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Le Comunità e la nascita del Comitato

La presenza delle comunità ebraiche sul territorio delle Penisola non era uniforme, ma concentrata nell'Italia centro-settentrionale; Roma era la comunità più meridionale vista la totale assenza di ebrei nel Sud Italia in seguito alle espulsioni del 1492. La comunità per l'ebraismo è il centro della vita religiosa e culturale, ma all'epoca delle interdizioni rappresentava anche il tramite con le autorità locali per la protezione delle attività commerciali e, nei momenti degli eccessi antisemiti, delle stessa vita degli iscritti. Le varie comunità a seconda dei momenti storici godettero di diversi gradi di libertà nell'organizzazione interna e nei rapporti con le autorità.

Con l'affermarsi del processo emancipatorio prese avvio un percorso di ridefinizione dell'identità ebraica e si sviluppò di conseguenza un intenso dibattito sulla necessità o meno di appartenere ad una comunità per poter essere riconosciuto come “ebreo”; allo stesso tempo veniva meno il ruolo di mediazione delle comunità stesse, base della tradizionale e peculiare identità di gruppo nella plurisecolare vita del ghetto caratterizzata dai soprusi e persecuzioni da parte della società maggioritaria.

La politica giurisdizionalista intrapresa dal Regno interessò la ridefinizione dell'ordinamento amministrativo delle Università. La Legge Rattazzi del 4 luglio 1857 n.2325, con la quale furono regolamentati gli organismi comunitari, si occupava anche della gestione interna delle stesse con l'imposizione dell'iscrizione e del pagamento di un tributo. Era prevista l'elezione di un Consiglio d'amministrazione da parte dei contribuenti maschi, il quale doveva essere rinnovato di un terzo ogni anno. Con l'avanzare del processo di unificazione nazionale tale ordinamento non fu esteso in modo uniforme, ma solo alle comunità di Liguria, Emilia e Marche. Una seconda tipologia di organizzazione era rappresentata dalle associazioni volontarie regolate da un regime privatistico quali erano le comunità di Roma, Napoli, Bologna, Parma e Milano che si sostenevano con oblazioni volontarie dei membri. Nel Veneto, in Toscana e a Mantova erano invece vigenti leggi che riconoscevano le università quali corporazioni pubbliche necessarie, con potere di imposizione di tributi agli appartenenti, ma godevano di ampia autonomia nella gestione interna.79

La tendenza dello Stato liberale a riconoscere la libertà religiosa e a favorire i processi di laicizzazione portò diverse comunità ad introdurre modifiche statutarie per rendere l'iscrizione 79 Ester Capuzzo, Sull'ordinamento delle comunità ebraiche dal Risorgimento al Fasciamo, in Italia Judaica IV, pp. 186-205; Stefania Dazzetti, L'autonomia delle comunità ebraiche italiane nel Novecento. Leggi, intesi, statuti, regolamenti, G. Giappichelli Editore, Torino, 2008, in particolare pp.3-33.

libera e spontanea. Questa libertà era limitata ai soli possessori di un reddito imponibile; per i poveri, che erano esentati dal versamento di un contributo, permaneva l'obbligatorietà all'iscrizione nei registri comunitari.80 In tutti i casi restavano esclusi dal ruolo di elettori, sia passivi che attivi, le famiglie che non pagavano il contributo alla comunità.

Nonostante vi fosse la volontà di rendere omogenea la legislazione e gli ordinamenti comunitari, l'estensione della Legge Rattazzi non fu appoggiata dagli organi comunitari intenti a preservare l'autonomia e il controllo delle istituzioni; non trovò neppure l'appoggio dei parlamentari poiché l'obbligatorietà d'iscrizione andava contro i principi di libertà religiosa e di pensiero.81 Vi furono diverse interrogazioni parlamentari sulla necessità di estendere o meno la Legge Rattazzi, tra le più importanti vi è quella posta nel 1910 dal senatore socialista di origine ebraica Emanuele Giuseppe Modigliani dove si evidenziava come tale normativa fosse il retaggio di un'epoca giurisdizionalista ormai finita e non rispettasse quei principi di libertà religiosa sanciti dalla Legge delle Guarentigie e ne chiese pertanto l'abolizione. La definitiva omologazione della legislazione sugli enti comunitari fu sancita solo nel 1930 con la Legge Falco.

Le modifiche legislative non furono le uniche ad interessare le comunità ebraiche, anche la geografia dell'ebraismo subì una trasformazione in seguito all'avvio del processo di urbanizzazione. Le comunità dei piccoli centri urbani iniziarono a veder ridotti i propri iscritti e a volte furono costrette a chiudere a favore di un'espansione delle comunità nelle grandi città, come nel caso di Milano e Roma o della creazione ex-novo di comunità nei grandi centri cittadini come a Napoli, dove le possibilità imprenditoriali, finanziarie, ma anche amministrative, politiche e culturali erano più elevate.82 Emblematica è la riduzione delle comunità ebraiche costituite in corpi giuridici, le quali passarono dalle 87 del 1840 alle 23 del 1931.83 Questa nuova distribuzione dell'ebraismo andò a creare dei problemi di gestione amministrativa e legale del patrimonio artistico, religioso ma anche economico delle università. La gestione dei patrimoni delle piccole comunità che stavano chiudendo e delle congregazioni collegate, divenne uno dei temi più dibattuti nella stampa ebraica e accelerò il processo di creazione di un ente centrale con lo scopo di proteggere il patrimonio non solo economico ma anche artistico e preservare le sinagoghe e i cimiteri. La tutela e la gestione del 80 Ester Capuzzo, Sull'ordinamento delle comunità ebraiche, p. 199.

81 Tullia Catalan, Ebrei e nazione dall'emancipazione alla crisi di fine secolo, in Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Marie-Anne Matard-Bonucci, Enzo Traverso (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni, Vol. I, Le premesse, le persecuzioni, lo sterminio, Utet, Torino, 2010, pp. 12-34. 82 Sergio Della Pergola, Precursori, convergenti ed emarginati. Trasformazioni demografiche degli ebrei in

Italia (1870-1945),in Italia Judaica IV, pp. 55-58.

83 Sergio Della Pergola, La popolazione ebraica in Italia nel contesto ebraico globale, in Corrado Vivanti (a cura di), Storia d'Italia Annali 11 - Gli ebrei in Italia, tomo II, Einaudi, Torino, p. 926.

patrimonio dovevano avvenire di comune accordo onde evitarne la dispersione e l'assorbimento da parte elle locali Congregazioni di carità, per aggirare tale eventualità si iniziarono a fondere le piccole comunità con quelle più grandi.84

La crisi religiosa costrinse diverse comunità a chiudere sinagoghe e ricreatori, ma anche classi scolastiche e ridurre notevolmente le spese correnti a causa dell'abbandono di diversi membri facoltosi trasferiti nelle città vicine o che ove possibile non si iscrissero più ai registri comunitari per evitare il pagamento delle tasse. Un caso emblematico risulta essere quello della comunità fiorentina la quale, sospendendo nel 1868 l'imposizione obbligatoria, si trovò costretta a rivedere il funzionamento dei servizi resi dalla comunità a causa del crollo delle entrate. Le singole comunità dovettero quindi ristrutturare i servizi e le attività in base alle nuove esigenze economiche, sacrificando spesso l'istruzione e la gestione delle sinagoghe e degli oratori, con evidenti ripercussioni sulla formazione religiosa delle nuove rigenerazioni. La legge Rattazzi, oltre ad uniformare l'ordinamento amministrativo, prevedeva di fornire un ente di coordinamento tra le varie comunità attraverso la creazione di un consorzio su base volontaria.85 Tale disposizione, basata sul modello napoleonico del Grande Sinedrio parigino, non fu applicata e andò incontro a diverse difficoltà. Come precedentemente detto, le comunità italiane erano soggette a diverse forme di legislazione e si dimostravano estremamente gelose della loro autonomia interna. I dirigenti comunitari avevano paura di perdere ulteriormente il controllo delle realtà in cui operavano, soprattutto delle piccole comunità già indebolite del fenomeno dell'urbanizzazione e dall'allentamento dei legami comunitari. La volontà di istituire un'organizzazione centrale ebraica fu all'origine dei primi due congressi che si svolsero nel 1863 e nel 1867, rispettivamente a Ferrara e Firenze, con l'intento di ottenere ascolto presso il nuovo parlamento e l'applicazione della parificazione civile degli ebrei, in particolare in ambito religioso e culturale.86 Il congresso di Ferrara fu “contraddistinto dal patriottismo e dalla fedeltà a casa Savoia, che rendevano difficili persino i contatti con i correligionari residenti nei territori della penisola dominati dagli Asburgo”.87 La conferenza volle ancora una volta confermare il patriottismo degli ebrei italiani e rimarcare il legame tra l'ebraismo italiano, il Risorgimento, e Casa Savoia. Le decisioni del Congresso preservarono l'autonomia delle singole Università e bloccarono ogni tentativo di estendere la 84 Tullia Catalan, L'organizzazione delle comunità ebraiche, p. 1273.

85 Per una ricostruzione del nascita del Consorzio e tutte le notizie relative ai vari congressi che si succedettero dal 1863 alla prima guerra mondiale si rinvia a Tullia Catalan, L'organizzazione delle comunità ebraiche, pp. 1243-1290.

86 Ivi, 1245. 87 Ivi, p. 1248.

Legge Rattazzi, si volle in particolare evitare l'obbligatorietà dell'iscrizione per quelle comunità che godevano di un regime amministrativo diverso.88 Il congresso fiorentino del 1867 vide la partecipazione delle comunità di Venezia e Padova, appena unite al Regno, ma mancarono all'appuntamento gran parte delle piccole comunità. La riunione fu caratterizzata da toni patriottici più tiepidi a causa della crescente e diffusa preoccupazione per le difficoltà nell'estensione civile dell'emancipazione, la conseguente difficoltà di integrazione per le classi più povere nonché il persistere di episodi di discriminazione. L'assemblea decise di rivolgere un appello attraverso la stampa liberale al governo, fiduciosa nel fatto che l'opinione pubblica si sarebbe schierata a favore delle istanze ebraiche, rivendicando, ancora un volta, il decisivo contributo dato alla causa risorgimentale.89

Il percorso che si era avviato con i Congressi di Ferrara e Firenze subì una battuta d'arresto in seguito all'immediata estensione dell'emancipazione agli ebrei romani subito dopo la presa di Roma; avvenimento che non fece altro che confermare la fiducia nelle istituzioni liberali e nella volontà politica di agevolare il processo di equiparazione civile.

Nel corso del 1909, in seguito alle istanze di rinnovamento culturale, e al risveglio religioso verificatosi con l'attività del movimento sionista e alle iniziative dei circoli della Pro Cultura, si accese nuovamente sulla stampa ebraica il dibattito sulla necessità di creare un ente di coordinamento a livello nazionale. Su iniziativa del Consiglio di amministrazione della Società israelitica di Milano fu convocato nel novembre del 1909 il primo congresso delle comunità ebraiche nella città meneghina.90 Il Congresso fu fortemente appoggiato dalla Federazione sionistica italiana, la quale si era prefissa come obiettivo la creazione di un ente di rappresentanza con sede a Roma che fungesse da organo per le decisioni politiche e religiose. Anche in questo caso, per non perdere la loro autonomia, le comunità minori si opposero al nuovo progetto non partecipando agli incontri e non fornendo informazioni sul loro status patrimoniale ed economico. Nuovi elementi entrarono nel dibattito, soprattutto legati a questioni di culto e ai rapporti con la società maggioritaria, che posero in secondo piano le istanze per la creazione di una rappresentanza centrale. Il secondo congresso tenutosi a Milano nel 1911 che doveva valutare il Progetto, presentato da Gustavo Rach per l'istituzione di una Federazione tra le varie comunità, incontrò ancora una volta la forte opposizione delle piccole comunità, ma anche le comunità di Roma, Firenze e Verona espressero la preoccupazione di perdere l'autonomia di cui godevano, impedendo così di trovare un accordo. Angelo Sereni, presidente della comunità romana, fu incaricato di 88 Ivi, pp. 1248-1256.

89 Ivi, pp. 1257-1265. 90 Ivi, pp. 1272-1276.

presiedere un comitato con sede nella capitale con lo scopo di creare un progetto che conciliasse tutte le posizioni espresse e accomunate solo da una politica anti-assimilazionista. Il Congresso votò la decisione di erigere un Consorzio e non un ente morale.

La vittoria della linea moderata, riuscitasi ad imporre rispetto alle istanze avanzate dalla corrente sionista, riuscì a mantenere l'autonomia delle Università ed evitare controlli finanziari sulle piccole comunità.91 Il Comitato negli anni successivi decise di evitare di prendere posizione rispetto al sionismo e di appoggiare l'opera di colonizzazione italiana in Libia attraverso l'esercizio di controllo della comunità di Tripoli, dove venne inviato un rabbino italiano, e partecipando attivamente alla redazione del nuovo statuto della comunità. Durante le Guerre balcaniche (1912-13) per la prima volta il Comitato si mosse livello internazionale in azione congiunta con le rispettive organizzazioni inglesi, francesi e austriache, nelle attività a favore degli ebrei rumeni e balcanici; attività che fu coadiuvata e sostenuta dal parlamentare Luigi Luzzatti e si concretizzò nella presentazione di un

memorandum al Congresso di Londra per la protezione degli ebrei oppressi.92

Durante i primi anni di vita, il Comitato tentò di conciliare le istanze presenti nelle diverse comunità e tra le diverse anime dell'ebraismo, permettendogli così di esser un interlocutore stabile con il Governo.93 La soluzione giuridica per l'erezione di un organo centrale fu individuata da Elia Vitale nel 1913 nella creazione di un consorzio con personalità giuridica su base volontaria. Il Congresso fu convocato l'11 e 12 maggio 1914 a Roma, dove si approvò la creazione di un ente unitario che rispettasse i fini statutari delle singole comunità. L'articolo 13 dello statuto prevedeva una centralità sostanziale della comunità romana con l'obbligo di residenza nella capitale del presidente, di uno dei due vice-presidenti e del segretario. La comunità romana che deteneva già un primato simbolico, trovandosi nella capitale del Regno ed essendo la più numerosa e antica comunità della Penisola, assunse quindi un ruolo guida. In particolare il suo presidente Angelo Sereni rimarrà presidente della comunità romana e del Consorzio fino al 1920.

91 Ivi, p. 1278. 92 Ivi, pp.1281-82. 93 Ibidem.