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L’Italia tra XIX e XX secolo Economia, società, politica, idee

II. Il contesto politico

Se questa era dunque la situazione economico-finanziaria dell’epoca, il quadro trova una sua completezza andando ad osservare il coevo contesto politico-istituzionale.

Il 18 febbraio 1861 fu inaugurata alla Camera la prima legislatura del nuovo Stato. Meno di un mese più tardi, il 17 di marzo, fu proclamata la nascita ufficiale del Regno d’Italia. La fondazione dell’Italia unita giunse a

compimento al culmine di una variegata, talvolta contraddittoria congerie politica, intellettuale e sociale specificamente italiana nondimeno che europea e, in particolare, francese. Non è nostro compito stabilire la data d’inizio di quel processo chiamato Risorgimento, del quale l’unificazione politica della nazione non fu che il più visibile e simbolico esito. È noto che l’Italia pre-unitaria fu un’entità caratterizzata da frammentazione geografica, politica, culturale e persino linguistica. Senza scomodare la celebre citazione attribuita a Metternich, oggettivamente una tale situazione rappresentò per secoli il destino dell’Italia. Eppure il litigioso, periferico, asservito paese non era del tutto avulso dai fermenti che agitavano le più avanzate aree d’Europa. Tra queste, il complesso di idee, stimoli e ambizioni che va sotto il nome di Illuminismo fece giungere la proprio eco anche nella penisola. In particolare, per le vicissitudini storiche nelle quali si trovò avviluppata l’Italia, fu l’esperienza francese ad esercitare l’influsso principale. Prima con la Rivoluzione francese e poi con il dominio napoleonico, gli ideali democratici ed illuministici – con il loro corollario di libertà individuali, sociali e civili, di patriottismo nazionale, di laicità, di lotta ai vetusti privilegi aristocratici e nobiliari, di istituzioni rappresentative, di razionalismo amministrativo e intellettuale, di liberalismo politico, culturale ed economico – presero a circolare. Appare superfluo osservare che l’affermazione secondo la quale anche nel nostro paese penetrò lo spirito dei lumi non significa asserire che quest’ultimo permeò l’intero popolo, né tanto meno che esso venisse accolto integralmente e senza opposizioni o remore. La realtà, come abbiamo già anticipato, fu contraddittoria ed eterogenea. Il percorso cronologico che separa la Rivoluzione francese e l’invasione napoleonica dall’effettiva realizzazione del Regno è una dimostrazione di quell’iter tutt’altro che lineare. La modernizzazione del paese, avviata da sparuti despoti illuminati e vieppiù incrementata dall’opera di Napoleone, infatti, pur non subendo una completa

inversione di tendenza, risentì dei contraccolpi dell’età della Restaurazione: l’imperatore d’Austria riprese il controllo sulla Lombardia, sulla Toscana, su Venezia e i suoi territori e su buona parte dei territori emiliani; il Borbone riprese Napoli; Genova divenne dipendente del Piemonte; il papa vide restaurato il proprio potere temporale e gli aristocratici i propri antichi privilegi. Ad ogni modo, come detto, il quadro politico mutato in senso revanchista non produsse una vera e propria restaurazione delle condizioni pre-illuministiche – con l’eccezione delle istanze legate alla rappresentatività delle istituzioni.

I germi della modernizzazione erano stati ormai gettati e, seppur non generando da subito una partecipazione popolare di qualche peso, essi attecchirono presso taluni esponenti dell’élite. Una influente quanto minoritaria presenza di intellettuali andò a comporre il cosiddetto Illuminismo italiano, che sulla base di questioni eminentemente culturali si intrecciò con la sfera politica e sociale. Infatti, a fianco degli intellettuali (filosofi, pensatori, uomini di lettere e accademici) si andò formando un gruppo piuttosto consistente di riformatori moderati, uno più esiguo di radicali e, in entrambe le formazioni, si vide la presenza di figure afferenti al campo liberale.

Nel mezzo della variegata temperie che, per comodità di sintesi, chiamiamo illuministica, un altro elemento risultava decisivo. Ci si riferisce alla nascita di una moderna borghesia nazionale. In accordo con il tardo e lento sviluppo capitalistico italiano, una borghesia italiana intesa in quanto classe organica differenziata rispetto alle due classi rappresentate dall’aristocrazia e dalla plebe, si andò formando alcuni decenni dopo il fragoroso irrompere del terzo stato sulla scena politica. Eppure fu proprio l’ascesa del ceto medio italiano, con i suoi interessi precipui, a fornire il nerbo per la rivoluzione italiana; la quale, intesa come processo risorgimentale, fu una rivoluzione borghese. Tra la fine del XVIII e l’inizio del secolo successivo, iniziava a divenire influente

anche in Italia il novero di coloro che, provenendo da umili origini, accrebbero il proprio prestigio mediante il successo mondano, gli affari, il commercio, la manifattura, le speculazioni di capitali. Dunque, gli interessi che in tali attività erano incorporati, spingevano la borghesia a richieste coerenti con il liberalismo economico e politico che dalla Rivoluzione francese in poi si diffondeva per l’Europa e che, per la borghesia, avrebbe significato il presupposto per la sua stessa espansione. Così, l’aspirazione all’unità nazionale significava abbattimento delle molteplici e irrazionali tariffe doganali, sviluppo e miglioramento dei trasporti e dei traffici che ad essi si appoggiavano, omogeneità dei pesi e delle misure; soprattutto, unificazione nazionale significava un unico organismo governativo e, pertanto, una semplificazione e razionalizzazione tanto amministrativa quanto operativa, entro la quale i vari interessi materiali poco sopra enumerati avrebbero potuto più efficientemente essere rappresentati e gestiti. Fu la borghesia, in definitiva, a comporre il grosso dei militanti della rivoluzione nazionale e ad imprimere ad essa, di conseguenza, la propria prospettiva. Ma a fianco alla borghesia operò anche un’aristocrazia illuminista, pregna degli ideali che provenivano da oltralpe e dall’Inghilterra. Le diffuse esperienze del giacobinismo nobiliare in Sicilia e a Napoli, sfociate nel cosiddetto liberalismo post-murattiano, stanno ad indicare un certo clima che aleggiava sulle regioni meridionali d’Italia. Nel complesso, gli anni a cavallo della Restaurazione videro la comparsa, tanto al Nord quanto al Sud, tanto tra le classi medie quanto tra la nobiltà, di gruppi di patrioti che, organizzati in società segrete, iniziarono a diffondere il verbo dell’indipendenza nazionale – dove per nazionale si devono intendere le macro-aree settentrionale e meridionale.

Il clima di effervescenza politica testé citato dimostrò sin da subito la debolezza del progetto restauratore e insurrezioni contro il ripristino dello status quo non tardarono a manifestarsi. Senza scendere nei dettagli,

ricordiamo i tumulti scoppiati a Napoli, in Sicilia e in Piemonte tra il 1820 e il 1821 e la seconda ondata di proteste che interessarono soprattutto Parma, Modena, Bologna e le Legazioni tra il 1830 e il 1832. L’ordine, come dimostrarono i continui interventi stranieri, non poté essere portato che mediante la forza delle armi, i ceti più avanzati non essendo per nulla disposti ad accettare pacificamente le disposizioni di Vienna. Ugualmente, i governi degli stati italiani si palesarono per quello che erano: poco più di governi fantoccio, dotati di scarsa legittimità e continuamente bisognosi dell’aiuto dell’Austria. In secondo luogo, non di meno, le rivoluzioni abortite del periodo 1820-1832 portarono alla luce i molti limiti delle forze liberali italiane. Forieri di piani e programmi vaghi, divisi da prospettive che oscillavano tra gradazioni moderate ad altre più radicali, impreparati e frammentati in una pluralità di organizzazioni tra loro scollegate quando non reciprocamente ostili, i gruppi riformisti sopravvalutarono le proprie possibilità di riuscita e si votarono alla sconfitta. Era ovvio, infatti, che l’approccio regionalistico nulla potesse nello scontro con una grande potenza quale l’Austria. D’altro canto, l’abbiamo visto, il concetto di nazione era esso stesso ammantato di un’accezione localistica che non andava oltre la considerazione di un paese formato da due entità nazionali, quella settentrionale e quella meridionale. Inoltre, la qual cosa essendo persino più grave, il popolo non diede alcun sostegno ai progetti dei liberali. Costituito dalle classi medio-alte, il grosso del movimento liberale italiano guardava con diffidenza ai ceti inferiori, considerati retrivi, rozzi, irrazionali e ignoranti. Questi ultimi, d’altra parte, sembravano inneggiare al ritorno dei legittimi governanti e componevano la base di massa, se così si può dire, della Restaurazione. Questi fattori spinsero i rivoluzionari a non cercare l’appoggio degli strati subalterni, inaugurando quella diffidenza verso il popolo inteso quale attore politico che alcuni anni

più tardi, come vedremo, sarà per la prima volta messa in discussione e, anzi, ribaltata dalla dottrina della variegata galassia del socialismo.

Se le sommosse sopra ricordate sono forse un capitolo marginale della storia risorgimentale italiana, di tutt’altro segno è il ciclo rivoluzionario che si aprì tra il 1848 e il 1849 e si concluse vittoriosamente negli anni Sessanta. I fatti del periodo sono noti e riproporli con dovizia di particolari non è compito nostro. Alcuni temi che emergono in quegli anni, tuttavia, rientrano tra gli snodi cruciali che in questa parte introduttiva riteniamo di non dover tralasciare in quanto portatori di alcune delle caratteristiche principali dell’Italia unita.

Tra queste, il ruolo decisivo svolto dal Piemonte nel processo di unificazione nazionale pose qui le sue basi. Fino al 1848-49, infatti, il re di Sardegna Carlo Alberto era noto per le sue posizioni reazionarie e il suo regno per essere uno dei più oscurantisti tra gli stati italiani. In quale modo, allora, il Piemonte divenne il motore della rivoluzione nazionale? E come si spiega il sostegno che un uomo come Carlo Alberto diede alle sommosse contro gli austriaci nel biennio 1848-49? Si è detto della distanza che intercorreva tra il sovrano e gli ideali dell’Illuminismo. Per comprendere la ragione che spinse il Piemonte ad entrare in guerra contro l’Austria si deve allora fare ricorso ai calcoli che, frutto del realismo politico del monarca, mossero quest’ultimo ad un passo tanto importante. Consapevole del ruolo storico di potenza, per così dire, minore ricoperto dal Piemonte – un ruolo che si inseriva in un complesso gioco di equilibri che riguardavano le potenze straniere e, di rimando, gli assetti interni del paese – Carlo Alberto adottò una politica coerente con le ambizioni espansionistiche del suo regno. Sostenere o avversare determinate rivendicazioni, allearsi o divergere dalle mire dell’ingombrante Austria erano dilemmi che trovavano risposta nel complessivo quadro programmatico del Piemonte, finalizzato ad accrescere il proprio potere e la propria influenza.

Per questo motivo, ossia nel tentativo di estendere la sovranità sabauda sull’intero Nord Italia, quando il Lombardo-Veneto insorse contro l’occupante straniero, il re decise di mobilitare le sue truppe a sostegno dei rivoluzionari e – temendo i democratici più del potere straniero – di ammantare la loro rivolta di tinte monarchiche. Il re, d’altro canto, osservava con timore crescente l’avanzata delle plebi più ancora che il ritorno dell’imperatore austriaco, essendosi in un momento storico in cui, in molte zone d’Europa, iniziava a soffiare il vento della questione sociale. Ma così come il progresso capitalistico aveva solo iniziato a lambire l’Italia, l’impreparazione del popolo si era inevitabilmente accompagnata all’assenza di strutture politiche e organizzative autonome e diffuse. Le masse popolari entrarono non sempre con piena coscienza nei fatti del biennio, esprimendo un malcontento viscerale più che un progetto politico preciso. La sconfitta piemontese a Custoza e la capitolazione del re, lasciando soli i rivoluzionari italiani, li condannò alla sconfitta. Ad ogni modo, le plebi erano entrano tumultuosamente entrate nella storia e lo spettro del socialismo aleggiava sulle nazioni e tra le stanze dei governi. Molti di questi, infatti, si trovarono a concedere, sia pur in forme mitigate, molte delle richieste degli insorti d’Europa.

Nel tumultuoso intreccio delle vicende poc’anzi accennate, una figura di spicco fu quella di Camillo Benso, conte di Cavour. Benché questi non rientri tra gli elementi strettamente legati al tema portante della trattazione, egli, giunti ormai gli anni della fondazione del Regno d’Italia, costituisce un tassello prezioso per la comprensione delle fondamenta sulle quali venne eretto il nuovo stato. All’indomani dell’unificazione, infatti, i dibattiti intorno a quale forma e sostanza conferire al nuovo organismo presero gioco forza l’impellenza della necessità oggettiva. Vittorio Emanuele II divenne re d’Italia e lo Statuto albertino venne assunto quale legge fondamentale. Quest’ultimo

conferiva alla monarchia un potere molto esteso: il re era capo dello Stato, comandante di tutte le forze armate, aveva il diritto di nominare tutte le cariche dello Stato, era responsabile della politica estera, promulgava le leggi e deteneva il potere esecutivo. Il potere del sovrano ricadeva anche, limitandola, sull’autonomia del parlamento in quanto anch’esso era soggetto al re, costui avendo facoltà di sciogliere le Camere. Il governo, per converso, non abbisognava della fiducia parlamentare, ma doveva rispondere del suo operato soltanto al re. Edificata su queste basi, la neonata casa comune nazionale dovette affrontare l’opposizione di più parti: i clericali della Destra, galvanizzati dall’intransigente chiusura del Vaticano verso il nuovo regno, erano contrari al fatto che il monarca, il quale avrebbe dovuto essere tale per grazia divina, si fosse abbassato a ricevere l’investitura popolare; i democratici, radicali e repubblicani, osteggiavano la preponderanza della monarchia, convinti che fosse invece necessaria una forma statale repubblicana e, appunto, democratica; i politici meridionali, indispettititi e risentiti da una tale “piemontesizzazione” dell’Italia che poco o nulla teneva conto delle specificità regionali e locali – e i cui nefasti effetti abbiamo osservati discutendo di economia e politiche fiscali.

A quest’ultimo aspetto va ascritta inoltre la questione del centralismo. Completata l’unificazione, il primo problema che si pose alla classe dirigente riguardava la scelta tra centralismo e decentramento. Nonostante fossero contrari all’opzione propriamente federalista, democratici e moderati, tra i quali Cavour, avevano sempre visto di buon occhio le tipologie di self-government di tipo britannico e ritenevano opportuno introdurre anche in Italia forme di governo decentrate, attente alla salvaguardia e alle peculiarità delle autonomie locali. Ma dai cieli dell’ideologia alla dura concretezza delle immediate condizioni post-unitarie, tale prospettiva cambiò rapidamente. Sorpresi dal perdurare di un gran numero di localismi e

particolarismi, le istanze favorevoli al decentramento vennero in breve tempo derubricate e in loro vece venne percorsa la strada opposta: verso la fine del 1861 Bettino Ricasoli, succeduto a Cavour, emanò una serie di decreti che orientarono l’amministrazione statale verso un modello fortemente accentrato. La legge sarda sull’ordinamento provinciale e comunale fu dunque estesa a tutto il paese; l’Italia fu divisa in 59 province e a capo di ciascuna fu posto un prefetto di nomina regia, il quale divenne una figura centrale del nuovo ordinamento. La centralizzazione amministrativa, com’è piuttosto ovvio, si accompagnò alla creazione di una burocrazia gerarchizzata che

si intrecciava con un elemento negativo, connesso col carattere oligarchico dl nuovo stato e con la sua politica conservatrice. Esso consisteva in un’opera sistematica di tutela e di soffocamento della vita politica locale, in un intervento assiduo e minuzioso che trasformava costantemente e in modo sistematico il rappresentante dello stato nel rappresentante del governo e il rappresentante del governo, a sua volta, nell’esecutore della volontà del partito al potere28.

Non desta meraviglia il fatto che un fenomeno quale l’appoggio popolare al brigantaggio meridionale derivasse proprio dal malcontento per un simile stato di cose. Le classi subalterne del Mezzogiorno avevano assistito ad una rivoluzione politica che, ai loro occhi, aveva semplicemente sostituito una nuova classe di potenti a quella precedente, ma non si era spinta verso una rivoluzione sociale che mutasse nel profondo, strutturalmente i rapporti di forza tra le classi e nel paese. Anche il socialismo, che in Italia, lo ripetiamo, attecchì inizialmente nella sua versione anarchica e mise radici anzitutto nel Meridione, faceva della questione delle autonomie e, in definitiva, della

libertà – oltre che, ovviamente, dello sfruttamento economico e sociale – la propria principale parola d’ordine.

In questo contesto, si diceva, la personalità di Cavour si erse a perno dell’assetto politico post-unitario, ricoprendo quel ruolo di assoluto rilievo che già aveva svolto nel governo piemontese. Liberale moderato, conoscitore ed estimatore delle moderne correnti del pensiero liberoscambista inglese non meno che dei dibattiti illuministici francesi, accorto e al contempo spregiudicato qualora le circostanze lo richiedessero, Cavour fece il suo ingresso sulla scena politica intorno al 1848, divenne ministro nel 1850 e dal 1852 al 1861 fu quasi ininterrottamente primo ministro. Convinto che il Piemonte dovesse allinearsi alle grandi potenze occidentali, egli vi introdusse riforme economiche e civili: potenziò la rete ferroviaria, fondò un istituto di credito che agevolasse le esigenze dell’industria, ridusse le immunità ecclesiastiche e le tariffe doganali, riformò i codici e, insomma, lavorò affinché il Piemonte divenisse l’alfiere della modernizzazione del paese e, agli occhi delle nazioni europee, l’esperimento su scala ridotta di quello che avrebbe potuto essere la nuova Italia. D’altro canto, egli non era affatto convinto della reale fattibilità dell’unificazione e, anzi, guardava con preoccupazione al repubblicanesimo rivoluzionario coevo. Di più, l’inquietudine che quest’ultimo generava in Cavour superava di gran lunga il suo desiderio di unificazione nazionale. Pragmatico e poco o punto di sincere inclinazioni democratiche, Cavour temeva che le insurrezioni dei repubblicani potessero incrinare i suoi buoni rapporti con la Francia, dai quali dipendeva il predominio piemontese. Come molti moderati, la sua visione di un’Italia unita presupponeva una diretta continuità con il Piemonte e con la monarchia, mentre il suo rapporto ambiguo con le frange democratiche – talvolta appoggiate e in altri casi osteggiate o addirittura denunciate presso gli occupanti austriaci – testimoniava la volontà di agitare lo spauracchio dell’estremismo al fine di

convincere le potenze straniere ad accettare quella rivoluzione conservatrice che egli stesso aveva in mente. I fatti del 1860 ne furono illuminante esempio. Cavour tentò infatti di impedire che Garibaldi conquistasse il Regno delle Due Sicilie e, non potendo evitarlo, operò abilmente per depotenziare da un lato l’iniziativa repubblicana e, dall’altro, mirando a riaffermare il prestigio sabaudo, lavorò affinché i nuovi territori fossero annessi sotto l’egida piemontese e moderata.

La statura intellettuale e il peculiare realismo politico con il quale gestì il potere, fecero di Cavour l’ago della bilancia all’interno del variegato quadro politico italiano coevo. Inoltre, le modalità con le quali egli esercitò il proprio compito posero le basi per la successiva vita politica del Regno. Già a partire dal 1852, infatti, egli era stato il fautore del connubio che aveva sancito l’alleanza tra il suo Centrodestra e il Centrosinistra di Urbano Rattazzi. La pratica di costituire ampi governi di coalizione che, tagliando le forze estreme cosiddette anti-sistema, garantissero stabilità al sistema, iniziata con Cavour, divenne in seguito una prassi consolidata. In nome della governabilità e di un indefinito interesse nazionale – per altro coincidente in larga misura con gli interesse del blocco sociale di riferimento dei moderati e con le mire della corona – le maggioranze parlamentari comprendevano gruppi eterogenei che, mediante compromessi di piccolo cabotaggio, stavano insieme sulla base di legami deboli quando non palesemente consortili. Se una simile tattica garantiva un relativo equilibrio, non di meno essa inaugurava

la consuetudine di basare il potere su alleanze mutevoli all’interno di un’amorfa maggioranza parlamentare», in un con testo nel quale «I partiti erano perlopiù clientele organizzate intorno a vari patroni [...] La vita politica si fondava così non tanto su dei

princìpi quanto sugli individui, e la storia parlamentare consisteva in una serie di passaggi individuali da un campo all’altro piuttosto che in lotte di partiti29.

Per questa via, in nome della continuità del sistema, vennero sacrificati sia la formazione di moderni partiti di massa (semplificando, un partito della borghesia e un partito del proletariato), sia un’opposizione parlamentare organizzata. Così, benché le capacità di Cavour fossero state in grado di riunire tendenze centralizzatrici (Ricasoli) e decentralizzatrici (Minghetti e Farini), uomini della Destra cattolica (Jacini) e della Sinistra anticlericale (Rattazzi), fautori del controllo dello Stato sulla Chiesa (Sella) e di una libera Chiesa in un libero Stato (Lanza), egli non riuscì, d’altro canto, a trasferire stabili maggioranze ai suoi successori. Morto improvvisamente Cavour, infatti, i governi successivi proseguirono tanto gli indirizzi programmatici avuti in eredità quanto le tattiche impiegate per tradurli in pratica, ma se ciò andò

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