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La disfatta di Caporetto e l'emergenza profughi

La rotta di Caporetto segnò una svolta nella guerra italiana anche dal punto di vista delle gerarchie politiche e militari: il governo venne sostituito dal gabinetto Orlando e, alla guida dell'esercito subentrò il generale Diaz. In conseguenza dello sfondamento del fronte isontino, che comportò oltre all'invasione del suolo patrio anche la perdita di moltissimo materiale bellico e di un altissimo numero di soldati fatti prigionieri dagli austro-tedeschi, si assistette ad uno sforzo politico e propagandistico senza precedenti volto a favorire la tenuta del fronte interno e ad aumentare lo sforzo bellico per respingere i "barbari tedeschi”. L'attestazione del fronte sul Piave comportò l'esodo di centinaia di migliaia di cittadini dal Friuli e dal Veneto, i quali seguirono le truppe italiane in ritirata.1 La persistenza nella memoria collettiva e 1 Per un quadro generale sulla vicenda di Caporetto si veda Antonio Gibelli, La Grande Guerra degli Italiani (1915-1918), Bur, Milano, 2011, prima edizione 2007, cap.4 Il «miracolo» di Caporetto, pp. 251-316 e bibliografia ivi consigliata. Daniele Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari, 2006.

individuale della disfatta è riscontrabile nella costante presenza dell'episodio, periodizzante dell'esperienza di guerra, nella quasi totalità di memorie e diari che ripercorrono gli anni del conflitto.

Il fenomeno della profuganza era già stato affrontato dalla autorità nel corso della guerra, anche se per le dimensioni e le modalità fu profondamente diverso dopo Caporetto. Già nei mesi precedenti all'entrata in guerra dell'Italia, gli irredenti e i regnicoli erano stati i primi ad arrivare nel Regno dai territori della monarchia asburgica, insieme ai lavoratori italiani residenti in Germania e Francia. Questa flusso migratorio aveva trovato ospitalità, nella maggior parte dei casi, presso parenti e amici. Una seconda ondata di profughi si era poi verificata in seguito alla Strafexpedition, del maggio-giugno del 1916, quando circa 110.000 civili, in particolar modo della provincia di Vicenza, avevano lasciato le loro abitazioni senza ottenere alcuna assistenza dallo Stato, il quale aveva delegato la gestione agli organi periferici con conseguenti problemi di ordine pubblico.

Per dimensioni e impatto Caporetto rivestì un significato completamente diverso: nelle settimane seguenti all'arretramento del fronte circa 600.000 civili seguirono l'esercito in ritirata, a volte ostacolate e maltrattate dai comandi militari che predilessero e favorivano il ripiegamento delle truppe a discapito di quello dei civili. La scelta tra la possibilità di partire e quella di rimanere fu presa non solo a livello individuale o familiare, ma anche comunitario. Le motivazioni di chi decise di rimanere furono diverse: gli anziani e gli infermi rimasero perché non in grado di affrontare un così lungo viaggio; altri si fermarono per assistere proprio queste categorie; e una terza componente decise di restare per proteggere le proprietà, sperando in un trattamento dignitoso da parte dell'esercito austriaco.2 Una speranza che però non trovò, nella stragrande maggioranza dei casi, un riscontro: numerosi furono gli stupri, le requisizioni e i soprusi che le popolazioni friulana e veneta dovettero subire dagli invasori fino alla controffensiva italiana dell'autunno successivo. Il “corpo violato” della donna, divenne il simbolo dell'invasione Patria, e unito alle notizie provenienti dalle zone invase, fu al centro di una massiccia, costante e penetrante azione di propaganda contro il nemico a favore dell'unità nazionale.3 Durante e dopo l'occupazione molti di coloro che avevano deciso di non partire, in particolar modo i parroci, furono accusati di essere “austriacanti”, e di aver sostenuto lo sforzo bellico del nemico.4

La disfatta ebbe anche ripercussioni sull'immaginario collettivo nazionale, segnato dalla più 2 Daniele Ceschin, op. cit., p.16.

3 Nicola Labanca, Camillo Zadra (a cura di), Costruire un nemico. Studi di storia della propaganda di guerra, UNICOPLI, Milano, 2011; Angelo Ventrone, Il nemico interno. Immagini, parole e simboli della lotta politica nell'Italia del Novecento, Donzelli, Roma, 2005.

grossa sconfitta dell'esercito italiano durante la Grande Guerra. L'arrivo dei profughi venne inizialmente accettato, anzi favorito, dalla popolazione della penisola e dalle autorità locali, felici di dimostrare in tale modo lo sforzo patriottico e la volontà di sostenere le popolazioni private delle loro case e scappate di fronte all'avanzata del nemico. In tutto il Regno si formarono comitati locali e furono indette sottoscrizioni per soccorrere i profughi.5 Da molti fu vista come la grande occasione di completare il processo di nazionalizzazione, gli italiani avrebbero avuto modo di conoscersi attraverso questa migrazione interna imposta dagli avvenimenti e di dare vita a da un'”unione sacra” per difendere la Patria.6 Tale atteggiamento mutò nel corso delle settimane e dei mesi successivi, quando la difficoltà degli approvvigionamenti, i razionamenti e le emergenze sanitarie e abitative divennero in molte città, e soprattutto nel sud Italia, insostenibili sia per i profughi, sia per gli abitanti. In particolare si tese a distinguere i profughi delle terre invase dai cosiddetti “profughi volontari”, cioè coloro che avevano lasciato le zone vicino alla linea del fronte per timore di bombardamenti o di un'avanzata ulteriore del nemico.7 Se dal punto di vista materiale e di assistenza non vi fu alcuna differenza, i profughi volontari furono spesso oggetto di critiche, anche aspre, da parte della popolazione ospitante e da chi era fuggito dalle terre occupate dal nemico. Tutti i profughi, comunque, giunti oltre la linea del Piave, distribuiti sul territorio nazionale e spesso separati dalle famiglie, dai vicini e dagli amici, dovettero fare i conti con realtà anche completamente diverse per abitudini, usi e costumi dalla loro quotidianità, e molti di loro furono separati dalle famiglie, dagli amici e dai vicini.

Il Comitato parlamentare veneto e l'Alto Commissariato

All'indomani della disfatta, il 10 novembre 1917, i deputati veneti e friulani si autocostituirono nel “Comitato parlamentare veneto per l'assistenza ai profughi di guerra”.8 Di questo organismo facevano parte i parlamentari, i presidenti dei Consigli e delle Deputazioni provinciali, i sindaci delle città capoluoghi di provincia e i presidenti delle Camere di commercio. Alla prima riunione del Comitato aderirono 14 deputati, quattro dei quali di origine ebraica: Luigi Luzzatti, Ugo Ancona, Elio Morpurgo e Lionello Hierschel de Minerbi. Furono presenti anche i senatori provenienti dalle zone invase, tra i quali: Adriano Diena9, 5 Ivi, p.72.

6 Ivi, pp.47-48. 7 Ibidem.

8 Per una ricostruzione della storia e dell'attività del Comitato parlamentare e dell'Alto commissariato si veda Daniele Ceschin, op.cit., in particolare pp. 86-111.

Vittorio Polacco,10 Giacomo Levi-Civita11, Alberto Treves de Bonfili12 e Leone Wollemberg13. Il Comitato si dotò di uno Statuto dove venivano individuati i seguenti compiti: raccogliere e comunicare il maggior numero di notizie sulla condizione dei profughi; agevolare il loro collocamento e la loro sistemazione; assistere i profughi nei loro interessi personali e patrimoniali dipendenti dallo stato di guerra presso le pubbliche amministrazioni, istituti bancari e altri enti; vigilare, anche attraverso ispezioni, affinché i suddetti intenti venissero perseguiti; raccogliere fondi necessari ai fini predetti, curando il coordinamento delle pubbliche sottoscrizioni.14 Fin da subito il gruppo parlamentare fece pressioni sul governo per favorire una legge che riconoscesse il risarcimento per i danni di guerra subiti dalle popolazioni in seguito all'invasione. Lo Statuto del Comitato prevedeva l'istituzione di un ufficio di presidenza, costituito da un presidente, Luigi Luzzatti, un vicepresidente, Giovanni Cassis, sei consiglieri e un segretario. Ad adempiere alle mansioni di segretario generale del sodalizio fu chiamato il giurista Gustavo Sarfatti.15

I deputati, membri del Comitato, si trovarono, come ha evidenziato Daniele Ceschin, al centro di un sistema clientelare, nel quale l'espletamento delle domande era legato alla promessa di voto nelle elezioni successive.16

Il 14 novembre si tenne la prima seduta della Camera dopo la disfatta di Caporetto. Dopo le comunicazioni del Presidente del Consiglio Orlando, di Boselli, Giolitti, Salandra e Prampolini fu la volta di Luigi Luzzatti. Il deputato di Oderzo, oltre ad esaltare il patriottismo delle popolazioni venete, ricordò nella prima parte del suo discorso due episodi della storia di Venezia, esempi di concordia e resistenza contro l'invasore. Il primo, si riferiva al ricordo de «i sublimi eroismi» della popolazione di Venezia guidata da Manin nel 1848-49; mentre il secondo era riferito alla seconda guerra d'Indipendenza, quando nel 1859 i veneti «invano sperarono» di far parte dell'Italia.17

Questi due momenti, come rilevato da Simon Levis Sullam, sono ascrivibili a quei “luoghi della memoria” che legarono gli ebrei veneziani, anche dopo la caduta del ghetto, alla “comunità immaginata”.18 Per Luzzatti, nato nel 1841, i due episodi erano legati a doppio filo 10 Ibidem.

11 IVSLA, Carte Luzzatti, b.19, f.3, Verbale del 14 dicembre 1917. 12 Ivi, Verbale Assemblea plenaria del 16 febbraio 1918.

13 Ivi, Verbale Adunanza generale del 19 febbraio 1918.

14 Comitato parlamentare veneto per l'assistenza ai profughi di guerra Roma, Statuto del Comitato

Parlamentare Veneto per l'assistenza ai profughi di guerra, Tip. Camera dei Deputati, Roma. 15 Daniele Ceschin, op.cit., Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 289, nota 50.

16 Ivi, p. 177.

17 Luigi Luzzatti, Discorsi parlamentari vol.II (1900-1920), Camera dei deputati Archivio storico, Roma, 2013, Sulle comunicazioni del Governo relative agli avvenimenti militari del fronte italiano. 14 novembre 1917, pp. 729-731.

con la sua identità di italiano ed ebreo. La “Repubblica di Venezia” e la Seconda Guerra d'Indipendenza avevano segnato due momenti fondamentali per l'ebraismo veneto, in quel processo di affermazione delle istanze emancipatrici che trovò il suo epilogo nella Terza Guerra d'Indipendenza nel 1866, la quale segnò l'estensione della piena emancipazione al Veneto. Così Ilaria Pavan descriveva il patriottismo di Luzzatti:

Il patriottismo di Luzzatti emerge come elemento chiaramente caratterizzante, già dagli anni giovanili e sino in tarda età, la sua posizione in materia di rapporti tra fede e nazione. L'essere e il sentirsi italiano comprendeva, sfumandola, la propria condizione di ebreo, prevalendo nettamente su ogni altra possibile declinazione identitaria.19

Lo statista individuava nella «necessità della concordia» la chiave per «salvare la patria dall'invasione straniera»,20 e invitava le popolazioni venete a resistere: «Questo è il grido che qui deve echeggiare fra tutti noi: resistere ad ogni costo! […] E questo grido sarà il miglior conforto per quelle infelici popolazioni venete, le quali senza loro colpa soffrono, per poco tempo, lo speriamo, la vergogna del giogo straniero»21.

I parlamentari veneti e friulani, pur divisi al loro interno per questioni di campanilismo, cercarono di coordinare la loro azione di pressione presso il Governo. Il risultato di tali iniziative si concretizzò il 18 novembre 1917 con l'istituzione, tramite il decreto legge n. 1897, di un Alto Commissariato presso il Consiglio dei ministri. Scopo di tale istituzione era quello di fornire assistenza morale e materiale ai profughi di guerra e di occuparsi degli interessi collettivi delle Terre occupate dal nemico. Il 22 novembre fu nominato presidente del Commissariato Luigi Luzzatti, al quale vennero affiancati due commissari aggiunti: Giuseppe Girardini e Alessandro Stoppato. Poco tempo dopo, quest'ultimo venne sostituito da Salvatore Segrè, in rappresentanza dei fuoriusciti irredenti, i quali, come abbiamo avuto modo di vedere, rivendicavano da tempo maggiori tutele.22 L'obiettivo perseguito in particolar modo da Segrè venne raggiunto con l'emanazione della Circolare dell'Alto Commissariato del 10 gennaio 1918, con la quale veniva riconosciuto a tutti i profughi lo stesso trattamento, anche a coloro i quali erano giunti in Italia prima del novembre 1917.

Il Comitato Parlamentare e l'Alto Commissariato cercarono di operare in sintonia, lavorando Milano, 2001, pp. 10-11.

19 Pavan Ilaria, Luigi Luzzatti, in Levi Fabio (a cura di), Gli ebrei e l'orgoglio di essere italiani. Un ampio ventaglio di posizioni fra '800 e primo '900, Zamorani, Torino, 2011, pp. pp. 113-114.

20 Luigi Luzzatti, Discorsi parlamentari vol.II (1900-1920), Camera dei deputati Archivio storico, Roma, 2013, Sulle comunicazioni del Governo relative agli avvenimenti militari del fronte italiano. 14 novembre 1917, pp. 729-731.

21 Ibidem.

parallelamente e in modo complementare, per favorire l'assistenza ai profughi. La loro opera di coordinamento e soccorso risultò decisiva all'inizio del 1918, quando le iniziative spontanee diminuirono e tutto il peso dell'assistenza ricadde sulla pubblica amministrazione.23 Gli esuli dispersi in tutta Italia, privi di contatti con i mediatori sociali tradizionali, quali i sindaci e i parroci, si rivolsero direttamente ai parlamentari, i quali funsero da intermediari diretti in particolar modo nei primi mesi, permettendo al Comitato di organizzare la rete di gestione dell'emergenza e assistenza che riuscì a prendere corpo solo nei primi mesi del 1919. L'attività di Luzzatti fu criticata da molti e fu ritenuto il principale responsabile della poca efficacia dell'Alto Commissariato. Le tensioni interne, in particolare con Girardini, e la mole delle pratiche e delle richieste, indussero più volte Luzzatti a pensare di lasciare il suo incarico.24 Dimissioni che si concretizzarono, di comune accordo con i due Commissari aggiunti, nel maggio del 1918 quando si paventò la possibilità di togliere il sussidio continuativo assegnato ai profughi. Dopo l'interessamento di Orlando, i due commissari aggiunti Segrè e Girardini ritirarono le dimissioni, mentre Luzzatti convinto di aver portato a termine il suo incarico poiché aveva preso avvio la procedura per il risarcimento dei danni di guerra, decise di congedarsi; venne sostituito, su proposta del deputato Hierschel, dal deputato Girardini.25

Nei mesi in cui fu a capo del Comitato e dell'Alto Commisariato, Luzzatti tenne una fitta corrispondenza con i deputati veneti. Ad esempio Morpurgo scrisse a Luzzatti chiedendo di provvedere:

in favore dei disgraziati miei friulani ricoverati a S. Anastasia. Ti trasmetto un istanza che essi mi mandano; la verità di quanto affermano mi viene confermata da altre parti. Non ritengo umano lasciare in questo stato delle persone che tutto hanno abbandonato pur di sottrarsi al giogo dello straniero.26

Nella lettera emergeva tutta la preoccupazione e la volontà del deputato friulano di perorare le richieste dei suoi elettori presso il Commissario. Dal tono confidenziale tra i due politici, emergevano, inoltre, forti sentimenti patriottici, nonché la volontà da parte di Morpurgo di sottolineare come le motivazioni che avevano portato all'abbandono delle case da parte dei cittadini friulani non erano state dettate da un arretramento di fronte al nemico. In questo senso, la lettera del deputato Morpurgo pare quasi una risposta ai malumori che stavano 23 Ivi, p. 82.

24 Ivi, pp. 91-107. 25 Ivi, p. 96.

26 IVSLA, Carte Luzzatti, Livello:1, Corrispondenza/1, Fascicoli per corrispondenti/M, Lettera 3, Elio Morpurgo a Luigi Luzzatti, 25/04/1918.

serpeggiando fra la popolazione della penisola riguardo alla presunta vigliaccheria dei profughi.

L'Alto Commissariato intratteneva inoltre rapporti con le Prefetture, i Commissari prefettizi, i patronati e i comitati che erano sorti nelle varie città e nei comuni dove erano ospitati i profughi. A Milano, già ad inizio novembre, si era costituito il Comitato fra profughi udinesi e friulani, finanziato in particolar modo da un altro ebreo friulano, Riccardo Luzzatto.27 Il vecchio garibaldino, aveva assunto il ruolo di presidente del Comitato milanese, dal quale si sarebbe dimesso nel maggio del 1918 in seguito alla decisione del Patronato cittadino di sospendere il sussidio straordinario, concesso ai militari delle terre invase durante i periodi di licenza.28

Appena terminata la guerra, il Comitato si impegnò nel far rientrare il più velocemente possibile i profughi nelle terre liberate dal nemico. Il rientro avvenne in due fasi: appena terminata la guerra per le zone non invase, e tra la prima metà del 1919 e la fine del 1920 per quelle occupate. Esso continuò ufficialmente ad operare fino al 12 dicembre 1920, ma limitò la sua azione fornendo solo soccorsi straordinari e assistendo nella sua attività il Ministero per le Terre Liberate. Quest'ultimo si occupò di dirigere e coordinare l'attività delle amministrazioni pubbliche per riguadagnare la piena efficienza produttiva dei territori che subirono l'invasione e quelli annessi all'Italia in seguito alla guerra.

I profughi ebrei

Con l'attestarsi dell'esercito sul Piave e la conclusione della Battagli di Caporetto, le comunità che fino a quel momento erano state solo marginalmente toccate dal conflitto, decisero, e in alcuni casi furono costrette, di spostarsi per non intralciare le operazioni militari ed evitare il pericolo di venire investite da un'ulteriore avanzata degli austro-tedeschi. A questo si aggiungeva anche la paura di possibili bombardamenti su alcuni porti strategici quali Venezia e Ancona, due città già colpite negli anni precedenti da attacchi aerei. Durante gli anni del conflitto, dalla città marchigiana scapparono circa 10.000 cittadini, tra i quali anche una grossa parte della comunità ebraica. Notizia confermata da un corrispondente del “Vessillo Israelitico” che, nel tardo autunno del 1916, esponeva la sua soddisfazione per la partecipazione alla celebrazioni per il Kippur «malgrado una buona metà della Comunità 27 Sulla figura di Riccardo Luzzatto si veda il capitolo dedicato ai garibaldini.

nostra si trova ancora sparsa nei paesi vicini ed un numero non indifferente di correligionari sia sotto le armi»29. Nonostante le numerose assenze, determinate dal pericolo dei bombardamenti, e la sospensione del rabbino Rosenberg dovuta alla paura di accuse di “austrofilia”, la vita comunitaria, le celebrazioni e la gestione amministrativa non subirono ulteriori variazioni durante il conflitto.

Anche Venezia fu colpita da numerose incursioni aeree, la prima delle quali coincise con l'entrata in guerra dell'Italia. L'importanza strategica, simbolica e storica della città, sentita in tutta Italia, fu testimoniata ad esempio da Umberto Grego, presidente della comunità di Genova, il quale decise di destinare una cartella del Prestito nazionale dal valore di 1.000 Lire al primo che avesse abbattuto un velivolo intento a danneggiare la città lagunare.30

Una delle motivazioni che portò all'evacuazione dei civili dalle zone non invase fu di evitare il ripetersi delle situazioni di indecisione e panico che avevano caratterizzato l'esodo dalle zone occupate.31 Oltre ai piccoli nuclei presenti in Friuli, le comunità di Venezia, Verona e Padova, che si erano trovate nelle immediate vicinanze della linea del fronte e rientrando nella “zona di guerra”, seppur con modalità diverse, si trovarono costrette a provvedere all'organizzazione dello spostamento di parte della comunità. Onde evitare la dispersione dei correligionari, il Comitato delle Comunità Israelitiche Italiane, grazie all'intervento del senatore Vittorio Polacco, riuscì ad ottenere dal Ministero la concentrazione dei correligionari presso Livorno.32 L'azione a favore dei correligionari da parte di Polacco fu dettata dal forte legame che univa il Senatore alle comunità venete. Tale atteggiamento trovava conferma anche in diverse notizie presenti nel “Vessillo”, quale ad esempio la sua nomina ad Ufficiale della Corona d'Italia: «si presta pure per le cose ebraiche e tiene alto il vessillo della religione»33. Il senatore ricopriva inoltre il ruolo di vice-direttore del Talmud Torah a Venezia,34 e veniva indicato, sempre dal periodico piemontese, insieme ai senatori Wollemberg e Treves, tra coloro i quali «spiccano per aver serbata intatta la loro fede ebraica»35.

La scelta del Comitato cadde su Livorno per la presenza di una comunità che godeva di una 29 Umberto Coen, Notizie diverse-Italia-Ancona, in V.I., 19-20, 1916, p. 515. Nel censimento del 1901 la popolazione ebraica di Ancona furono registrati 1671 individui, mentre nel successivo del 1931 vennero censiti 967 israeliti. Briganti ha stimato in 105 il numero degli ufficiali israeliti anconetani richiamati alle armi. Cfr. Pierluigi Briganti, Il contributo militare degli ebrei italiani alla grande guerra (1915-1918), Zamorani, Torino, 2009, p. 39.

30 Gli Israeliti italiani e la guerra – Genova, in V.I., 11, 1915, pp. 313. 31 Daniele Ceschin, op. Cit., p.15.

32 In V.I., 21-22, 1917 pp. 485-486; Per i profughi del Veneto e del Friuli. L'opera del Comitato delle Università israelitiche italiane, in I., 46, 22 Novembre 1917, pag. 4.

33 n.c., Notizie diverse-Italia-Padova, in V.I., 8, 1915, p. 222.

34 Giuseppe Bassi., Notizie diverse-Italia-Venezia, in V.I., 8, 1915, p. 229. 35 a.c., Notizie diverse-Italia-Roma, in V.I., 1, 1915, p. 23.

lunga tradizione e di ottimi rapporti con il tessuto cittadino, ma anche per la buona salute finanziaria dell'ente e la relativa disponibilità di spazi e risorse atte ad ospitare un notevole numero di correligionari. Già dai primi mesi del 1917, tuttavia, anche il Comitato veneziano di assistenza civile si era mobilitato per organizzare una colonia veneta tra Viareggio e Livorno, il Governo optò, per ragioni militari, per utilizzare le strutture alberghiere sulla