente da qualsiasi loro applicazione.

Il giudizio determinante kantiano così delineato avrebbe conservato il suo fascino inalterato fino a che la svolta linguistica del XX secolo non ne

avrebbe denunciato il vizio interno, rimasto fino a quel momento invisibile: ossia, la dipendenza della soggettività, della percezione e dei significati da quadri di riferimento più ampi, i quali avrebbero la doppia caratteristica di essere situati e di manifestarsi sempre al plurale. Di conseguenza, nessun particolare, secondo le teorie sviluppatesi a partire dalla svolta linguistica (si pensi ai cultural studies, ai femminismi della seconda e della terza ondata, al post-femminismo, alle teorie queer, al decostruzionismo, al post- strutturalismo, agli studi postcoloniali ecc.), potrebbe essere sussunto sotto un universale, senza che tale operazione non risulti anche violenta, o arbitraria, per il soggetto più debole sotto un profilo linguistico, culturale, di genere, di estrazione sociale ecc. Ciò avverrebbe perché questo tipo di giudizio, come pone ancora in rilievo Arendt, conterrebbe

sempre un pregiudizio: a essere giudicato è soltanto il particolare, ma non il criterio in sé, né il suo essere commisurato a ciò che deve misurare. Anche il criterio è stato a suo tempo deciso con un giudizio, ma adesso quel giudizio è stato adottato ed è divenuto, per così dire, un mezzo per poter continuare a giudicare248.

Kant, in qualche modo, aveva precorso i tempi nel formulare un secondo tipo di giudizio, ossia il giudizio riflettente. In questo genere di giudizio il movimento sarebbe esattamente inverso rispetto al giudizio determinante:

qui sarebbe dato solo il particolare, e spetterebbe alla facoltà trascendentale del giudizio trovare l’universale. Anche in questo processo, come scrive Kant, avremmo bisogno di un principio guida per risalire da ciò che è particolare alla natura dell’universale, ma questo principio sembrerebbe non poter derivare né dall’esperienza né da alcun altro elemento – «tra cui anche l’analisi concettuale»249 – giacchè in tutti questi casi il giudizio continuerebbe a essere di tipo determinante. Il giudizio riflettente si porrebbe dunque quale modello per pensare la validità in tutti quei casi in cui o la natura della domanda sollevata, o la pluralità culturale di modi di porla, o la contingenza storico-politica, o innumerevoli altre circostanze ci pongano nella condizione di non avere un “universale” a disposizione quale metro di giudizio per fornire risposte o per valutare le risposte disponibili. La differenza principale tra il giudizio determinante e il giudizio riflettente, dunque, risiederebbe nel fatto che il secondo offrirebbe una maniera più ampia per ripensare l’universale, entro la quale anche i giudizi meramente riflettenti potrebbero legittimamente ambire a essere validi universalmente, al di là del loro contesto di origine.

In merito al giudizio riflettente, nel 1950, Arendt scriveva:

giudicare può […] riferirsi anche a qualcosa di completamente diverso, ogniqualvolta veniamo confrontati con qualcosa che non abbiamo mai visto e per cui non abbiamo a disposizione alcun criterio. Questo giudizio, che è privo di criteri, non ha altro riferimento che l’evidenza del giudicato e non ha altri presupposti che l’umana facoltà di giudizio, la quale ha molto più a che fare con la facoltà di discernere che con la facoltà di ordinare e sussumere. Questo giudizio privo di criteri ci è ben noto sotto forma di giudizio estetico o di gusto, sul quale, come ebbe a dire Kant, non possiamo disputare ma certo litigare e trovare un accordo; e lo ritroviamo nella vita comune […]250.

Sarebbero, dunque, almeno due gli elementi decisivi che, nell’analisi di Arendt, esemplificherebbero il passaggio dal giudizio riflettente estetico al giudizio politico, nel quadro più ampio di quella che lei definisce “critica della ragion politica”: il pensare largo e il sensus communis.

249FERRARA, La forza dell’esempio, cit., p. 39. 250ARENDT, Che cos’è la politica?, cit., p. 15.