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Comunismo anarchico e anarchismo individualista

Il comunismo anarchico di Luigi Fabbri tra socialdemocrazia e individualismo

III.II Comunismo anarchico e anarchismo individualista

Se la componente anarchica erede della tradizione internazionalista dovette fare i conti, a destra, con la diffusione del socialismo democratico, all’incirca negli stessi anni essa dovette guardarsi dall’emergere, a sinistra, della corrente dell’anarchismo individualista. Gli sforzi profusi da Fabbri nel combattere la deriva autoritaria e parlamentare del socialismo fecero il paio con quelli condotti al fine di separare l’anarchismo organizzatore (o comunismo anarchico) dalle varianti individualistiche.

Nel precedente capitolo abbiamo solamente abbozzato i termini della nascita delle tendenze individualistiche in seno all’anarchismo. In particolare, ci siamo soffermati sulle ragioni politiche, alcune delle quali endogene all’anarchismo, che hanno facilitato il sorgere e il diramarsi dell’individualismo cosiddetto anti-organizzatore. Secondo Pier Carlo Masini, tale forma di individualismo è solo una delle tre tipologie nelle quali egli divide il fenomeno

individualista140. Nel corso della trattazione proveremo a mettere in relazione

questa tipologia con le altre due: l’individualismo d’azione e l’individualismo filosofico.

Ora, per l’appunto, una sensibilità anti-organizzatrice è certamente connaturata all’anarchismo ed è presente in esso sin dalle sue origini: il rifiuto di strutture gerarchiche dotate di un centro che stabilisse la linea e, all’opposto, l’accento posto su forme di organizzazione federalistiche che lasciassero la più ampia discrezionalità pratico-programmatica alle singole realtà locali fu il punto nevralgico intorno al quale si consumò la rottura con il marxismo e informò il successivo orientamento del socialismo anti-autoritario che, per rimanere al solo contesto italiano, fu per lunghi anni incarnato dalla Federazione italiana dell’Internazionale. Un simile orientamento venne tuttavia mitigato dal richiamo sempre presente alla necessità dell’azione di massa, della dimensione associativa quale imprescindibile strumento rivoluzionario. Malgrado ciò, col tempo l’approccio eminentemente libertario che si sostanziava nel rifiuto di strutture direttive venne poco a poco estremizzato ed esaltato, al punto che nelle tarde elaborazioni di un Cafiero – che pure fu tra i leader dell’anarchismo internazionalista per così dire ufficiale e, dunque, organizzatore – il passaggio a posizioni anti-organizzatrici si fece conclamato. Nel caso di Cafiero, per altro, l’idea che l’organizzazione costituisse un ostacolo per il libero dispiegarsi del movimento rivoluzionario era dettata da necessità tattiche piuttosto che da precise esigenze teoriche: egli credeva infatti che «la creazione di circoli indipendenti l’uno dall’altro, ma tutti collegati dal fine comune dell’azione»141 avrebbe potuto spiazzare la

140 Le altre due tipologie sono l’individualismo d’azione e l’individualismo filosofico. Pier Carlo

Masini,Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta (1862-1892), p. 225 e seguenti.

141 Lettera di Carlo Cafiero al giornale Il Grido del Popolo del 4 luglio 1881, riportata da

Maurizio Antonioli, L’individualismo anarchico, in Maurizio Antonioli e Pier Carlo Masini, Il sol dell’avvenire. L’anarchismo in Italia dalle origini alla Prima guerra mondiale, Edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1999, p. 56.

repressione che negli anni Ottanta mise in grave difficoltà l’Internazionale italiana.

Per quanto subordinato e finalizzato ad esigenze di tipo strumentale, il fatto stesso che anche uno dei principali animatori dell’anarchismo – legato a doppio filo nel pensiero e nelle modalità d’azione ai Malatesta, ai Costa e ai Merlino – ammettesse una prospettiva di tal tipo è tuttavia indicativo del consenso che talune posizioni stavano acquisendo presso strati sempre più ampi dei militanti anarchici.

Unitamente a ció, non si deve dimenticare che, chiusa di fatto l’esperienza della Prima Internazionale dopo i fallimenti dei tardi anni Settanta, il decennio successivo fu caratterizzato dall’assenza di un’organizzazione capace di conferire stabilità al campo anarchico e di indirizzare il suo operato lungo percorsi programmaticamente chiari e definiti. In un simile vuoto, il principio genericamente anti-organizzatore proprio dell’anarchismo si cristallizzò via via in corrente specifica in seno al movimento e finì per assumere crescente importanza la propensione al gesto isolato. I due momenti – quello teorico delle riflessioni intorno a nuove ipotesi verso le quali orientare l’anarchismo e quello storico determinato dalla crisi del vecchio impianto internazionalista – concorsero a favorire il propagarsi di una corrente che, in qualità di frazione politicamente attiva, era stata sin lì sostanzialmente inesistente.

Sempre nel capitolo precedente abbiamo accennato alla stagione del terrorismo, del gesto violento ed estemporaneo che tante volte è stato l’esito dell’esasperazione – e, va detto, della frustrazione – degli individualisti che avevano rifiutato ogni opzione di intervento politico organizzato e di massa. Questa corrente viene chiamata da Masini «individualismo d’azione». Benché non si possa tracciare una linea di discendenza diretta tra l’individualismo Tra i vecchi internazionalisti che, oltre a Cafiero, avanzarono idee ascrivibili al campo individualista, ricordiamo di nuovo il già citato Celso Ceretti.

anti-organizzatore e l’individualismo d’azione è difficile negare che i postulati del primo, portati alle loro estreme conseguenze, costituirono i presupposti dai quali prese le mosse il secondo. D’altro canto, come detto, il passaggio dall’anarchismo che insisteva sulla bontà dell’assenza dell’organizzazione all’affermazione dell’urgenza del gesto esemplare non fu inevitabile né automatico: molti furono gli anti-organizzatori che sfogarono la propria ansia di rivolta nella propaganda e nella semplice attesa di una rivoluzione continuamente percepita come imminente e che non si abbandonarono alla pura violenza. Altri, al contrario, reagirono alle brucianti sconfitte degli anni precedenti e all’avvertita necessità di pervenire ad una qualche concreta affermazione politica mettendo in campo forme di «violenza giustiziera». Così, rifiutati il lavoro di organizzazione, l’elaborazione di un programma politico unitario, la presenza all’interno di strutture sindacali e operaie, agli individualisti non restò che indirizzarsi verso l’atto individuale – eclatante e improvviso – inteso come vero fulcro della lotta rivoluzionaria. Fu in questo modo che individualismo anti-organizzatore e individualismo d’azione si saldarono in un’unica corrente anarco-individualista.

Di qui la stagione della violenza individuale, degli omicidi e delle bombe. Gli anarchici italiani, lo si è visto nel caso di Passannante e degli attentati di Firenze e di Pisa, anticiparono la tendenza al gesto individuale che prese piede in tutta Europa tra gli anni Ottanta e, soprattutto, durante i primi anni Novanta.

La scia di sangue fu drammaticamente lunga e impossibile da riportare con dovizia di particolari. Tra i fatti più eclatanti, nel 1881 militanti della Narodnaja Volja presero d’assalto il corteo imperiale uccidendo a Pietroburgo lo zar Alessandro I e compiendo una strage tra i partecipanti all’evento; in Austria Herman Stellmacher e Anton Kammerer, accusati di avere ucciso numerosi agenti di polizia, vennero impiccati nel 1884; in Germania Federico Augusto

Reinsdorf, responsabile di un fallito attentato dinamitardo ai danni di Guglielmo I, fu decapitato nel 1885; durante una manifestazione a Chicago, nel 1886, diversi poliziotti caddero in seguito all’esplosione di una bomba e cinque anarchici furono condannati all’impiccagione142.

In Italia, grosso modo negli stessi anni, spiccò tristemente la figura di Achille Vittorio Pini, ex litografo ed ex pompiere originario di Reggio Emilia ed emigrato a Parigi ove cosituì una banda di svaligiatori che per anni finanziò un gruppo anarchico intransigente. A metà strada tra la delinquenza comune e l’azione politica, ricordiamo la figura di Pini in quanto può essere considerato un esempio emblematico del livello di virulenza a cui giunse il variegato movimento individualista. Contrario alla proposta di creazione di un’unione progressista dei popoli latini lanciata da Amilcare Cipriani al fine di scongiurare una guerra tra Francia e Italia che la politica francofobica di Crispi sembrava far presagire, Pini tentò di uccidere, pugnalandolo, Celso Ceretti – colpevole di aver accolto favorevolmente la proposta di Cipriani – e il suo secondo obiettivo sarebbe dovuto essere Camillo Prampolini, ma prima di poter portare fino in fondo i suoi piani Pini venne bloccato dalla polizia. Facendo fuoco sugli agenti, egli riuscì a sfuggire all’arresto e riparò in Francia. Qui fu infine arrestato nel 1889, condannato a venti anni di lavori forzati dalla giustizia transalpina, a trenta in contumacia dai tribunali italiani e a dieci da quelli belgi. Tradotto alla Cajenna, vi morì nel 1903. Se ci siamo un poco dilungati a ripercorrere la vicenda di Pini è perché essa fornisce la misura dell’esasperazione, dell’irrazionalità e della brutalità fratricida a cui taluni anarco-individualisti pervennero negli anni di cui trattiamo.

Gli episodi ricordati, insieme ad una nutrita messe di fatti minori, si ispiravano tutti ai princìpi dell’individualismo e, al contempo, servirono da

142 Furono questi i “martiri di Chicago”, in onore dei quali il socialismo internazionale decise di

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