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L’analisi condotta ha messo in evidenza come le aziende prese in esame abbiano principalmente adottato una strategia di branding mirata a mantenere inalterato il suono

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originale del nome di marca. La trascrizione basata sulla sola componente fonetica è stata infatti impiegata per tradurre il 41% dei brand name, seguita dalla strategia di mantenimento della marca e della grafia originali scelta nel 34% dei casi. In queste percentuali così alte si potrebbe leggere la volontà di preservare in qualche modo la natura occidentale della marca in modo da porre l’accento sull’idea di prodotto estero che tanto ammalia il consumatore cinese. L’altra faccia della medaglia è però rappresentata, nel caso della trascrizione fonetica, dal rischio di dare vita a nomi eccessivamente lunghi che il cliente percepisce come qualcosa di estraneo al suo background linguistico e culturale, nel caso del mantenimento dei caratteri latini, dal pericolo di compromettere il posizionamento di marca desiderato a causa delle traduzioni estemporanee e non codificate che molto spesso vengono diffuse dai giornalisti, dai fornitori e dai consumatori.

Le strategie di trascrizione con una o più componenti interpretative e di traduzione che armonizza la componente fonetica e quella semantica sono state invece impiegate rispettivamente nell’11% e nel 10% dei casi. Entrambe fanno leva sul background socioculturale cinese per stabilire una connessione più profonda con il consumatore. La ricerca di una sincronia culturale e il richiamo ai valori fortemente stimati nel paese permettono infatti al brand name di essere percepito in modo maggiormente positivo dall’acquirente. Tuttavia la selezione dei caratteri a cui dare enfasi è un lavoro arduo, che richiede l’impiego di numerose competenze e molte volte trasmettere un messaggio e al tempo stesso trascrivere un suono da un sistema linguistico all’altro risulta impossibile. Forse proprio per questo motivo le strategie in questione sono state adottate in misura minore. La traduzione interpretativa (che predilige l’aspetto semantico a quello fonetico ) e la traduzione libera (che comporta la perdita dell’identità fonetica e al contempo del significato del brand name originale), infine, hanno trovato in questo studio un impiego estremamente limitato, rispettivamente del 3% e dell’1%. La ragione di queste percentuali così basse potrebbe risiedere, nel primo caso, nella mancanza di un corrispettivo cinese che permetta di trasmettere efficacemente il messaggio insito al brand name, nel secondo caso, nella consapevolezza che evidenziando la provenienza occidentale della marca di un prodotto di lusso si possa attrarre maggiormente il consumatore cinese.

Alla luce di quanto esaminato in questo capitolo e di quanto esposto in via teorica nel precedente è ora possibile fornire delle linee guida sulle strategie di branding che possono adottare le imprese interessate ad espandersi nel mercato cinese.

Innanzitutto, poiché la principale fascia di acquirenti dei prodotti occidentali è rappresentata dalla sempre più numerosa, istruita, aggiornata e giovane classe media, preservare la marca

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nella sua forma originale può rivelarsi una scelta ottimale: la crescente brand awarness dei consumatori e il modo in cui essi venerano le grandi marche occidentali hanno infatti ridotto il rischio di un possibile gap di comunicazione con il cliente (che potrebbe sorgere dalla mancata traduzione del nome).

In quest’ottica anche la sola trascrizione fonetica, utile soprattutto per quei brand name che corrispondono a patronimici e che non presentano al loro interno significati particolari, può apportare benefici al posizionamento di marca poiché il suono estero richiama immediatamente nella mente del consumatore l’idea di prodotto occidentale e i concetti di modernità e stile. Sarebbe opportuno però che le aziende cercassero di creare dei composti brevi, formati da due o al massimo da tre caratteri e caratterizzati da strutture sillabiche molto semplici (ad esempio di tipo CV o CVC), che vengono recepiti meglio dall’acquirente poiché più affini al suo sistema linguistico. Dare enfasi agli elementi fonetici non significa inoltre disinteressarsi completamente della componente semantica: è necessario infatti verificare che i caratteri scelti per la trascrizione non abbiano accezioni negative, altrimenti si correrebbe il rischio di compromettere il successo del brand.

In via teorica la strategia migliore da adottare sarebbe quella che combina elementi fonetici e semantici, in ragione della sempre maggiore tendenza del consumatore cinese di stimare sia i suoi tradizionali valori culturali sia quelli occidentali. Dare enfasi al significato dei caratteri mantenendo al contempo l’originale identità fonetica del nome di marca è infatti un modo ideale per valorizzare tanto la cultura locale quanto quella occidentale e far così breccia nel suo cuore.

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IV. Il brand naming delle aziende cinesi in Occidente

La globalizzazione dei mercati, l’ingresso della Cina nella World Trade Organization (2001) e la vigorosa crescita economica di cui il paese è stato protagonista negli ultimi trent’anni hanno fortemente incoraggiato l’espansione non soltanto delle imprese occidentali in Cina, ma anche di quelle cinesi in Occidente. Quest’ultime, energicamente spinte dal governo ad affermarsi sulla scena economica mondiale, hanno compreso l’importanza di scendere nell’arena competitiva internazionale con un nome di marca forte e distintivo che possa essere percepito positivamente anche dai consumatori target. Negli ultimi anni il loro interesse verso le pratiche di brand naming è perciò aumentato e hanno sviluppato delle apposite strategie per entrare nei mercati esteri. Se nei precedenti due capitoli abbiamo esposto le decisioni tattiche comunemente assunte dalle imprese occidentali in Cina, in questo capitolo illustreremo quelle prese delle aziende cinesi in Occidente. Verrà inoltre fatto un confronto fra le scelte operate da entrambe le parti per valutarne i punti in comune e le divergenze.