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UNA RICERCA SUL CAMPO: TEMI E PROTAGONIST

«Se volessimo caratterizzare la “fonte orale” con una breve e semplice descrizione, potremmo dire che essa è un racconto, una narrazione, una testimonianza orale. Il processo che conduce alla formazione di tale fonte, è complesso e implica l’intervento di due soggetti: l’intervistato e l’intervistatore. Dalla relazione reciproca di queste due parti nasce l’“intervista”, il documento orale»29.

Non è facile intervistare persone anziane. Non è facile entrare nelle loro case con una telecamera. Ancor più difficile è entrare nelle case di gente che non abita nella tua città. Ci vuole sempre un accompagnatore del luogo. Qualcuno che conosca il testimone e che lo rassicuri riguardo alla presenza dell’estraneo. Ancor più complicato è avere firmate le liberatorie perché a molti di questi anziani il mantra ripetuto è di non firmare mai nulla. E così è. Allora ho ritenuto di far dichiarare sempre durante la registrazione audio e video la disponibilità del testimone a che le storie raccontate fossero divulgate e laddove questa disponibilità mancasse non ho citato la memoria se non

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Contini G., in http://storiaefuturo.eu/lo-sguardo-della-storia-orale-il- percorso-delle-fonti-orali-nella-narrazione-storica

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parzialmente. Questa pratica è perfettamente in linea con le linee guida sulle modalità di raccolta delle interviste contenute nel documento prodotto da AISO sulle Buone pratiche di Storia Orale presentato pubblicamente in occasione del convegno Buone pratiche di storia orale. Questioni etiche, deontologiche, giuridiche organizzato da Aiso e Fondazione Museo storico del Trentino, con la collaborazione dell’Università di Trento e dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, tenutosi il 13-14 novembre 2015 a Trento, che riproduco in forma integrale in appendice a questo capitolo.

Principalmente si tratta dunque di memorie orali registrate sempre con un registratore MP3. A volte invece mi sono avvalsa dell’uso di una Canon EOS 700D con la quale ho avuto l’opportunità di filmare le interviste. Affidarmi esclusivamente alla memoria raccolta negli incontri a due tra me e il testimone mi garantiva la possibilità di ascoltare dalla viva voce di chi narrava le sfumature del racconto, intuirne le angosce, e la speranza che sembrava rimanere intatta dal tempo dell’esperienza al tempo del racconto.

Dal momento che le testimonianze sono multiple il materiale raccolto è anch’esso vario e frazionato. A testimonianze dal contenuto schematiche: “mi sono sottratto alla leva e mi sono rifugiato nelle campagne a lavorare e sono rimasto lì per sempre” si contrappongono memorie veramente complesse che mi hanno costretta a tornare più volte a casa del testimone per fissare particolari, e chiedere spiegazioni. Il primo tipo di testimonianza, quella schematica si riferisce per lo più al momento dello sbarco e al richiamo alle armi. Come è ormai noto il ritorno alla guerra in questa zona fu osteggiato da un movimento popolare noto come “Non si parte” che si articolò in maniera diversa in alcuni paesi degli iblei e che ebbe come conseguenza quella di riuscire per qualcuno a sottrarsi appunto

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al ritorno alla guerra. Di queste testimonianze ne ho raccolte moltissime e costituiscono una sorta di racconto comune, corale, che finisce col diventare quello che Gabriella Gribaudi definisce come una sorta di ipertesto in cui tornano immagini e parole tutte uguali:

«L’esperienza collettiva della disfatta si esprime in alcuni casi con un noi corale e si ibrida con rappresentazioni e memorie pubbliche producendo una sorta di “ipertesto” in cui ritornano immagini, parole, espressioni la cui eco risuona nei discorsi comuni, nelle celebrazioni retoriche, nelle pubblicazioni, nei film, come nei documentari televisivi. Poi il racconto si fa individuale….Il suggerimento a leggere questo genere di voci come una unica voce proviene dalla riflessione di autori come Bachtin, Barthes, Foucault, che propongono narrazioni che rispettano la multivocalità procedono per assonanze e non attraverso una lettura lineare»30.

E questo è riscontrabile soprattutto nelle interviste che riguardano il lavoro di raccolta della memoria prima del 2014 quando cioè il mio campo di indagine era rivolto soprattutto al mondo contadino. Secondo il racconto corale, furono spesso i contadini coloro che riuscirono a far perdere le loro tracce e si imboscarono facilmente in questo territorio enorme in termini di spazio e complesso in termini geomorfologici con le sue cave, le caverne, le montagne; un territorio nel quale venne facile alle famiglie e alla rete degli amici contribuire alla fuga dei giovani renitenti alla leva. Ma non solo, i ragazzi chiamati alle armi che abitavano nei centri urbani riuscirono a sottrarsi semplicemente nascondendosi nelle loro case supportati dalla famiglia e dai vicini. Molti testimoni raccontano semplicemente di non essersi mai presentati, con la gavetta, il cucchiaio e la coperta, contravvenendo alla lettera di richiamo. Qualcuno racconta che recatosi all’ufficio Leva di Modica sentiva da lontano gridare “non si parte, non si parte!” e di aver creduto che quello fosse un

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Gribaudi G., Combattenti, sbandati, prigionieri, esperienze e memorie di

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vero e proprio avviso alla popolazione. Molti tergiversano sull’accaduto: «Non ricordo, non so!» un testimone però mi ha raccontato molti dettagli. Sceso in città dalla campagna in occasione della fiera del bestiame col padre e alcuni amici richiamati anche loro, in piazza Corrado Rizzone, a Modica, ha visto il caos, i carri bestiame uno sull’altro e poi sentiva urla. Insieme ad altri amici ha partecipato all’incendio al comune di Modica. Racconta di aver scaraventato giù dal balcone tutto quello che si trovava sotto mano, sedie, scrivanie, e anche una macchina da scrivere. Specifica di essersi informato, e venuto a conoscenza dei movimenti di sommossa contro il richiamo alle armi decide di darsi alla macchia tornandosene semplicemente da dove era venuto e dove io l’ho intervistato, con mille difficoltà per trovare la sua abitazione, nel cuore di una delle più belle cave degli iblei nascosta tra carrubi e muri a secco. L’ormai anziano testimone ha raccontato di essersi consultato con altri giovani come lui e tutti hanno deciso di rimanere allerta ma ben nascosti in attesa di capire come sarebbe evoluta la situazione. E comunque hanno deciso di non presentarsi volontariamente bensì di attendere una nuova comunicazione. Comunicazione mai arrivata. Ebbene questo signore, classe 1923, non ha voluto che il suo nome comparisse tra quello dei testimoni, né che l’intervista integrale fosse divulgata, non mi ha rilasciato la liberatoria, precisando di avere figli e nipoti e di temere che lo Stato si sarebbe rivalso su di loro.

A mano a mano che la ricerca evolveva e che mi confrontavo con il metodo da seguire per un corretto approccio con le interviste mi sono posta alcune domande e certamente ad alcune, per esempio la necessità che sentivo di essere presente all’interno della ricerca, ho risposto tenendo ben in mente alcune “buone norme” per una ricerca basata sulla fonte orale suggeritemi in generale dallo studio dei testi di Giovanni Contini

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e Alessandro Portelli che mi hanno supportato nella scelta di non annullare la mia presenza all’interno delle interviste anche se alcuni manuali al primo punto del loro vademecum avvisano:

«An interview is not a dialogue. You are there to record someone else ‘s experience, not to talk about yourself. The whole point of the inteview is to make sure the narrator tells his own story»31.

Non era possibile che io non raccontassi la mia storia ai testimoni. Perché se è vero che l’intervista non è un dialogo bisogna capire anche con chi si ha a che fare. E nella mia esperienza posso dire che il testimone non è un sacco da vuotare ma una relazione da curare. Bisogna tener presente l’ambiente nel quale ci si muove, bisogna partire dal presupposto che raccogliere alcune memorie è più delicato di quanto non sembri. Allora l’intervista diventa un flusso di ricordi, sensazioni ed emozioni che hanno a che fare prima di tutto con materiale umano vivo. Per questo mi è anche capitato di voler interrompere l’intervista lì dove qualcuno avrebbe potuto definire “sul più bello” ma davanti al singhiozzo di un uomo anziano non mi sono sentita di procedere. E questo è ancor più valido quando si raccolgono memorie che hanno a che fare con la sfera dell’intimità: allora bisogna creare una profonda complicità che non lascia margini all’impersonalità.

Un tema che merita una riflessione è quello che racconta, dal punto di vista dei protagonisti, “la vita dei soldati in guerra e il loro ritorno a casa” e che richiama il tema della figura del “reduce”. La Russia, la Grecia, i Balcani, l’Africa sono solo luoghi geografici e spesso anche confusi nella percezione memoriale; per tutti però il terreno comune è la netta sensazione di disorientamento rispetto alla sconfitta subita e l’urgenza di tornare a casa. Questi ragazzi, alcuni appena diciottenni,

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Historical Society, Oral History projects guidelines, Minnesota Oral History Office, 2001

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indottrinati e partiti con grandi velleità di vittoria e di affermazioni sociali e personali, alcuni invece partiti con grande rassegnazione rispetto ad un ennesimo dovere da assolvere nei riguardi di un’istituzione percepita come estranea e ostile allo stesso modo invadente si ritrovano in situazioni neanche lontanamente immaginate. Alcuni, per esempio, non avevano mai visto il mare racconteranno il loro spaesamento di fronte a quella enorme massa d’acqua come unico grande ricordo della loro guerra: il loro racconto si ferma alla spaventosa vista del mare e alla paura di quella estensione di acqua nera. Altri ancora non avevano mai visto un treno. Racconteranno di essere stati ingoiati dentro vagoni senza aria e senza luce nel loro drammatico viaggio verso i campi di lavoro in Germania. Altri ancora patiranno il gran freddo e riportano quella sensazione come ancora viva e nitida nella memoria; al contrario di altri che patiranno il gran caldo e di quell’esperienza portano ancora il sudore. Tutti reduci anche se il reduce non lo si può rappresentare in un’unica categoria e togliersi il pensiero: c’era il combattente, il prigioniero, il partigiano, il mutilato, addirittura qualcuno di loro era un po’ tante figure tutti in un’unica persona. E poi provenivano da ambiti sociali diversi, il che implica anche una percezione di ciò che accadeva che dipendeva inevitabilmente dal tipo di educazione ricevuta. I loro racconti riconducono tutti a quella situazione di rottura di quell’equilibrio rappresentato dalla casa, dalla famiglia, e dal lavoro.

Tutti o quasi, infine, sperimenteranno la “solidarietà umana”. Altro grande tema che il reduce racconta con consapevolezza, umanità e riconoscenza. Si, perché l’esperienza della solidarietà è vissuta trasversalmente in tutto il terreno di guerra. Un affondo però bisogna farlo sul gli sbandati che condividono la strana sensazione di smarrimento con i soldati

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stanziali degli iblei. La guerra degli italiani iniziò proprio dagli iblei e lo sbandamento, come lo chiamano i reduci senza riferimenti, ebbe qui il suo esordio anche prima del 10 luglio ‘43. Cosa significò per tutti costoro il prendere coscienza della classe dirigenziale che li aveva ingannati? Attraverso le testimonianze verremo a capo delle angosce e degli incubi che quelle esperienze ancora suscitano in chi le racconta.

Le testimonianze dei reduci fanno emergere con forza un altro grande tema che si può riassumere nella “mancata contrapposizione tra fazioni”: fascisti e antifascisti erano categorie confuse, e spesso la confusione sorge pure con gli alleati. Per tutti l’unica categoria certa era u surdatu che si contrapponeva ai civili. Emerge invece chiara la contrapposizione che riguarda la provenienza geografica: i soldati del nord erano ritenuti più fortunati perché le licenze a loro erano concesse più facilmente e poi al momento della fuga poterono ritornare più velocemente a casa dei soldati del sud, senza dover affrontare il mare sullo stretto di Messina, esperienza da tutti riportata con terrore. O almeno queste facilitazioni erano avvertite con maggior forza tra i soldati del sud.

Tra tutte le questioni, però, quella che emerge con molte difficoltà è quella che riguarda la violenza di genere. Ogni volta che ho chiesto notizie in merito è calato una sorta di silenzio irreale e nella stanza, durante l’incontro, una sorta di disagio. Tutti raccontano di aver saputo di violenze ma nessuno, tranne che per una singola voce tra l’altro riportata dalla moglie di un soldato, di averne inferta ad alcuna donna. Altro discorso invece si pone quando si parla di violenza sugli uomini. In questo caso i testimoni fanno un distinguo: la violenza sui soldati intesa come atto di spavalderia e la violenza sui civili da molti riportata come atto deprecabile di vigliaccheria.

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Un altro argomento che si pone all’attenzione del ricercatore riguarda la storia delle donne. Non dimentichiamo, infatti, che questa comunità si era spogliata della forza lavoro maschile e che le donne hanno reagito rimboccandosi le maniche per prendere il posto degli uomini e continuare in quei lavori fino ad allora percepiti al maschile. Le troveremo nei campi, e nelle botteghe artigianali ma anche negli uffici e nelle istituzioni educative. Cosa ne fu di loro al rientro degli uomini?

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