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L’ESPERIENZA DEL QUOTIDIANO

Tutto questo mi ha infine portato a riflettere sul disperato tentativo che tutti fecero di stabilire un compromesso tra la straordinarietà dell’evento che stavano vivendo e il bisogno di avere una qualche forma di vita che richiamasse la quotidianità: sia quella lasciata a casa, per quel che riguarda i soldati lontani, sia quella precedente al conflitto per coloro che rimasero nel territorio. Dalla lettura di alcuni testi di Ernesto De Martino e dai suggerimenti di Michel De Certeau ho potuto riflettere e guardare all’esperienza del quotidiano puntando sulla modalità in cui sia i soldati che i civili riuscirono ad opporre resistenza. Il rispondere alla dura esperienza della vita, della mancanza, della perdita, della malattia, della morte, che non è semplice subire passivo ma diventa reazione. Nella maggior parte dei racconti troveremo storie di ragazzi che presso le case di chi li ospitava tornarono ad esercitare il lavoro che conoscevano. Tornarono ad essere contadini, o a tagliare legna, governare animali, cucire o riparare scarpe in Inghilterra, in Kenia, nel Montenegro, in Grecia e persino nei campi di lavoro in Germania. Accadde spesso che si facevano la fetanzata no per sposalla ma per stare bene e avere una casa in cui tornare, una famiglia su cui fare affidamento. Alla solidarietà ricevuta i nostri ragazzi risposero

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spesso con il loro lavoro. E questo accadde a volte per rendere la cortesia a chi li aveva accolti e altre volte per ritrovare il senso perduto di ciò che vuol dire esser sé stessi. Ritrovare gesti e ripristinare gestualità tipiche del tempo di pace in un momento in cui si sentiva che qualcosa stava cambiando e quel cambiamento incuteva nuove paure e provocava altre ansie. Le comunità diedero la loro risposta e questa è perfettamente leggibile nelle interviste:

1) le preghiere e i cunta:

Tra i tentativi di ristabilire quel senso di quotidianità che rassicura gli animi di certo vi è la recita delle preghiere. Le preghiere restituiscono la speranza e richiamano alla memoria affetti lontani, i nonni, e le madri soprattutto. Il senso della recita delle preghiere era un profondo e intimo tentativo di ricongiunzione ma soprattutto ripristinava modalità note fin da bambini, richiamando voci familiari e figure di riferimento irrinunciabili in momenti di crisi. Era come se la preghiera, anche solo se per il tempo di preghiera, avesse avuto il potere di ristabilire equilibri perduti. E ancora la recita delle preghiere era un ennesimo tentativo, mai ritenuto goffo, anzi rispettato anche da chi li ospitava, di creare un legame al di là della lingua parlata e del lavoro, con chi viveva quella stessa esperienza.

All’inizio mi disorientavo quando nel bel mezzo di un racconto dei fatti di guerra entrava la figura di Maria o mi veniva raccontato per esempio il cuntu di Santa Barbara o quello di San Giorgio. O quello rarissimo di santa Teresa. Poi ho capito che anche questa dimensione fa parte del ricordo poiché parte imprescindibile dell’educazione della comunità che stavo indagando. Infine bisogna soffermarsi sulla recita dei cunta. A sera quando non c’era più luce abbastanza per fare altro ci si riuniva attorno al fuoco sempre acceso e il più anziano raccontava, spesso in rima, le vicende di eroi, santi, personaggi

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della tradizione. Sempre gli stessi racconti, che finivano sempre allo stesso modo. Ma perché? Che senso ha raccontare sempre la stessa storia? Per dare una probabile risposta bisogna tornare bambini. Quando anche a noi faceva piacere ascoltare sempre la stessa favola con le stesse parole di sempre. È, secondo gli studiosi, questo un meccanismo di conferma. Ascoltare una storia di cui abbiamo già contezza della fine seda ansie grazie proprio al fatto che se ne conosce la fine. Questo, forse, accadde allo stesso modo a questa comunità in crisi e alla ricerca di conferme32.

2) la figura di Maria:

chiedendo a coloro che partirono di parlarmi dei parenti, delle sorelle, dei fratelli, dei genitori e delle figure familiari tra tutti la figura più nitida rimaneva sempre quella della madre. Antonio Gibelli ha già sottolineato l’importanza della figura materna per i soldati che fecero l’esperienza della Grande Guerra:

«La centralità della figura materna esaltata dalla Grande Guerra come punto di riferimento dei giovani coscritti o volontari si potenzia qui e si prolunga in quella della Madrepatria. Ma per soddisfare l’amore adulto per quest’ultima occorre recidere il legame fisico e infantile con la prima. Il dominante affettivo materno, si direbbe l’amore passionale per la madre e la devozione per la Madonna non sono incompatibili, al contrario si conciliano benissimo»33.

La Madonna dunque. In un precedente lavoro di ricerca a contatto con gli abitanti dell’antica Contea di Modica ho cercato di indagare come fosse percepita la figura di Maria delle donne e come fosse raccontata dalla viva voce delle testimoni34. Il lavoro

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http://www.fioriti.it/riviste/pdf/1/Mittino.pdf La dimensione narrativa della mente: implicazioni del lavoro terapeutico.

33

Antonio Gibelli, La grande guerra, storie di gente comune 1914- 1919, ed Laterza, ottobre 2014, pp 5.

34 Burderi M. ,Maria nella voce delle donne, testimonianze scritte

e orali di un percorso mariano, edizione Associazione Culturale

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in questione esclude di proposito, le testimonianze maschili perché costituiscono un coro a sé stante rispetto a quello femminile e registrano la profonda devozione al maschile già individuata prima da Serafino Amabile Guastella e poi da Ernesto De Martino. Il Guastella già nella fitta corrispondenza intrecciata con Giuseppe Pitrè e nella sua raccolta di indovinelli e dubbi sottolineò:

«La plebe siciliana specie quella della contea di Modica era, e l’ho detto in altri lavori, una razza gagliarda e religiosissima, di onestà talmente ombrosa, da parer ridicola ai nostri giorni… Né poteva avvenire diversamente; perché l’idea di Dio stava in cima ad ogni pensiero, e quell’idea era ordine, provvidenza e giustizia riparatrice»35.

Se poi si tengono a mente le preghiere e i racconti che venivano quasi cantati durante il rito della mietitura si comprende che quella profonda religiosità già evidenziata dal Guastella era di matrice mariana. Non solo durante la mietitura, ma nella benedizione quotidiana, nelle pratiche contro il malocchio, nelle formule medicali e perfino nel segno della croce dove il grande assente è lo Spirito Santo e al suo posto troviamo u nomu di Maria. La Madonna nella cuspide sud orientale della Sicilia rappresenta un insieme di valori che costituiscono per la comunità la base fondante del sistema educativo collettivo. Un sistema comune a tutto il sud Italia che condivide con il sud di Ernesto De Martino non solo usi di vita quotidiana ma anche e soprattutto la venerazione per questa figura. Una Maria spesso colta in lacrime laddove però, per i lucani come per i siciliani, il pianto di Maria era non solo dolore ma anche l’unico modo per poter esperire il concetto di speranza:

«Occorreva una figura una figura mediatrice interamente umana, come tale suscettibile di concedere di più alla terrestrità del dolore e che al

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Guastella S. A, le domande carnescialesche e gli scioglilingua del

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tempo stesso togliesse gli umani cordogli dal loro rischioso isolamento , e tutti li concentrasse e li risolvesse nel simbolo di un unico cordoglio per un morire che cancellava la morte dal mondo. Qui sta il germe della profonda necessità storica degli sviluppi drammatici del Planctus Marie …soltanto così, come si è detto, (il pianto di Maria) poté raggiungere la disperazione umana per innalzarla alla speranza della croce»36.

Perciò come Maria ai piedi della croce diventa un atteggiamento che volge in positivo il massimo del dolore provato, la perdita di un figlio. Non solo: diventa il tentativo di sperimentare l’unica risposta possibile o percorribile su questo pianeta che è il nutrire la speranza.

A 18 anni un evento che sconquassa l’intero impianto di vita determina il bisogno di aggrapparsi a forti ancore che spesso vengono individuate nei capisaldi dell’impianto educativo: la madre, la Madonna, la Patria. Ma la figura della Madonna rimane la più presente di tutte. Maria non solo entra prepotentemente nelle narrazioni ma rimane quasi sempre sullo sfondo di quasi tutti i racconti e di quasi tutti i narratori. È una sorta di fil rouge. E tutta l’area iblea è un’area votata alla Madonna che impera sul mare, come accade a Pozzallo tra i pescatori o sui colli del Chiaramontano dove la Madonna di Gulfi è patrona. Maria è negli angoli delle strade all’interno delle edicole votive che si moltiplicano a Modica, a Scicli, a Giarratana, a Ibla, a Chiaramonte, Comiso, Acate. Una figura che raggruppa in sé svariate figure devozionali a cui affidarsi con speranza immutata. Basterà chiedere a qualunque testimone di ricordare anche un solo tratto di una preghiera e la devozione mariana sarà tangibile. Se poi si entra nel mondo contadino ancor di più questo aspetto emerge con forza.

36 De Martino E., Morte e pianto rituale nel mondo antico, dal lamento

funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri ,Torino 1975, pp 301 e

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Un popolo dunque che visto dall’esterno sembra votato passivamente alla disciplina sviluppa i suoi meccanismi di resistenza. Il quotidiano, l’ordinario, il risultato dell’accumulo di consuetudini rituali costituiscono una trama intessuta di sforzi fisici e tensioni psicologiche che si propongono continuamente e che sono tutte da superare. La guerra, entità astratta, si materializza e diventa un’ennesima avversità alla quale rispondere con gli stessi mezzi di sempre: con la preghiera, con la superstizione, con gli escamotages, con le furbizie, con le ruberie, con il voltafaccia, con il sottrarsi o con l’arruolarsi. E tornano i suggerimenti di De Certeau nel cercare di decodificare questa comunità che sperimenta l’invenzione del quotidiano, anche se il filosofo nel suo lavoro si riferisce al periodo post bellico, ma che si può applicare anche al periodo di cui ci occupiamo qui e che diventa un modo di leggere la storia di questa comunità sia come fatto individuale, come microcosmo, sia come esempio plurale e corale. Coloro che rimasero a casa, e tra questi le donne, allora ragazze e molte bambine, hanno ben nitido il mondo prima della guerra, fatto di famiglie, lavoro nei campi, per alcune un mondo che richiama la scuola, per pochissime l’università. Dei primi amori, delle promesse di fidanzamento. E poi hanno ben fisso il momento del cambiamento, gli stenti, l’angoscia per i fratelli assenti, la fatica delle madri rimaste sole a gestire l’andamento della vita e infine lo sbarco, i bombardamenti e il terrore della violenza. E ancora il richiamo in guerra. Un nuovo distacco. E le lotte di alcuni che perseguirono l’illusione del movimento che fu ricordato come il “Non si parte”, le fughe di altri, la miseria di tutti. “Ni potti aiutari sulu Maria Santissima”(ci poté aiutare solo Maria Santissima). E torna la figura di Maria invocata in aiuto. Era già accaduto che la Madonna prendesse le difese dei sui figli come si evince per esempio dal racconto di san Giorgio in lingua

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siciliana in cui è proprio Maria che esorta il giovane martire a non aver paura e a procedere nelle sue intenzioni. Un racconto partecipato tra modicani e ragusani di Ragusa inferiore, che lo condividono pacificamente, unico esempio di condivisione forse nell’ambito di un campanilismo di provincia a cui le due cittadine si sono prestate da sempre. Era già accaduto che una Madonna spuntasse col suo cavallo bianco e prendesse parte alla battaglia del cristiani contro gli infedeli nella piana dei Mulici a Scicli. Una Madonna lontana dai canoni che la Chiesa raccontava, la quale, sia nel racconto di San Giorgio che in quello della Madonna delle Milizie, prendeva le difese di una parte dei suoi figli, i cristiani, a discapito di altri suoi figli, i musulmani, tecnicamente anche figli suoi, essendo lei la madre di tutti. Era già successo in occasione della grande peste a Modica in pieno ‘600 che la Madonna fermasse il progredire della malattia, come si evidenzia dal testo della Coroncina della Madonna delle Grazie ancora oggi recitata in versi dalle anziane. E poi nel racconto del Grande terremoto del 1693 si afferma: se nun era pi Maria la gran signura tutti forrumu muorti ri tannu a r’ora (se non fosse stato per Maria la Gran Signora da allora ad oggi saremmo tutti morti). Era dunque nella percezione comune, e trasversalmente condivisa a tutti i livelli, che l’unica fonte di protezione provenisse da Maria e se non immediatamente in maniera secondaria direttamente da lei per sua intercessione. Si pensi per esempio a tutte le storie di santi. Iniziano raccontando la storia del santo principale ma finiscono col citare la Madonna. Vale per santa Lucia, per santa Barbara, per san Silvestro e per molti altri. E infine si pensi a tutte le formule ritenute magiche in cui la figura di Maria apre o chiude il rituale di guarigione. Anche nelle vicende che riguardano la guerra la Madonna entra nei racconti e se non entra direttamente la si percepisce nello sfondo dell’evento.

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3) la guerra bypassata:

La guerra col suo carico di esperienza nella memoria popolare rappresenta uno spartiacque tra un prima, e un dopo. Ma tornare sui ricordi di guerra vuol dire inevitabilmente soffermarsi sul “durante” e questo non è per tutti agevole. Partita per raccogliere una testimonianza di guerra spesso mi son sentita liquidare con un semplice poi tornai a casa e ho cominciato a lavorare. La guerra nei racconti veniva bypassata in poche parole. Dopo il primo momento di delusione ho capito che per qualcuno l’esperienza della guerra è stata come riposta in un cassetto mai più aperto, per varie ragioni. Vorrei soffermarmi su questo punto. Mi sembra di aver intuito, in alcuni casi, che le ragioni per cui i ricordi legati alla guerra non erano più venuti a galla erano legate non tanto alle violenze subite durante la guerra quanto a quelle subite dopo la guerra. Quando cioè per una chiara volontà di ricominciare, nelle famiglie, e poi nella cerchia dei conoscenti, e infine nella società, si è ricorso quasi al rifiuto dei ricordi legati alla guerra costringendo al silenzio coloro che magari, al contrario, chiedevano di narrare. Anche questo è comprensibile: il dolore di uno è il dolore di tutti ma chi poteva raccontare la propria vicenda spesso si trovava ad avere come interlocutore proprio chi nel conflitto aveva perso un proprio caro e allora il pur pungente ricordo del reduce passava inevitabilmente in secondo piano, quasi che essersi salvati costituisse una colpa rispetto a chi non era più tornato. In più come afferma Gabriella Gribaudi:

«per un lungo periodo la vicenda dei reduci catturati nei tanti e diversi teatri di guerra in cui sono stati coinvolti i nostri soldati è stata oscurata. Quello dei reduci era un problema sociale enorme in un paese distrutto, con una popolazione civile che aveva sofferto quanto i militari al fronte e non era pronta ad assumersi anche il risarcimento delle loro sofferenze. La valanga di uomini che tornava da paesi e fronti diversi poneva

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un problema politico e un enorme problema sociale ed economico che la politica della ricostruzione non era in grado di affrontare»37.

Allora quel riporre i ricordi in un cassetto per non riaprirlo più era solo un’impressione sbagliata. In effetti per molti anziani quel cassetto è rimasto aperto nelle ferite della memoria e viene spesso rivisitato sia nell’atteggiamento di voler tornare quasi in maniera compulsiva a parlarne sia nel suo atteggiamento contrario e altrettanto ostinato che costituisce il rifiuto categorico di rievocare gli eventi. È il caso, per esempio, dei testimoni che con l’andare del tempo hanno perso la nitidezza degli eventi prossimi. Spesso ho incontrato persone che non ricordavano cosa avevano mangiato a pranzo ma che ricordavano la loro vicenda in guerra e la restituivano sempre uguale nei particolari. È anche accaduto che il silenzio è piombato come una cappa sulla vita del testimone in maniera forzata. Una delle testimonianze che ha molto da dire in merito è quella di Giuseppe Benincasa, raccolta a Castronovo di Sicilia, nel cuore dell’isola. Ho incontrato u Zu Pippinu, da tutti così chiamato, nel suo paese, nella sua casa, in un periodo di soggiorno che l’uomo alterna tra l’America, la Grecia e la Sicilia. La sua testimonianza, preziosa sotto vari punti di vista, è già raccolta in un libro di memorie, dal titolo Memorie di Cefalonia38.

Nonostante io avessi letto il libro sono voluta andare a filmare un’intervista con lo Zu Pippinu, laddove ho potuto sono sempre andata direttamente alla fonte. E in questo caso ho fatto bene. Negli occhi di quest’uomo si legge una forza vitale incredibile, uno sguardo che non dimentico e che non passa,

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Gribaudi G., Combattenti, sbandati, prigionieri, esperienze e memorie di reduci della seconda guerra mondiale, Donzelli editore,2016,pp VII, VIII.

38 Licata F., Liberto M., (a cura di) Memorie di Cefalonia , la guerra

volutamente dimenticata e il martirio della “Divisione Acqui”, ed. Kassar,

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come è ovvio, dalla testimonianza scritta. Così come non passa la sua rabbia per non essere stato creduto, mi dicevano ah tu che ne sai? A me che ne so? Poi quando mi ha chiamato Pertini per darmi la medaglia hanno cominciato a chiedermi. E non si vedono le lacrime che ancora gli rigano il volto quando racconta di essersi risvegliato sotto il peso dei corpi dei suoi commilitoni, e non si vede la smorfia di ribrezzo quando racconta il puzzo del sangue che lo ricopriva, nel libro non si vedono le mani che l’uomo si porta davanti alla faccia in segno di difesa e di protezione. E nel libro pur intuendo la figura aitante del soldato non si percepisce il guizzo di galanteria che Giuseppe Benincasa conserva intatto e sfodera al momento opportuno. Aver raccolto questa storia di cui parleremo ampiamente, non è un divagare rispetto allo spazio geografico che mi sono prefissata di indagare. In questo caso si tratta infatti di un colpo di fortuna. La voce isolata di Giuseppe Benincasa riassume quella mozzata a Cefalonia dalla barbarie tedesca e dà voce ai soldati che caddero lì. Questa testimonianza riconduce a quella di una famiglia di Ispica che racconta nelle lettere dei fratelli dislocati nei vari fronti e in particolare quella di uno di loro, il capitano Antonio Paternò caduto proprio a Cefalonia. Purtroppo però è anche accaduto che il silenzio imposto all’indomani del conflitto abbia preso per sempre il posto della parola. Ed è accaduto più volte. Per esempio con un reduce del campo di prigionia e sterminio di Dachau, un anziano signore, classe 1920, che vive a Vittoria. Il campo è tristemente conosciuto per i suoi macabri primati. Fu il primo ad esser istituito nel 1933, il primo a portare l’ironica scritta sul portale d’ingresso “Arbeit macht frei” poi adottata in molti altri campi e il primo in cui si operavano esperimenti sulle persone. Tra questi esperimenti anche quello sul congelamento a vivo degli individui. Gli esperimenti furono poi spostati ad Auschwitz perché a Dachau le persone urlavano

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e i loro lamenti si potevano sentire anche al di là dei limiti fisici del campo. A Dachau furono rinchiuse più di 200.000 persone e pare che lì persero la vita più di 41.500 persone. Il mio testimone si è rifiutato di incontrarmi per la decisa volontà di non tornare ancora con la memoria a quei momenti dicendo a chi mi avrebbe dovuto accompagnare che gli bastava già sentire quelle urla ogni notte.

Nel corso della raccolta però mi sono imbattuta in un altro genere di memoria altrettanto ricca di emozioni vive. Quella affidata alle parole scritte nelle lettere e nei memoriali. Antonio Gibelli, uno dei maggiori studiosi della scrittura come pratica sociale e delle esperienze individuali e collettive nelle

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