6 In Italia, uno dei capisaldi di tale filone è indubbiamente il testo di Piergiorgio Corbetta,
Metodolo-gia e tecniche della ricerca sociale, il Mulino, Bologna, 1999, che riserva ampio spazio alla
trattazio-ne di metodi e tecniche di ricerca qualitativa.
7
Il concetto di somiglianze di famiglia è elaborato da Ludwig Wittgenstein in Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967.
8 Mario Cardano, Tecniche di ricerca qualitativa, Carocci, Roma, 2003, introduzione, pp. 13-14.
Cor-sivo e nota in parentesi sono dell’autore citato.
9 Il riferimento è all’idealtipo weberiano, concepito come costrutto ipotetico per raffigurare una
speci-fica costellazione storica o sociale. Cfr. Max Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1958.
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All’interno di tale processo il ricercatore sociale dispone di un certo margine discrezionale in cui muoversi. In ragione delle differenti tecniche e strumenti di volta in volta impiegati, ciascuna fase viene a delinearsi in modo peculiare. Soprattutto nella fase del lavoro sul campo, la maggior flessibilità comunemente attribuita alla ricerca qualitativa può manifestarsi appieno. Alla rigidità e impersonalità degli stru-menti statistico-quantitativi si contrappone infatti la duttilità degli utensili del ricer-catore qualitativo: intervista discorsiva, osservazione partecipante e focus group – so-lo per citare le tecniche alle quali si deve la produzione della quota più consistente di ricerche qualitative – consentono infatti di muoversi all’interno di uno spazio relati-vamente ampio; uno spazio nel quale il ricercatore mette in gioco se stesso, le proprie conoscenze, caratteristiche personali e capacità relazionali. Indubbiamente, in tale processo, il rischio che si corre è quello di immolare sull’altare l’agnello sacrificale dell’oggettività scientifica; si tratta però di un rischio che – se il ricercatore sociale, ne è consapevole – può essere scongiurato ed eluso a proprio vantaggio: chiarire e motivare scelte, azioni e rappresentazioni di volta in volta utilizzate nel percorso di ricerca va esattamente in questa direzione. In tal modo la ricerca sociale viene a con-figurarsi come una rete di decisioni e scelte alle quali è chiamato chi si propone di condurre una ricerca qualitativa. La capacità e l’onestà intellettuale nell’elaborare un dettagliato resoconto riflessivo delle procedure di ricerca adottate – così come propo-sto da Altheide e Johnson11 – giocano un ruolo di primordine dinnanzi all’imperativo dell’obiettività ed oggettività scientifica. Dunque, come esplicitato ancora da Mario Cardano, se è vero che:
Nella ricerca quantitativa il principio di obiettività è declinato privilegiando il ricorso a
proce-dure impersonali e a tecniche di accreditamento dei risultati il più possibile standardizzate12.
appare altrettanto innegabile che:
[…] Nella ricerca qualitativa il medesimo principio trova espressione nella metodica redazione di un resoconto riflessivo che dia conto delle procedure di ricerca cui l’osservatore ha fatto ri-corso, che ricostruisca e argomenti la rete di decisioni che il ricercatore ha preso, prima sul campo, e poi a tavolino, nel lavoro di analisi e scrittura. Alla nozione di replicabilità pubblica
11 David L. Altheide, John M. Johnson, “Criteria for Assessing Interpretive Validity in Qualitative
Research”, in N. K. Denzin, Y. S. Lincoln (eds.), Handbook of Qualitative Research, Sage, London,
1994, pp. 485-499.
5 delle procedure osservative subentra qui – con le medesime funzioni – quella di ripercorribilità cognitiva dell’itinerario di ricerca, i cui dettagli sono contenuti nel resoconto riflessivo. […] È dunque attraverso la valorizzazione metodologica della riflessività che la ricerca qualitativa
può costituire l’obiettività dei propri risultati […]13.
In sintesi, muovendo dalla sopraccitata concezione di ricerca qualitativa – ma-turata nel mio percorso di studi e nelle brevi esperienze di ricerca sino ad ora affron-tate, prevalentemente sotto forma di esercitazioni, tesine o laboratori – intendo ora procedere nell’illustrazione delle principali tecniche di ricerca qualitativa messe in campo nel mio percorso di ricerca. Più in particolare, in un primo momento effettue-rò una rapida ricognizione circa lo stato dell’arte in merito all’osservazione parteci-pante e all’intervista discorsiva, i due principali utensili dei quali mi sono servito nel corso del lavoro sul campo. In un secondo momento, coerentemente con quanto deli-neato nelle pagine precedenti, provvederò a sviluppare un accurato resoconto rifles-sivo dell’attività di ricerca svolta, al fine di garantire la ripercorribilità cognitiva dell’itinerario compiuto e dunque, di converso, l’obiettività ed oggettività della ricer-ca nel complesso.
1.1.O
SSERVAZIONE PARTECIPANTE E RICERCA ETNOGRAFICASebbene la paternità dell’osservazione partecipante non sia attribuibile ad un singolo studioso o ad una specifica corrente di ricerca, è opinione comune indicare nell’introduzione ad Argonauti del Pacifico occidentale di Malinowski14 il primo tentativo di sistematizzazione dei princìpi metodologici di tale strumento15. Negli an-ni successivi a tale pubblicazione, l’osservazione partecipante diviene il tratto distin-tivo e fondamentale della ricerca etnografica, configurandosi come principale meto-do e strumento di ricerca. Sinteticamente definibile come uno strumento:
[…] caratterizzato dal fatto che un ricercatore (o un’équipe di ricerca) raccoglie informazioni sulla cultura e sulla vita quotidiana (o su qualche loro aspetto più specifico) di un certo gruppo
13 Ibidem.
14
Bronislaw Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale (1922), Newton Compton, Roma, 1973.
6
sociale, osservando direttamente le attività ordinarie delle persone di quel gruppo e in qualche
caso partecipandovi direttamente16.
La peculiarità dell’osservazione partecipante risiede dunque nella partecipazio-ne diretta e partecipazio-nel ruolo del ricercatore: egli infatti, alla pari dei soggetti osservati e stu-diati, partecipa attivamente alla produzione dei significati ed alla costruzione di sen-so. Ed è soprattutto nel corso degli ultimi vent’anni – in gran parte in seguito all’influsso di interazionismo simbolico ed etnometodologia – che si è fatta strada un’idea di etnografia come occasione per riflettere sul senso comune che fa da sfon-do alle azioni quotidiane organizzate17.
Per il tramite dell’osservazione partecipante la distanza tra ricercatore ed og-getto di ricerca viene meno e l’osservatore viene a trovarsi dentro il quadro che sta dipingendo. Di norma tale osservazione si sviluppa in un lasso di tempo piuttosto e-steso: da alcuni mesi sino addirittura ad alcuni anni, necessari al fine di comprendere a fondo le dinamiche insite nei processi sociali. Impiegata alle volte in combinazione con altre tecniche quali osservazione documentaria, intervista discorsiva, shadowing e focus group, l’osservazione partecipante permette di costruire dall’interno il profilo culturale della società ospitante, inserendolo nella cornice teorica adottata dal ricer-catore18. La forma assunta dall’osservazione partecipante può dipendere da un insie-me composito di variabili sia ambientali che sociali, nonché da variabili dipendenti dall’individualità del ricercatore e dalle specificità dell’oggetto di ricerca. In tal mo-do, i metodi di osservazione vengono a caratterizzarsi come plurali e al di fuori di qualsiasi tentativo di standardizzazione.
Una volta delineato il disegno di ricerca e adeguatamente circoscritto l’oggetto dell’osservazione partecipante, il ricercatore è pronto a operare sul campo. Una delle prime scelte da compiere riguarda la modalità di conduzione della propria osserva-zione: coperta o scoperta, a seconda che si dichiari o meno alle persone coinvolte la propria identità, ruolo e finalità. È importante sottolineare che la forma impressa alla
16 Marco Marzano, Etnografia e ricerca sociale, Laterza, Roma-Bari, 2006, cap. 1, p. 3. Corsivo e
no-te in parenno-tesi sono dell’autore citato.
17 Attila Bruni, Lo studio etnografico delle organizzazioni, Carocci, Roma, 2003, cap. 1, p. 37. Circa
l’evoluzione del metodo etnografico e dei contributi apportati da antropologia, interazionismo simbo-lico ed etnometodologia il testo citato presenta un efficace riassunto di temi che, tuttavia, non verran-no approfonditi nel presente lavoro. V. iverran-noltre Marco Marzaverran-no, op. cit., cap. 1, pp. 3-32.
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partecipazione determinerà in buona misura i contenuti e l’esperienza che l’osservatore potrà vivere sul campo19. Se il ricorso all’osservazione coperta facilita l’accesso al campo, è altrettanto vero che, allo stesso tempo, essa pone il ricercatore di fronte ad un insieme di problemi etici tali che, nel corso degli anni, hanno portato ad una graduale preferenza del metodo dell’osservazione scoperta. Tuttavia, anche la preferenza comunemente accordata nei confronti di quest’ultimo metodo implica la negoziazione dell’accesso al campo: chi si appresta ad iniziare il proprio lavoro do-vrà infatti negoziare con i propri ospiti tempi e modi della propria ricerca. A questo proposito, quale che sia il contesto o la realtà che ci si accinge a studiare, un ruolo fondamentale è ricoperto dai “guardiani” (o gatekeepers nella letteratura anglosasso-ne). Come suggerisce il termine, si tratta di figure che, per la propria qualifica, cono-scenze o ruolo, ricoprono una posizione cruciale per l’accesso al campo. Sovente il ricercatore, contando sulle proprie competenze relazionali e qualità umane, si affida ad una o più persone che ricoprono il ruolo di mediatore culturale, ovvero:
[…] Una persona che gode della fiducia della popolazione in studio e che, per le sue caratteri-stiche culturali e di personalità, è facilmente avvicinabile dal ricercatore. Il mediatore culturale è una persona che ha solidi legami con entrambe le culture protagoniste dell’incontro etnogra-fico, quella del ricercatore e quella dei suoi ospiti, e che conosce quest’ultima con sufficiente
profondità20.
Una volta negoziate le modalità di accesso al campo, il ricercatore può iniziare la propria attività e, muovendo dalla domanda cognitiva che orienta il lavoro, model-lare e ridefinire la propria esperienza. L’elevato grado di imprevedibilità che caratte-rizza l’osservazione partecipante accompagna il ricercatore in tutto il suo percorso di ricerca, contribuendo a ridefinire e reindirizzare il lavoro sul campo. All’osservazione descrittiva, che è utile nelle prime fasi e attraverso la quale il ricer-catore cerca di fornire un primo e preliminare quadro di riferimento, si affiancano, a mano a mano che il quadro viene a definirsi nei dettagli, osservazione focalizzata e selettiva. In queste fasi il ricercatore, per il tramite di stratagemmi e trucchi cogniti-vi21, cerca di acquisire più informazioni e particolari possibili, solitamente rendicon-tati nelle note etnografiche redatte quantomeno a cadenza giornaliera. In tali note,
19 Ibidem, p. 119.
20
Ibidem, p. 125.
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accanto alle informazioni relative all’oggetto di studio, dovrebbe trovare uno spazio adeguato anche la descrizione della relazione osservativa fra il ricercatore e la popo-lazione studiata.
Come ho accennato in precedenza, accade sovente che accanto all’osservazione partecipante si ricorra ad altre tecniche di ricerca: osservazione documentaria, natura-listica, shadowing e focus group sono solitamente strumenti di ricerca che accompa-gnano il lavoro di osservazione. Accanto a questi, un ruolo privilegiato per importan-za e duttilità è riservato all’intervista discorsiva.
1.2.L’
INTERVISTA DISCORSIVANelle sue diverse forme, l’intervista è lo strumento di costruzione della docu-mentazione empirica più diffuso nelle scienze sociali22. Mario Cardano definisce l’intervista come:
[…] Una forma speciale di conversazione nella quale due persone (e talvolta più di due) si im-pegnano in una interazione verbale nell’intento di raggiungere una meta cognitiva
precedente-mente definita23.
Concepita come strumento di ricerca sociale finalizzato alla rilevazione di dati ed informazioni, essa consiste in una relazione – intesa nel senso di azione e comuni-cazione – tra due soggetti che interpretano due ruoli distinti: intervistato e intervista-tore. L’asimmetria di potere tra i due – o più – interlocutori viene a caratterizzare la conversazione: infatti tocca a chi ricopre il ruolo di intervistatore di stabilire le moda-lità di svolgimento e gli obiettivi cognitivi della conversazione tra le parti.
A seconda della forma comunicativa assunta, si può distinguere l’intervista strutturata da quella discorsiva. Nella prima, solitamente caratterizzata dall’uso di un questionario a risposte chiuse e precodificate, l’intervistato risponde alle domande poste dall’intervistatore, scegliendo da un copione predefinito. Nel caso dell’intervista discorsiva, invece, all’intervistato è concessa la possibilità di
22 Alberto Marradi, Roberto Fideli, Intervista, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. V, Treccani,
Roma, 1996, pp. 71-82.
9
re “[…] con parole sue, scelte lì per lì, costruendo nel modo che gli è più congeniale la propria argomentazione24”. A questa prima e fondamentale distinzione – metafori-camente riconducibile alla differenza tra copione e canovaccio nella commedia dell’arte – se ne possono aggiungere altre all’interno dell’’intervista discorsiva. Quest’ultima infatti può a sua volta essere distinta in intervista libera o guidata a se-conda del comportamento linguistico dell’intervistatore. Nel primo caso, l’intervistatore si limita a porgere al suo interlocutore un tema generale, senza speci-ficare alcuna particolare domanda o modalità di risposta prefissata ponendosi poi in una posizione di ascolto attivo25. Nel caso dell’intervista guidata l’atteggiamento dell’intervistatore appare alquanto differente. Infatti:
Nell’intervista guidata l’intervistatore conduce la conversazione seguendo una traccia che rac-coglie un insieme di temi, talvolta un insieme di domande, disposti in un ordine dato che scan-disce, guida, il percorso cognitivo dell’intervistato. La traccia svolge una funzione assimilabile a quella del canovaccio nella commedia dell’arte: suggerisce all’intervistatore i temi da trattare, la formulazione linguistica più appropriata, ma lascia a quest’ultimo la facoltà di sviluppare questo o quel tema in ragione del profilo dell’interlocutore e dell’andamento delle interviste già
concluse26.
Indipendentemente dalla forma assunta, l’intervista discorsiva si qualifica co-me una specifica tecnica di osservazione che perco-mette al ricercatore di raccogliere un insieme di informazioni su di una molteplicità di aspetti: dal profilo sociodemografi-co sino all’insieme di sociodemografi-comportamenti e al sistema di credenze degli individui. Non-dimeno, essa consegna all’intervistatore un discorso nel quale atteggiamenti, creden-ze e traiettorie biografiche sono espressi attraverso una peculiare coloritura emotiva, a sua volta inscritta all’interno di una struttura argomentativa che ne mostra e deter-mina le connessioni27. In tal modo, gli elementi ai quali l’intervistatore deve prestare attenzione divengono molteplici: forme espressive, punteggiatura, tono emotivo e at-teggiamento del locutore rappresentano aspetti essenziali.
La scelta di adottare l’intervista discorsiva in una delle forme sin qui delineate dipende essenzialmente dalla domanda cognitiva dalla quale muove il ricercatore: se egli è interessato a mettere a confronto rappresentazioni e valori in relazione ad un
24 Ibidem.
25 Marinella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
26
Mario Cardano, op. cit., cap. 3, p. 74.
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insieme predefinito di temi, la soluzione più opportuna appare quella dell’intervista guidata. Al contrario, qualora il ricercatore sia maggiormente interessato ai modelli argomentativi dei soggetti, appare più consono lo svolgimento di interviste più libe-re28. Tuttavia, è importante sottolineare che non si tratta di due strumenti costruiti in un’ottica dicotomica ed autoescludentesi ma, al contrario, si tratta di tecniche tra loro comunicanti e, per taluni aspetti, complementari e sostituibili.
Nel corso della costruzione della documentazione empirica vi sono tre opera-zioni essenziali e tra loro concatenate: in primis il contatto con gli intervistati e la presentazione della ricerca. Una volta ottenuto il consenso dal proprio interlocutore, è indispensabile fornire alcune delucidazioni sul progetto in corso e, nondimeno, as-sicurare le dovute garanzie di anonimato, indicando altresì un’indicazione di massi-ma circa la durata dell’intervista. Il secondo momento cruciale è quello della condu-zione dell’intervista, nel corso della quale l’intervistatore deve essere in grado di mettersi in una posizione di ascolto e, allo stesso tempo, di sollecitare e stimolare il proprio interlocutore. Perdipiù, un buon intervistatore deve possedere la capacità di stabilire un rapporto il più possibile empatico, relazionale e di fiducia con le persone con le quali si relaziona, mantenendo al contempo un atteggiamento di obiettività, evitando di influenzare l’intervistato esprimendo pareri ed opinioni personali. Ove possibile, le interviste vanno registrate e trascritte al più presto, momento che rappre-senta il terzo e ultimo passaggio nella costruzione della documentazione empirica. Un’utile indicazione per questa fase è quella di trascrivere l’intero svolgimento dell’intervista, corredandolo – quando necessario – con l’indicazione dei cenni non verbali del dialogo e con alcune indicazioni circa il contesto. Al contempo, è neces-sario dare il giusto peso e significato all’insieme di pause, interruzioni e sospensioni del dialogo.
Solitamente, tre sono le principali forme di impiego dell’intervista discorsiva nella ricerca sociale:
a. Come strumento autosufficiente per la costruzione della documentazione em-pirica, secondo un filone di studi che afferisce prevalentemente all’approccio biografico;
11
b. come tecnica accostata ad altri strumenti di ricerca, mantenendo essa un ruolo ancillare, come nel caso degli studi pilota o dei pre-test;
c. come dispositivo in combinazione alla pari con altre tecniche di ricerca sia qualitative che quantitative, da adottare nei cosiddetti disegni di ricerca multi-tecnica.
Fornito un panorama dei metodi e tecniche dell’osservazione partecipante e dell’intervista discorsiva, intendo ora delineare nei particolari le modalità attraverso le quali concretamente ho svolto il mio lavoro sul campo.
2.D
AL PROGETTO DI RICERCA AL LAVORO SUL CAMPOPer la realizzazione del presente lavoro di tesi, accanto ad una ricognizione bi-bliografica e all’uso di statistiche in merito ai vari aspetti trattati, ho fatto prevalen-temente ricorso ai due metodi qualitativi delineati nelle pagine precedenti: l’osservazione partecipante e l’intervista discorsiva. Ritengo necessario fornire alcu-ne delucidazioni e riflessioni sulle modalità di raccolta dei materiali, al fialcu-ne di illu-strare e garantire la ripercorribilità cognitiva dell’attività di ricerca da me svolta. La ricerca sul campo è stata concentrata nel lasso di tempo di un soggiorno di tre setti-mane in Senegal; soggiorno nel quale mi sono ripetutamente spostato fra tre princi-pali città senegalesi: Dakar, la cosmopolita e caotica capitale, Touba, la città santa della confraternita muride, e Kaolack, città snodo e di passaggio nell’entroterra sene-galese. In quest’ultima in particolare, ho trascorso buona parte del tempo, ospitato nella casa di una famiglia senegalese con la quale condividevo molti momenti della giornata. La distanza tra Kaolack e Dakar – circa duecento chilometri percorribili in un tempo variabile tra le tre e le cinque ore di auto – mi ha obbligato a permanenze di alcuni giorni nella capitale: è nel corso di tali giornate che ho potuto scoprire il di-namismo e la centralità amministrativa di Dakar. A Touba invece, data la maggior prossimità con Kaolack, ho optato per due differenti visite limitate alla pendolarità in giornata. Nel corso di questi due giorni, ho avuto la possibilità di immergermi e
os-12
servare l’aura religiosa della città santa muride che ospita, tra l’altro, la più grande moschea di tutta l’Africa Occidentale.
Per tutta la durata del mio soggiorno in terra senegalese, accanto all’attività di osservazione, ho costantemente affiancato lo svolgimento di interviste discorsive guidate con migranti che, terminata l’esperienza lavorativa all’estero, sono definiti-vamente rientrati in patria. Parimenti, grazie ad incontri informali avvenuti alle volte casualmente ed appuntamenti con informatori istituzionali, ho cercato di approfondi-re ulteriormente gli aspetti approfondi-relativi all’emigrazione senegalese, focalizzando costan-temente l’attenzione sugli aspetti relativi al ritorno in terra natale.
2.1.U
NO SCORCIO DI OSSERVAZIONE PARTECIPANTEUn primo dubbio da dissipare riguarda l’approccio al metodo etnografico che – prendendo spunto da un lavoro di ricerca di Devi Sacchetto – ho concepito nel modo seguente:
In questa ricerca viene adottato il metodo etnografico nel senso che le annotazioni dirette sul campo vengono riportate attraverso la parola degli attori sociali reali, incontrati per un’intervista o per una condivisione di alcune situazioni specifiche. L’etnografo è colui che non solo raccoglie, ordina e trasforma le informazioni raccolte, ma soprattutto incontra indivi-dui; non dà tanto voce a chi ne è privo, quanto presta attenzione alle voci che vogliono
manife-starsi29.
Se, come ho precedentemente illustrato, è vero che per la realizzazione di una buona ricerca etnografica sono necessari alcuni mesi o talora anni, l’attività di osser-vazione partecipante da me svolta non soddisfa siffatta condizione. L’attività di os-servazione compiuta è risultata infatti concentrata nell’arco di tre settimane di per-manenza in Senegal: per un insieme di motivi – economici, lavorativi e familiari – non ho potuto fermarmi più a lungo e, conseguentemente, approfondire ed ampliare l’esperienza sul campo. Alla luce di tale aspetto, tengo a precisare che il presente