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CONCLUSIONE

Nel documento “¿Mi patria es mi lengua?” (pagine 107-111)

Quasi vestendo i panni di uno dei suoi critici archimboldiani, o dei suoi detective selvaggi, ci siamo lanciati alla scoperta della lingua di Bolaño, cercando di vedere se in essa possano trovarsi tracce del fragile e conflittuale paradigma identitario proposto dall’autore, consci di imbarcarci in un viaggio pieno di insidie, false piste, vicoli ciechi, svolte parodiche e sabbie mobili interpretative. Senza la pretesa di mappare tutte le possibili letture delle scelte linguistiche e di proporre uno studio completo ed esaustivo del suo intero corpus narrativo, abbiamo proposto un vagabondaggio per le sue opere, con l’intento di cogliere e contestualizzare alcune delle sfumature che in esse assume il binomio lingua-identità, sfruttandole come porta d’accesso all’universo letterario bolañesco: un lavoro che nasce di per sé inconcluso e frammentario, il cui scopo principale è, innanzitutto, mostrare le potenzialità che un’analisi di questo tipo può avere. Vagando tra le pagine dei suoi libri, come Amuleto per le strade di Città del Messico, abbiamo raccolto, infatti, numerosi indizi che ci inducono a ritenere che l’autore abbia cercato di plasmare un panorama linguistico in tutto e per tutto coerente con la propria proposta letteraria, attingendo, con una cura in alcuni casi sorprendente, ai serbatoi della lingua spagnola e presentando un campionario sociolinguistico che spicca per la sua ricchezza e varietà.

Questa pluralità di voci può essere letta come un riflesso del carattere “pluriterritorializzato” – piuttosto che “extraterritoriale” – della scrittura di quest’autore autore cileno-messicano-spagnolo, che si sente latinoamericano e, allo stesso tempo, cittadino di Extranjilandia. L’adozione di una lingua camaleontica che si diverte a sembrare “altra”, a imitare le diverse varietà dello spagnolo, è la materializzazione della perdita di un centro, della crisi delle identità fisse e definite e del piglio antilocalista – o meglio antiessenzialista – di Bolaño. Viene però, contemporaneamente, messa in scena una lingua che si localizza in ogni territorio che visita, abitando, seppur per poco, lo spazio locale e tingendosi delle sue peculiarità; una lingua nella quale prende corpo il carattere necessario e inevitabile della transumanza contemporanea, ma anche del trauma che essa comporta. Conflitto che vive anche il lettore, costretto a migrare da una varietà all’altra, «a quien la lectura le exige que se convierta al exilio, al extrañamiento, al nomadismo y a la ajenidad» (López Badano, 2012: 515). Piuttosto che il villaggio globale,

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la “casa” dell’identità bolañesca è, quindi, la frontiera intesa come realtà mobile, in costante trasformazione, come spazio impuro e permeabile, ma anche come emblema della problematicità dell’incontro con l’alterità, della difficoltà di un approccio dialogico. L’altra immagine che rende conto del progetto identitario e linguistico di Bolaño è quella dello specchio in frantumi, immagine che può essere colta solo attraverso uno sguardo caleidoscopico, come è quello offerto dal coro eterogeneo e scomposto che dà voce alla sua letteratura, nella quale si accostano molteplici registri e toni della lingua spagnola. Una polifonia che veicola, allo stesso tempo, l’idea della frammentazione dei punti di vista e dell’impossibilità di osservare la realtà da un'unica prospettiva, necessariamente limitata e parziale; e che richiama la tendenza di Bolaño ad affermare allo stesso tempo una cosa e il suo esatto contrario, spingendo il lettore e il critico a rimettere in discussione costantemente le proprie interpretazioni, giocando anzi con la possibilità di una stratificazione di letture, a volte antitetiche, ma sempre complementari nel mostrare la sfaccettata complessità del reale.

Questi elementi emergono con forza nell’idioletto dell’uruguayana persa in

Messico, Auxilio, che si caratterizza per la sua plasticità, porosità, il suo essere capace

volente o nolente di cambiare, di esporsi alle intemperie e di spogliarsi della propria specificità, in balia dell’ambiente esterno, di estraniarsi, anche con il rischio di perdersi. Ma nel quale emerge anche il dolore di questo “bagno rinnovatore” e il senso di spaesamento che si prova nell’essere vuotati della propria identità, linguistica e non, come lo è la viandante, madre della poesia messicana, nel suo viaggio verso il paese “più trasparente”; la lettura che abbiamo proposto – sulla scia delle riflessioni di Celina Manzoni – della lingua materna (in questo caso la voce rioplatense) come “amuleto” a cui far ricorso nei momenti di pericolo, o di grande emotività, gioca precisamente in questa direzione. L’idioletto di Auxilio porta inoltre il riflesso di molte delle caratteristiche definitorie del personaggio, che abbiamo riassunto nelle varie sfumature della marginalità, dell’indefinizione e della frammentarietà. In questo senso, la sua voce contribuisce alla caratterizzazione del personaggio, come del resto accade per molti degli altri figuranti dell’epopea bolañesca. Allo stesso tempo, però, la condizione della protagonista perennemente in bilico tra sogno e realtà, tra memoria e delirio, tra lucidità e follia permette di mantenere aperta la strada della parodia.

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La “bastardia” identitaria che emerge dal progetto “di frontiera” di Bolaño, mette automaticamente in discussione la possibilità di afferrare un’essenza autentica, fissa e pura, sia a livello individuale sia collettivo: qualsiasi tentativo di questo tipo viene smascherato, mettendone a nudo l’inutilità e, in alcuni casi, la pericolosità. Attraverso un’ironia sottile e affilata e un caustico sarcasmo, l’autore demolisce queste costruzioni letterarie e le riassembla in parodie dal gusto spesso agroamaro. Gli esempi che abbiamo proposto a conclusione del quarto capitolo ne sono una chiara dimostrazione. La figura del gaucho per vocazione Pereda incarna il fallimento della creazione di identità nazionali solide ed eterne, cristallizzate in un ideale locale, come lo è quello dell’uomo della pampa per il protagonista del racconto e come lo è stato il genere gauchesco per la letteratura argentina; l’artificialità di tali costrutti viene raccontata attraverso un pastiche linguistico, che crea la sensazione di “argentinità” mentre ne svela la finzione. Quest’idea emerge anche a più riprese nella parte di Fate, nonostante questo esempio ci sia servito soprattutto a mostrare come anche l’immagine del villaggio globale finisca per sbriciolarsi nelle mani di Bolaño, soprattutto se applicato alla difficile realtà latinoamericana; partendo dall’analisi proposta da Meneses, che mette l’accento sull’eco parodico del sottocodice del doppiaggese che riecheggia in questa sezione del romanzo, in cui lo spagnolo in svariate occasioni stride all’orecchio del lettore sembrando quasi una traduzione dall’inglese; una scelta che può essere letta, non solo come intertesto “pop”, ma anche come una sorta di monito nei confronti dell’appiattimento linguistico e culturale che può derivare da un’accettazione passiva del mercato globale. Nell’episodio del libro di Kilapán, l’attenzione è rivolta, invece, alle possibili manipolazioni che può subire la narrazione identitaria, capace di diventare uno strumento di esclusione invece che un mezzo di liberazione ed emancipazione, e che può essere corrotta oppure orchestrata ad arte per perseguire i propri scopi, anche i più terribili. Questo caso presenta una particolarità rispetto ai precedenti: qui, infatti, la costruzione identitaria e linguistica analizzata non è frutto della penna dell’autore, il quale si limita a citare alcune parti di uno strano pamphlet realmente pubblicato sotto lo pseudonimo di Lonko Kilapán; ma, come negli altri esempi, anche qui le scelte linguistiche sono coerenti e funzionali all’idea che si vuole trasmettere, e il fatto che Bolaño scelga di metterle in evidenza resta quindi particolarmente rilevante.

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La sorprendente aderenza tra la poetica dell’autore e le varie modulazioni che la lingua assume nelle sue opere, il modo in cui quest’ultima porta su di sé le tracce dell’ambigua e contraddittoria proposta etica e letteraria di Bolaño, riflettendo tutta la complessità della sua costruzione identitaria, sono gli elementi che ci permettono di affermare che forse, davvero, la lingua può essere considerata la “patria” – una patria simbolica – dell’autore, dei suoi personaggi e, in definitiva, della sua letteratura.

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Nel documento “¿Mi patria es mi lengua?” (pagine 107-111)