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Era comu ‘u iuocu fuocu !

Un punto di vista importante è quello dei testimoni che all’epoca dei fatti erano ancora bambini. La storiografia, in passato non si è molto interessata al loro punto di vista, ritenendoli testimoni ingenui e forse poco affidabili proprio per l’età in cui hanno vissuto e visto compiersi determinati eventi eppure del loro sguardo rimangono tracce divenute incancellabili. Basti pensare ai diari di Anne Frank o ai disegni dei bambini ebrei rinchiusi nel campo-ghetto di Terezin in Cecoslovacchia. Pensare però che l’evento che avrebbe stravolto l’assetto del conflitto fosse pienamente percepito nella sua portata storica da chi lo stava vivendo è un errore di valutazione43.

I ragazzi, e specialmente i bambini, non avevano l’esatta percezione della straordinarietà del momento storico legato agli eventi del conflitto. Molti degli intervistati erano all’epoca dei fatti poco più che bambini. Il concetto di infanzia però non era percepito come oggi lo intendiamo noi. La tutela dell’infanzia era solo agli albori, ricordiamo infatti che oltre all’Opera nazionale maternità e infanzia (conosciuta anche con l'acronimo ONMI), ente assistenziale italiano fondato nel 1925 allo scopo di proteggere e tutelare madri e bambini in difficoltà non vi era molto altro e comunque l’ente non funzionava su scala nazionale. In più si tenga presente che il sistema educativo negli iblei prevedeva, per i più giovani, che fossero mandati già in

43

http://www.treccani.it/enciclopedia/la-memoria-dei-bombardamenti- nelle-regioni-del-nord-italia_%28L%27Italia-e-le-sue-Regioni%29/

Clifford Grayling A., Among the Dead Cities. The History and Moral Legacy of

the WWII Bombing of Civilians in Germany and Japan, New York, Walker &

Company, 2006.

Gribaudi Gabriella, “Pare adesso…. Quando mi viene in mente pare proprio adesso…”. Bombardamenti a stupri di massa: la memoria del trauma fra narrazioni pubbliche e ricordi individuali in Atti del convegno internazionale – Trieste 9-10 maggio 2013: Storia e memoria. Raccontarsi e raccontare il passato, Pacini editore, Trieste 2014.

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tenera età presso un maestro per un precoce apprendistato, o adduvati in campagna come iarzuana dove prestavano il loro lavoro in cambio di un pasto44.

D’altra parte il concetto di “sfruttamento del lavoro minorile” non era ancora conosciuto a questo si aggiunga la propaganda fascista che rafforzava l’idea di Mussolini il quale pretendeva che i bambini crescessero con la determinazione ad essere forti e coraggiosi45. Creare “l'italiano nuovo” fu uno delle

prime aspirazioni del Duce: già nel 1919 Filippo Tommaso

Marinetti, aveva proposto l’istituzione di “scuole di coraggio fisico e patriottismo”, Mussolini accolse l’idea e una legge del 3 aprile 1926 sancì la nascita dell'Opera Nazionale Balilla (ONB), complementare all'istituzione scolastica, vi avrebbero fatto parte i giovani dagli 8 ai 18 anni, ripartiti in due sotto-istituzioni: i balilla e gli avanguardisti. A tal proposito non si dimentichino le Colonie: durante il Ventennio la Federazione fascista, in collaborazione con l’Opera Nazionale Balilla e i Fasci femminili, gestiva anche le vacanze estive dei bambini presso le colonie. L’educazione dei giovani italiani dunque è stata uno dei pilastri del regime totalitario di Mussolini; con le esercitazioni ginniche e le grandi coreografie di massa. Tutti i testimoni ricordano di essere stati Balilla, Piccole Italiane, Figli della Lupa qualcuno ricorda ancora lo slogan “libro e moschetto fascista perfetto” e la parola d’ordine per tutti diventò “credere, obbedire, combattere”.

INTERVISTE

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Si leggano a tal proposito le pagine di V.Rabito, Terramatta, Giulio Einaudi Editore, 2007.

S.A.Guastella, Le Parità e le storie morali dei nostri villani, Rizzoli, 1976

45

http://www.raistoria.rai.it/articoli/giovinezza-il-fascismo-e-i- giovani/25223/default.aspx

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«La guerra era per me un fatto normale. Sono nato in tempo di pace, ma cresciuto in un momento storico in cui la guerra era la normalità della vita. Sentivo raccontare storie di ragazzi partiti e mai tornati e sentivo anche la disperazione delle famiglie ma non ci facevo caso più di tanto. Si andava avanti così, poi ci fu lo sbarco. È il momento che mi ricordo con maggiore nitidezza. Si vedevano i bagliori nel cielo e si sentivano arrivare gli aerei. Noi bambini in mezzo a tutto questo gironzolavamo incoscienti. Ricordo gli aerei. Li vedevo volare dalla finestra della mia casa e anche quando ero nel rifugio. Li ho visti anche cadere. Di fronte casa mia c’erano i campi seminati, e uno di questi era già pieno di fascine. Forse però dall’alto sembravano rifugi e così gli aerei presero a mitragliare. Un vero scempio. C’erano soldati e pattuglie dappertutto sia tedesche sia italiane qui a Monserrato (si tratta di una delle colline che cingono Modica). I tedeschi ci ospitavano volentieri a me e mio fratello perché eravamo biondi e noi li sentivamo comunicare via radio. Quando c’era la comunicazione ci allontanavano, ma noi riuscivamo a sentire perché eravamo curiosi. In fondo alla valle c’era un campo di ulivi e laggiù erano accampati i soldati con i camion e coi cavalli, ricordo che era pieno di fucili».

Gino Cannata, Modica, 1935. Cfr intervista video nel sito

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«Quando c’era l’allarme dalle scuole ci facevano uscire, io ero alla Scrofani, al corso Garibaldi, e lì vicino c’è una grotta larghissima e ci infilavamo lì. Tutti i muri esterni della grotta erano protetti da sacchi di sabbia. Non sentivamo la preoccupazione perché eravamo ragazzi. C’era la raccolta del ferro e portavamo tutto quello che potevamo trovare perché il

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preside e i professori ce lo chiedevano. L’abbiamo vissuta con l’incubo delle incursioni aeree, questo sì, ma non più di tanto.

Noi abitavamo al Mauto. Vicino casa nostra c’era una polveriera piena di polvere e mine anticarro, quando ci fu lo sbandamento dell’esercito scapparono tutti e per strada si trovava di tutto: carri armati, mitragliatrici, fucili, mine. Noi ragazzi andavamo alla polveriera e ne combinavamo di tutti i colori. Eravamo incoscienti. A un certo momento il proprietario del terreno e dello stabile smantellò la polveriera e c’era della paglia. Bruciò la paglia per far pulizia ma in mezzo c’era una mina e lui venne catapultato a metri e metri di distanza. Morì. Questo fatto mi è rimasto impresso.

Durante la guerra non abbiamo avuto preoccupazioni c’era solo l’ammasso del grano e ci costringevano a nasconderlo per poterlo macinare con un mulino rudimentale fatto da noi. Quando ci fu lo sbarco il maro scomparve del tutto. Da casa nostra si vedeva il mare ma in quella notte era tutto illuminato perché era come una festa.

Un giorno cadde un aereo al Mauto e cadde sopra un muraglio di pietre raccolte dai contadini che liberavano i campi dalle pietre. A bordo dell’aereo c’erano 22 persone se ne salvò solo uno. Gli altri vennero tutti carbonizzati. Davanti agli occhi ho questa fotografia.

Giovanni Licitra Modica 1930 Cfr intervista video nel sito

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«Quando arrivarono gli americani io ero a casa con la mamma. Ero bambino e mia madre mi mandò a vedere. Lei era sola a casa e aveva paura. Io uscii di casa e mi diressi verso uno di loro che mi fece capire di avere sete. Rientrai a casa con la sua borraccia e ci misi l’acqua. Gliela portai e gliela diedi ma lui volle che la bevessi. Non capivo perché. Poi dopo aver bevuto

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un sorso me la tolse di mano e si attaccò al beccuccio e la bevve d’un fiato. Dopo mi fece capire che aveva fame. Tornai in casa e mia madre mi disse: fai finta can ‘un capisci, manciari nun aviemu mancu pi niautri”. Io tornai fuori e lui mi faceva segno di mangiare e io pur avendo capito perfettamente facevo finta di niente. Poi ho capito benissimo che mi faceva segno di voler un uovo, che lo avrebbe rotto e lo avrebbe bevuto. E io continuavo a far finta di non capire. Alla fine il soldato si accovacciò, prese a fare una smorfia con la faccia e poi fece la faccia soddisfatta, e cominciò a fare il verso della gallina e intanto svolazzava davanti la porta della mia casa. Mia madre alla fine mi chiamò mi diede un uovo e glielo diedi. Li ho visti passare davanti casa mia. Alcuni mi facevano paura erano grandi e neri».

Orazio Fargione, Modica, 1927. «Noi eravamo a villeggiare in campagna fuori Modica della zona del Pozzo Cassero, in una villetta a due piani e dal piano di sopra si vedeva il mare. Stavamo dormendo quando fummo svegliati dalle urla della moglie dell’avvocato Rizzone Viola col suo beauty case in mano pieno di gioielli, da dietro il cancello: ma non lo vedete il mare? Non lo vedete cosa sta succedendo? Ci alzammo e il mare era u iuocu fuocu. Razzi, bombe, fuoco, aerei. Il mare non si vedeva era nero. Per noi ragazzi che non percepivamo il pericolo era uno spettacolo».

Luigia Aprile, Caltanissetta, 1931. Cfr intervista video nel sito

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«Ricordo che nel ’41 gli americani bombardavano Malta e siccome da qui si vede Malta la sera ci prendevamo le sedie e ci godevamo lo spettacolo. I nostri bombardieri avevano le bombe illuminanti ma la contraerea inglese avevano le mitragliatrici traccianti. Era comu ‘u iuocu fuocu! (un gioco pirotecnico). Uno spettacolo vero e proprio! Durò per un paio

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d’anni fino a quando le cose non cambiarono e gli americani e gli inglesi arrivarono fino a qui»

Pietro Lorefice, Ispica, 1929. Cfr intervista video nel sito

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Dall’altro capo della provincia iblea anche un’altra voce conferma il sentore che ciò che si stava vivendo era la semplice quotidianità così come si proponeva:

«Quando scoppiò la guerra ero in terza media. I ricordi sono tanti, a volte anche discordanti ma sono i ricordi di una ragazzina, turbata da questo avvenimento, certamente, perché la guerra non era una cosa da nulla né ci trovava preparati. Era una cosa grande, spaventosa ma noi l’accettammo con l’incoscienza dei ragazzi. Ho ereditato da mia nonna l’amore per il mare. Noi avevamo una casa in riva al mare e quando ancora non avevano sperimentato la balneazione noi facevamo il bagno. La casa era così vicina al mare che quando era infuriato arrivavano gli spruzzi dentro casa. Infatti gli americani praticamente ci sbarcarono in casa nostra e con il fondo di alcune casse poi papà si fece costruire una libreria nella quale si legge ancora U.S Navy. Ero una ragazzina e di certo sentivo la paura ma mia madre era una donna forte, e coraggiosa, ci infondeva il coraggio sì ma noi dalla nostra avevamo l’incoscienza dell’età. Allora non era possibile permettersi il lusso della paura. Tutti dovevamo recitare la parte delle persone forti. Quando c’era la contraerei che bombardava le schegge arrivavano fino in casa. In casa sua un giovane che abitava vicino da noi mentre era a letto una scheggia lo colpì e gli tagliò il tallone. Non era uno scherzo e nessuno di noi prendeva la vita alla leggera. Mia madre ci insegnò a non abbandonarci alla paura».

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Cfr intervista video nel sito

WWW.memorieoralidegliiblei.it1927.

«Ero un bambino di 5 anni, mio padre combatteva al fronte, arruolato nel reggimento dei mitraglieri con il grado di tenente. Mia madre, come tutte le donne i cui propri uomini erano in guerra, accudiva noi figli, Nino, Maria Luisa ed io nato dopo Nino, nella casa di Piazza Libertà. Ogni tanto arrivavano notizie di papà per la felicità di mamma e dei parenti. Per tutti i bambini era come un gioco, quando seppi che stavano atterrando i paracadutisti riuscii, per un momento, ad uscire fuori dalla bocca della grotta dove mio padre ci aveva ordinato di rifugiarci e lo sguardo si posò verso il cielo: uno spettacolo che per me era una meraviglia, il cielo imbiancato da centinaia di paracadute che scendevano verso terra, che dico centinaia, migliaia di qua, di là, ovunque io guardassi. Qualcuno cadde a poche centinaia di metri dalla grotta. Era notte fonda e lo spavento fu dei “grandi”. Per i bambini non fu così. Mi ricordo anche la notte in cui tra uno scappellotto e un rimprovero, volli vedere la battaglia nel cielo tra un caccia americano e un caccia tedesco con la caduta a picco di un aereo, proprio nel mezzo della mia campagna. Quella stessa campagna divenne poi meta preziosa di tanti ragazzi alla ricerca di cuscinetti e aggeggi meccanici smontati dall’aereo abbattuto. Andammo tutti in campagna, e per alcune settimane siamo stati al riparo in una grotta sotto una roccia. Qui erano tante le famiglie rifugiate: parenti, mezzadri, e le famiglie Di Modica e Spada. Poi quando si seppe che ormai gli americani erano entrati in paese si tornò ad Acate perché le campagne non offrivano sicurezza più di tanto. »

Gaetano Masaracchio, Acate, 1937. Cfr intervista video nel sito

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«Mio padre capì subito che stavano per entrare a Modica; ha capito che entravano gli americani che sparavano dall’Itria. Non fecero molti danni ma le bombe facevano paura. Era tempo di fame. Durante il bombardamento andavamo nelle grotte. Ma a Modica Alta la gente che non aveva grotte vicine si rifugiava a Santa Teresa in un rifugio. Si ci trasia rê scali. Era una trappola per uomini. Se si scendeva e scoppiava una bomba si moriva tutti insieme ma la gente aveva paura. Anche al Monumento e a San Francesco c’erano i rifugi ed erano anche quelli trappole per uomini. Io lo so bene perché ci ho lavorato».

Rosario Agosta, Modica, 1929. Cfr intervista video nel sito

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«Iu avia 7 anni e m’arriuordu c’abbiarru ‘i bummi in piazza e carierru tutti ‘i barcuna e ma matri mi vinni a pigghiau e mi luvau râ scola. Ni nni jiemmu ntâ ‘na rutta a San Bartulumiu. Ni cunzammu ‘u liettu dda. Stesumu 8 iorna dda tutti anziemi. Uommini picciriddi e tutti. I mammi si scantaunu pirchì c’erunu uommini e i figghiuli fimmini erunu scantati. Nun c’era nenti. Ma patri era surdatu. Ma matri quannu n’aviumu a curcari ni tinia chê manu a tutti. E ‘n chianu c’erunu l’americani c’abbiaunu bummi e paracaduti. Chidda ca era sperta niscia e s’i ia a pigghiava ‘i linzola re paracaduti. Si facieunu i vistita e i linzola. A puntu ca sbarcarru l’americani ciuriemmu a porta ra criesia e se c’era a bisuognu unu niscia e ia pi tutti. Niautri picciriddi n’addivirtiumu ma ‘u sintieumu ca c’era piriculu. A mamà ciancia. Dopo 8 giorni ni nni iemmu pe casi nuostri. Ma patri era in Inghilterra. Nun c’era nenti ri manciari, sulu cozzi ri patati. Curcati ‘n chianu senza riparu». (io mi ricordo che avevo 7 anni, hanno buttato le bombe e sono cadute in piazza e io ero a scuola e mia madre venne a prendermi. Andammo in una grotta a San Bartolomeo. Facemmo un letto di fortuna la. Uomini e

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bambini tutti insieme. Le mamme si spaventavano perché insieme c’erano tutti, uomini, donne, bambini. Mio padre era militare e mia madre quando dovevamo coricarci ci teneva tutti per mano e fuori dalla grotta c’erano gli americani che buttavano le bombe. Qualcuno che era più coraggioso usciva fuori e andava a prendere i paracadute e si faceva le lenzuola. Quando sbarcarono gli americani chiudemmo la porta della chiesa e quando qualcuno aveva bisogno usciva e dava aiuto a tutti gli altri. Noi bambini ci divertivamo ma lo capivamo che era pericoloso. La mamma piangeva. Dopo otto giorni tornammo a casa. Non avevamo niente da mangiare solo bucce di patate e ci coricavamo fuori senza riparo).

Carmela Fidone , Scicli, 1936 Cfr intervista video nel sito

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«Niautri erumu o scogghiri e gh-erumu vicinu a Gela. Mo patri si nni ia o metri finu a Montelepre e a Corleone e ni purtava cu r’iddu. Quannu erumu a parti ri campagna si viria passari Salvatore Giuliano. Era co cavaddu e tutti riciunu chiddu è Turiddu. Iu u vitti. Iddu facia cosi buoni picchì aiutava a chiddi comu a nui. Nui purtaumu a farina nte carretta pi manciari ma ar- iddu u firmaunu pa farina a nui no. E nun era ghiustu sulu picchì iddu auituava e puvirieddi. E c’era macari so frati ca sa famigghia. Avieumu finutu ri scogghiri e mo ziu ci rissi a sa mugghieri cu sa figghia: ma fai a pasta? Sa mugghieri si misi supra u carrettu a –mpastari e nieutri erumu cu r’iddi. Tutt’a cuorpu vittumu l’aerei e si sparaunu allurra manietti n’arrifuggiammu. Tutti n’abbrazzammu. Quannu finiu ni ciamammu ma ma zia e sa figghia aviunu murutu mo patri era ferito. Allura mo ziu si pigghiau a ma patri e so purtau pi fallu curari e arristammu tutti i fimmini suli. Erumu a Vittoria e c’eruni quattru bastardi ri Gela: bi a ora faciemu festa! Ma matri

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ci sciu u cori avia ammia e a ma suoru. Vitti na porta aperta e ci rissi mi rati aiutu? E accussi ficimu. Puoi cu sta famigghia ni nni iemmu a Scugghitti. Puoi mo ziu e iu a circau ma nun le potti truvari. L’aerei nun l’aviunu cu niautri era ca nui erumu vicinu a –n puntu truoppu tintu e fuommu colpiti». (Noi quando ci fu il bombardamento eravamo a spigolare vicino Gela. Mio padre se ne andava a mietere fino a Montelepre e a Corleone, a Valledolmo. Ci voleva una settimana per arrivare fino a lì. Quando eravamo nelle campagne si vedeva passare Salvatore Giuliano. Lui faceva del bene perché aiutava quelli come noi. Noi potevamo portare la farina per fare il pane ma a lui lo fermavano e gliela toglievano e questo non era giusto, solo perché aiutava la povera gente come noi. Con mio padre andava anche il fratello e la sua famiglia. Avevamo finito di spigolare e mio zio disse alla moglie vai a farmi la pasta e così lei e la figlia andarono sul carretto e mia zia si mise ad impastare. Anche noi eravamo con lei. D’un tratto arrivarono 2 aerei e incominciarono a combattere. Noi ci rifugiammo. Eravamo abbracciate. Quando la battaglia terminò ci chiamammo ma mia zia e la figlia erano morte. Mio padre era stato ferito a un piede e perdeva sangue. Mio zio lo portò in paese per farlo curare. Restammo sole io mia madre e mia sorella. Ci rifugiammo in città a Vittoria. Lì c’erano 4 poco di buono e ci videro e dissero stasera facciamo festa. Mia madre terrorizzata per noi chiese ospitalità in casa di una famiglia che poi ci portò con sé a Scoglitti. Successivamente mio zio andò a cercare il corpo della moglie e della figlia ma non le trovò. Gli aerei non ce l’avevano con noi il problema fu che ci trovammo nel punto sbagliato).

Maria Agosta Modica 192846

46 Grazie alla testimonianza di Maria veniamo a sapere che Salvatore

Giuliano era conosciuto all’epoca anche fra i contadini della Contea di Modica che del resto, come ci ha detto Maria si spingevano fino al cuore

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Cfr intervista video nel sito

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«Erumu cu ma paṭṛi, ḍuoppu Ṛausa luntanu ntô ćianu, era tiempu ‘i scoġġiri, giugnettu. Erumu quaṭṭṛu caṛṛetta, iu avia quattordiçi anni, c’era anchi ma suoru Margherita. Avieumu ‘ntisu sparari l’aerei e avieumu vistu auṭṛi caṛṛetta chê tendi pi ṛipararisi. Ma paṭṛi rissi ca n’aviumu alluntanari pi nun siri bombardati. Armammu ‘i caṛṛetta e ni nni jiemmu ô paisi. Ma paṭṛi ‘u capiu ca erumu tutti stanchi ḍuoppu ô scogghiri e pinzau ri firmarisi an-campagna. Virieumu i ġienti scappari e ma paṭṛi pinzau ri ṛiparari ô funnucu. Vittumu n-surdatu câ facci tinciuta e l’elmettu ntâ testa, vulia sapiri unn’erunu i tedeschi. Quannu sciemmu ri ḍà o-nnumani vittumu ‘a campagna ćina ćina ri armi e cavaḍḍi muorti. A-mericani passannu ni raunu caramelli, tè e cioccolatta, (eravamo con mio padre, dopo Ragusa, lontano sul pianoro, era tempo di spigolare, luglio. Eravamo quattro carretti, io avevo quattordici anni, c’era anche mia sorella Margherita. Avevamo sentito sparare gli aerei e avevamo visto altri carretti attrezzati di tende per ripararsi. Mio padre disse di allontanarci per non essere bombardati. Salimmo sui carretti e ci dirigemmo verso l’abitato, non precisa quale. Mio padre capiva che sia gli animali che noi, dopo il lavoro, eravamo stanchi e decise di

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