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L’Italia tra XIX e XX secolo Economia, società, politica, idee

I. Il contesto economico e sociale

I.I Agricoltura

La prima affermazione da cui procedere è che l’Italia, negli anni successivi all’unificazione, era un paese essenzialmente contadino. Secondo il censimento del 1861, l’Italia contava 21 770 334 abitanti (escluse Roma e Venezia), di cui 16 284 833, il 75% circa, venivano definiti quale popolazione

rurale3. Dieci anni più tardi, nel 1871, «l’industria occupava circa il 22% della

popolazione attiva, rispetto al 58% impiegata nell’agricoltura»4. Ancora nel

1881, la quota di popolazione occupata nell’agricoltura ammontava al 59%. Nel 1911 la cifra era solo di poco inferiore: 55%5. Oltre alla quantità che i dati

esprimono, non meno importante è la qualità del sistema agricolo italiano. Tra la metà e la fine del secolo XIX, infatti, l’agricoltura visse una fase tormentata, in cui le poche spinte in avanti non riuscivano a compensare le grandi sacche di arretratezza. Le innovazioni e le trasformazioni tecnologiche e produttive latitavano, concentrandosi soprattutto in talune, limitate zone del paese. Le colture foraggere erano praticate soltanto nella bassa Lombardia e nelle pianure piemontesi; in molte aree vi era penuria di concime animale, mentre i concimi chimici, che nel resto d’Europa prendevano ad essere sempre più massicciamente utilizzati, erano da noi del tutto sconosciuti.

Un simile stato di cose era ulteriormente aggravato da una perdurante emorragia di capitali e da un loro errato impiego: essi erano infatti sovente prestati ad usura, utilizzati per acquistare titoli di Stato oppure obbligazioni ferroviarie. I ricchi proprietari terrieri sceglievano infine di indirizzare i pochi capitali rimanenti al possesso di nuove terre piuttosto che investirli in migliorie strutturali e di processo.

3 I dati relativi al censimento del 1861, di cui più avanti torneremo a servirci, sono tratti da

Nello Rosselli, Mazzini e Bakunin, Einaudi, Torino 1997, pp. 28-29. Gli stessi sono stati a loro volta estrapolati da Statistica del Regno d’Italia. Popolazione. Parte I: Censimento generale (31 dicembre 1861).

4 Aurelio Lepre e Claudia Petraccone, Storia d’Italia dall’Unità a oggi, Il Mulino, Bologna 2008,

p. 62. Il dato in questione è a sua volta tratto da Svimez, Un secolo di statistiche italiane, 1861-1961.

5 I dati del 1881 e del 1911 sono in Gianni Toniolo, Storia economica dell’Italia liberale

D’altro canto, come detto, vi erano fasce più avanzate che mitigavano, ma solo in parte, il quadro negativo appena tratteggiato. Dalla metà del secolo, nella bassa lombarda erano iniziate massicce opere di bonifica, le quali, in particolare dopo il 1870, attirarono ingenti capitali e produssero grossi sconvolgimenti sociali. In assenza di risorse sufficienti, l’onere delle bonifiche venne assunto dallo Stato, il cui intervento tuttavia, lungi dal migliorare sensibilmente le condizioni di vita della popolazione, finì col favorire i proprietari terrieri che godettero dei frutti di quelle bonifiche. Infatti, mentre sulle casse pubbliche gravava il peso di questi investimenti, ai proprietari andarono i profitti che, dopo i lavori di prosciugamento, la terra iniziava a generare.

Tra le altre innovazioni, sempre nella valle del Po venne ampliata la coltivazione del riso, anche grazie alle prime idrovore a vapore. Così nel Pavese, nel Polesine, nel Bolognese, nel Mantovano e nella bassa Reggiana vi fu un notevole incremento delle superfici coltivate a riso. Ciò garantì forti profitti, dovuti al costante aumento del prezzo del cereale e all’ampia disponibilità di manodopera a basso costo.

Attorno alla prima metà degli anni Ottanta, tuttavia, la crisi agraria iniziò a far sentire i propri effetti sul sistema italiano e raggiunse il suo apice tra il 1884 e il 1888, finendo col confondersi da questo anno in poi «con una crisi che investì tutti i rami dell’economia italiana e che raggiunse la fase più acuta nel 1893-18946». Tale crisi, che produsse il crollo del prezzo del grano e di altri

cereali, se al Nord determinò una grave disoccupazione nelle terre messe a risaia e nelle coltivazioni cerealicole, ebbe effetti ancora più gravi nel Meridione, la cui situazione di arretratezze e miseria era già di per sé penosa. Al Sud la conduzione prevalentemente latifondistica dell’agricoltura

6 Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VI. Lo sviluppo del capitalismo e del

sopravviveva da secoli e tale anacronismo veniva ora acuito dalle decisioni prese dal nuovo Stato. Sul piano delle politiche agricole, infatti, lo Stato giocò un ruolo ambivalente. Da un lato, esso fu negligente ed evitò di intervenire. La nuova classe dirigente, ignara delle condizioni che caratterizzavano il Mezzogiorno, mancò di prendere provvedimenti politico-economici tali da favorire la parte più arretrata d’Italia e la sua integrazione nell’economia nazionale.

Anche sotto l’aspetto pratico, inoltre, l’operato del nuovo organismo si contraddistinse per l’inazione: non furono introdotte innovazioni tecniche di rilievo, le bonifiche e le irrigazioni vennero trascurate e così pure le infrastrutture rurali, le foreste lasciate a se stesse, le terre infestate da paludi e malaria non furono oggetto di intervento. D’altro canto, invece, sotto l’aspetto fiscale, lo Stato, animato dall’ideologia liberoscambista, introdusse in tutti i territori di recente annessione la tariffa doganale sarda, la quale, se per un verso favorì i grandi proprietari terrieri siciliani e settentrionali produttori di cereali, all’opposto assestò all’agricoltura meridionale un durissimo colpo, in quanto quest’ultima, endemicamente miserevole e bisognosa di interventi di ammodernamento, non poteva sostenere un regime di libero mercato. Questa doppia, contraddittoria partita giocata dallo Stato – un combinato di inazione e ideologia del laissez faire – è stata da taluni interpretata quale sfruttamento di tipo coloniale teso a favorire le nascenti industrie del Nord a scapito del Meridione. Comunque la si voglia leggere, lungi dal farsi carico del grave problema di un’Italia divisa in due, l’atteggiamento dello Stato ebbe un ruolo attivo nell’acuire le già sensibili disparità tra le condizioni delle due aree e, così facendo, rafforzò le basi di quella «questione meridionale» che, nei decenni successivi alla fondazione del Regno, tanta parte giocò nell’attecchimento sia del fenomeno del brigantaggio che della cosiddetta

questione sociale, ossia della penetrazione delle idee socialiste e internazionaliste anzitutto, appunto, nelle terre meridionali.

Le sopracitate componenti strutturali dell’economia agricola italiana non potevano non riverberarsi sulle condizioni di vita materiali delle popolazioni rurali. Pochi dati e alcune descrizioni ci consentiranno di offrire una ricognizione sulla vita nelle campagne; una vita nella quale le classi agricole, è bene anteporlo, languivano in una tremenda miseria fatta di fame, malattie, ignoranza e analfabetismo. A proposito dello stato culturale, i numeri dipingono uno scenario disastroso: nel 1861 appena il 21,8% degli italiani sapeva leggere e scrivere o leggere soltanto. Si tratta, in numeri assoluti, di 4 774 663 su un totale di 21 777 334 abitanti. Se si escludono i bambini sotto i cinque anni, erano analfabeti il 68,1% degli uomini e addirittura l’81,3% delle donne. Questi dati relativi all’analfabetismo, come tutte le altre questioni riguardanti le condizioni della vita degli strati popolari della popolazione del Regno, si caratterizzano per il loro dualismo geografico. Proprio come abbiamo già osservato in merito alla situazione complessiva del comparto agricolo, anche nel caso della qualità della vita i contadini meridionali versavano in condizioni ancora peggiori rispetto agli omologhi del Nord. Rimanendo all’analfabetismo, infatti, a fronte di dati che tendono ad abbassarsi al Centro e al Settentrione, nella Sicilia del 1861 l’86% degli uomini e il 95% delle donne era affetta da analfabetismo.

Venendo al regime alimentare, l’alimento fondamentale era il pane nero, quello bianco essendo considerato un privilegio. Insieme al pane, gli alimenti più consumati erano il riso, i fagioli, il pane, la pasta e, soprattutto al Nord, l’economica polenta. La carne, invece, era un miraggio per la stragrande maggioranza dei contadini. Per di più, per assicurarsi un tanto magro vitto, le famiglie contadine impiegavano la maggior parte del proprio reddito. In taluni casi, i costi necessari all’alimentazione raggiungevano i nove decimi del

reddito7. Com’è ovvio, abitudini alimentari simili generavano malattie. Su tutte,

la pellagra, che dipendeva direttamente da carenze vitaminiche dovute ad una dieta a base di amidi. Nel solo 1881 ne furono segnalati più di 100 000 casi. Alla pellagra si associava una forte presenza della malaria e delle febbri, spesso incurabili. La denutrizione generava dunque malattia e morte. Un tragico destino dal quale nessuno, nelle campagne, poteva dirsi completamente al sicuro e che si riassumeva in una speranza di vita alla nascita che all’inizio degli anni Ottanta era di 35,4 anni8. Tuttavia, i più esposti

alle nefaste conseguenze della miseria erano le fasce più deboli, ossia, in primis, i bambini. La mortalità infantile era altissima: intorno agli anni dell’unificazione, su mille bambini nati vivi, ben 223 morivano entro il primo anno di vita; verso il 1880, la cifra scese solo di poco e si attestava a 2019.

Gli stessi, drammatici effetti producevano le degradate condizioni abitative. Le case erano più simili a tuguri, a capanne e baracche che a vere e proprie abitazioni. Le famiglie contadine, spesso numerose, erano costrette a vivere in ambienti angusti e malsani, poco illuminati, umidi, privi di soffitti e di pavimenti, esposti alle intemperie. I letti, che sovente erano giacigli di paglia, erano sovente condivisi con il bestiame.

È infine importante sottolineare che lo Stato poco o nulla conosceva di questa situazione di estrema miseria. I principali esponenti delle forze politiche istituzionali negavano persino che vi fosse l’esistenza di una qualche questione agraria. I primi a tentare di far luce sulle condizioni di vita della popolazione contadina furono i conservatori riformisti Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, i quali nel 1876 portarono a compimento una ricerca sulle condizioni dell’agricoltura in Sicilia e fecero chiarezza sulle tante zone

7 Il dato è riferito da Gianni Toniolo,cit., p. 59. 8 Ibidem.

d’ombra poco sopra ricordate. La ricerca venne pubblicata nel 1877, anno nel quale anche le istituzioni statali si resero conto che il problema agrario non poteva più essere ignorato. Risale infatti a quell’anno l’avvio dell’inchiesta parlamentare intorno alle condizioni dell’agricoltura e dei contadini. La presidenza dell’inchiesta, la quale terminò nel 1885 e i cui risultati vennero pubblicati in ben quindici volumi, venne affidata a Stefano Jacini. Fu lo stesso Jacini, nel 1881, nel Proemio agli atti dell’inchiesta, a descrivere l’agricoltura italiana come «un ammalato cronico e canceroso». Da più parti, a quell’epoca, giungevano ormai richieste di riforma e di miglioramento. Lo spettro del socialismo, che era già penetrato presso gli strati inferiori della popolazioni, rendeva ancora più accorate quelle richieste.

A fronte di un quadro d’insieme sostanzialmente stazionario, quando non decadente, non possono sorprendere i dati che, con la freddezza dei numeri, rendono plasticamente la situazione dell’agricoltura dei decenni interessati. Nei trentacinque anni successivi all’unificazione, infatti, la produzione agricola crebbe molto lentamente. Se, sulla scorta dei dati ISTAT riferiti da Toniolo, si considerano i quinquenni 1861-65 e 1896-1900, si osserva che il dato di crescita medio annuo fu pari allo 0,4%. Sulla base di simili dati, risulta inoltre che la produzione nazionale di derrate alimentari non riusciva a soddisfare il tasso di incremento demografico, il quale, nel medesimo periodo, sia attestava sullo 0,7%10. Un peso certamente decisivo fu giocato dalla crisi

agraria che scoppiò in tutto il mondo verso la seconda metà degli anni Settanta in conseguenza della messa a coltura delle terre vergini americane; la qual cosa fece precipitare i prezzi dei prodotti cerealicoli in generale e del frumento in particolare. In Italia ciò produsse una dinamica complessa che operò in più direzioni. Anzitutto, diminuì la resa del frumento per ettaro. Molti agricoltori, infatti, decisero di destinare alla coltura del frumento solo i terreni

meno buoni, dedicando invece ai terreni più fertili coltivazioni maggiormente remunerative quali foraggi, patate, canapa e riso al Nord e viti, ulivi e agrumi nel Mezzogiorno. Ad un livello più ampio, ciò si accompagnò ad una sensibile diminuzione della produzione di frumento, mentre, ad una sfera ancora superiore, il prodotto agricolo lordo negli anni della crisi, tra il 1876 e il 1887, rimase praticamente invariato11. Il deterioramento del quadro agricolo

italiano, dunque, si manifestò nonostante l’introduzione del dazio protettivo, misura decisa dal governo nel 1887. A proposito dell’introduzione dei dazi protettivi, è qui d’uopo fare una digressione in quanto l’opzione protezionistica consente di far luce sulle dinamiche economiche che in quegli anni si sviluppavano in Italia. Affrontare l’argomento ha inoltre una funzione propedeutica rispetto ai temi che tra poco affronteremo in merito alla situazione industriale e finanziaria del paese.

Si è detto della pesante crisi agraria che colpì l’Europa nel corso degli anni Settanta. L’Italia, non ancora del tutto inserita nel sistema degli scambi internazionali, venne investita dalla crisi verso la seconda metà del decennio successivo. I contraccolpi per affittuari, proprietari, salariati e, nel complesso, per tutti quanti vivevano di agricoltura, furono durissimi. A fare le spese maggiori della crisi furono soprattutto i produttori cerealicoli, presenti principalmente al Nord, inseriti nel mercato e, dunque, più esposti alla concorrenza capitalistica internazionale. Nel Sud, invece, dove la coltivazione del grano si indirizzava essenzialmente al consumo e non tanto alla vendita, gli effetti del protezionismo sulla produzione cerealicola furono trascurabili – eccetto che per i consumatori, i quali videro aumentare il prezzo del grano e del pane. Di più, nel Meridione le colture prevalenti e più pregiate erano quelle della vite, dell’olivo e degli agrumi, prodotti che prosperavano grazie all’esportazione e che, pertanto, non erano interessati alle tariffe protettive.

Inoltre, non solo i produttori agricoli, ma anche taluni settori della nascente industria quali il tessile e il siderurgico – in gran parte presenti al Nord – premevano sulla classe politica affinché fossero accolte le richieste di introduzione di alti dazi doganali. Inseriti in un contesto internazionale globalizzato, posti in una posizione di partenza sfavorevole in quanto, rispetto ai grandi paesi europei e agli Stati Uniti, l’industria italiana appariva in ritardo e priva dei capitali e della tecnologia necessari alla concorrenza imposta dal mercato e, pertanto, bisognosi perlomeno di tariffe che garantissero loro la predominanza sul mercato interno, da tempo gli industriali chiedevano che lo Stato proteggesse i loro prodotti. Diversi grandi proprietari terrieri si pronunciarono a favore di tariffe protezionistiche che aiutassero gli industriali, a patto che privilegi simili venissero accordati anche ai prodotti agricoli. In un primo momento, sostenitori del protezionismo furono gli agrari settentrionali, ma in seguito anche i produttori di cereali meridionali si accodarono. Fu l’inizio di un’alleanza pericolosa tra agrari e borghesia industriale. Una delle motivazioni più utilizzate ai fini di dimostrare i miglioramenti che le misure protezionistiche avrebbero prodotto sia al Nord che al Sud era l’opinione secondo la quale quest’ultimo, effettivamente penalizzato dai dazi sui prodotti manifatturieri del Settentrione, avrebbe al contrario ricevuto una compensazione mediante i dazi sui prodotti agricoli. Fu questo un grave errore di valutazione, non sempre in buona fede. Infatti, non solo la produzione cerealicola che si sarebbe avvantaggiata dal protezionismo era, come detto, diffusa in massima parte al Nord, ma tra gli altri prodotti tutelati dal protezionismo vi erano il riso, la barbabietola da zucchero e la canapa: colture che, proprio come il grano, contraddistinguevano in maniera preponderante il sistema agricolo settentrionale. Per il Mezzogiorno si trattò, insomma, di una duplice penalizzazione, vieppiù acuita dalla guerra doganale contro la Francia intrapresa da Francesco Crispi tra il 1888 e il 1890.

Nel complesso, il fenomeno più strutturale che il protezionismo ingenerò fu che i capitali vennero rapidamente distolti dall’agricoltura meridionale e indirizzati verso l’industria settentrionale. Tale dinamica ha avvalorato la tesi secondo la quale il decollo industriale italiano sia avvenuto a scapito del Meridione e abbia così, sin dalle origini, determinato una frattura tra Nord e Sud del paese12.

I due influenti gruppi di pressione – quello dei ricchi agrari e quello della borghesia industriale – attraverso un efficace lavoro che con termine odierno definiremmo di lobbying, riuscirono al fine a far convergere il dibattito politico verso le loro interessate posizioni e costituirono un solido blocco di potere all’interno della vita economica e, di rimando, politica italiana. Fu così che nel giugno 1887 il governo Depretis promulgò la legge che aumentava il dazio sul frumento da 1,4 a 3 lire per quintale (poi innalzato a 5 lire nel 1888); misura rafforzata pochi giorni dopo mediante una nuova tariffa generale pensata per regolare le importazioni da quei paesi con i quali l’Italia non aveva stipulato accordi commerciali. Questa tariffa, oltre a interessare alcuni prodotti agricoli tra i quali il caffè e lo zucchero, estese la protezione alla maggior parte dei prodotti industriali.

La definitiva svolta protezionistica, nata per favorire l’agricoltura e finita per fare gli interessi della nascente industria, rappresentò il più rilevante spartiacque nell’Italia dell’epoca. Dei suoi sviluppi, incentrati appunto sul comparto manifatturiero, tratteremo più avanti nel capitolo. Per ora osserviamo che il settore agricolo, intorno agli anni Ottanta e Novanta del secolo XIX, stentava a riprendersi dalla crisi mondiale da cui era stato investito. Un’inversione della tendenza si avrà soltanto a partire dagli ultimi anni del

12 Vi è un’ampia pubblicistica circa la questione meridionale e la connessa opera di

smantellamento della nascente industria meridionale. Tra gli altri, rimandiamo ad autori quali Giustino Fortunato, Antonio Gramsci, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Rosario Romeo, Rosario Villari, Emilio Sereni, Luciano Cafagna.

secolo, in corrispondenza allo sviluppo che investì l’intero sistema economico del paese tra la fine dell’Ottocento e la seconda metà del primo decennio del Novecento.

Nel ramo agricolo, le ragioni della crescita furono diverse e, in taluni casi, andavano di pari passo con la crescita del settore secondario. Così, lo sviluppo industriale consentì alle masse lavoratrici di elevarsi per la prima volta al di sopra del reddito di sussistenza. Poco a poco, faticosamente, aumentò la domanda interna e questa, unita al protezionismo che tutelava i prodotti nazionali, assorbiva questi ultimi, ingenerando a sua volta un circolo virtuoso che stimolava la stessa agricoltura nazionale. Sul fronte delle esportazioni, la fine della disputa con la Francia ne determinò la ripresa, mentre la stipulazione di accordi commerciali con altri paesi strappò condizioni favorevoli per gli esportatori. In secondo luogo, dai primi del Novecento, non diversamente da ciò che accadeva nell’industria – e che osserveremo nel prossimo paragrafo, allorché si discuteranno le commistioni tra industria e finanza – il capitale finanziario iniziava a penetrare anche nelle campagne.

Sospinte dal credito, sorsero, tra le altre cose, la Società delle Bonifiche Ferraresi e i Fondi Rustici, enti che profittarono degli stanziamenti indirizzati alla bonifica e al risanamento delle terre. Inoltre, le banche appoggiarono anche l’opera di industrializzazione dell’agricoltura, che si realizzò soprattutto al Nord, nella Val Padana, e che, imponendo un modello di agricoltura capitalistica di tipo moderno, aumentò la produttività delle terre. Infine, ma non meno importante, vi fu un progressivo cambiamento di mentalità che si tradusse in una maggiore attenzione verso la disciplina agraria, realizzata mediante l’istituzionalizzazione di corsi finalizzati all’insegnamento della professione e delle tecniche ad essa connesse.

In definitiva, l’agricoltura italiana a cavallo dei due secoli risentì di una discreta crescita. Secondo alcune stime, il tasso di crescita tra il triennio

1897-1899 e il triennio 1909-1911 fu del 2% annuo13. Per quanto tali stime

siano approssimative, probabilmente per difetto, «ci troviamo di fronte a una rottura di carattere epocale con gli andamenti del trentennio precedente»14.

Insomma, la politica agraria che caratterizzò l’Italia tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del secolo XX contribuì senza dubbio alla crescita del reddito e all’accumulazione. Tali effetti, tuttavia, ancora una volta, «si notano soprattutto nelle aree settentrionali del paese laddove tanto le condizioni ambientali quanto le tradizioni culturali consentono risposte positive agli stimoli provenienti dalla dogana, dal credito agevolato, dalle bonifiche»15.

I.II Industria e finanza

Grazie al supporto dei dati sopra riportati, abbiamo osservato come l’Italia che si accingeva alla propria unificazione fosse un paese prevalentemente agricolo e arretrato. Dalle cifre inerenti l’occupazione si ricava che nel 1861 solo il 27,1% degli italiani fosse attivo nel settore industriale. L’industria dava

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