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Strategie di brand naming cinesi e occidentali a confronto

Mettendo a confronto le strategie di brand naming che le imprese cinesi e quelle occidentali sono solite ad adottare nel momento in cui si espandono nei reciproci mercati, è possibile notare sia delle analogie che delle divergenze.

Per quanto concerne le analogie, ambedue le parti esportano il proprio brand name cercando di adattarne l’identità fonetica, quella semantica o entrambe al contesto linguistico e socio- culturale di riferimento, con l’obiettivo di far percepire ai consumatori con maggiore positività la marca e i prodotti offerti. Emerge dunque la consapevolezza di poter percorrere la strada del successo solo munendosi di un bagaglio carico di conoscenze circa le attitudini di consumo, le aspettative e le specifiche esigenze degli utenti target. Tutte le strategie accendono infatti i riflettori sul cliente: quella fonetica elimina gli ostacoli che egli potrebbe incontrare nel pronunciare la parola; quella semantica si propone di rendergli maggiormente chiaro lo scopo a cui il prodotto è destinato, i suoi attributi e benefici; quella che ingloba entrambe le componenti mira a raggiungere le suddette intenzioni contemporaneamente. Basti pensare alla versione cinese del marchio di abbigliamento sportivo Lotto, i cui caratteri costitutivi (lè 乐 : felice; tú 途 : strada, percorso) sono stati attentamente selezionati per comunicare efficacemente al consumatore la possibilità di svolgere in modo confortevole e spensierato un’attività fisica; alla multinazionale cinese operante nello stesso settore X-tèbù X-特步 che si è presentata nel mercato occidentale nelle vesti di Xtep per far comprendere al pubblico, richiamando il termine step, l’ambito nel quale essa opera; a Pomellato che per meglio specificare la sua offerta ha aggiunto nel brand name cinese (Bǎomànlánduō 宝曼兰 朵) il termine “gioiello”; alla produttrice cinese di utensili da cucina Sūpōĕr 苏泊尔 che ha

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appositamente scelto la parola Supor per far comprendere al pubblico occidentale l’eccellente qualità dei suoi articoli. Nella stessa ottica potrebbe essere vista anche la scelta di presentare un’immagine aziendale unificata su scala globale, attuata dalla parte occidentale attraverso il mantenimento della marca e della grafia originali e dalla parte cinese per mezzo della trascrizione in Hanyu Pinyin: alle basi di queste strategie potrebbe infatti esserci la volontà di enfatizzare il “Paese d’Origine” (COO) per richiamare l’idea positiva che il consumatore ha di quel posto e attirare così ulteriormente la sua attenzione (per i cinesi l’Occidente è sinonimo di modernità, cosmopolitismo e status sociale elevato e per gli occidentali la Cina è diventata un simbolo di forza e grandezza economica).

Si potrebbe a questo punto parlare di glocalizzazione e di strategie di brand naming

glocalizzate, ovvero pensate per un mercato globale ma studiate in base alle specifiche norme

linguistiche e socio-culturali locali (think global, act local). Il meccanismo che esse innescano è tuttavia controverso: se da una parte permettono la difesa delle originalità locali dal conformismo della globalizzazione, dall’altra modellano le singole specificità culturali e linguistiche su canoni e norme globalizzate che consentono loro di assumere rilevanza internazionale. Basti pensare ai principi universali definiti per rendere i brand name foneticamente facili da pronunciare su scala mondiale (I capitolo, par. 1.5.1) o ai criteri della memorabilità e tutelabilità legale che vengono globalmente riconosciuti per creare un nome di marca vincente.

Proprio in relazione alla memorabilità, lo studio ha messo in luce la similarità delle caratteristiche che agevolano, sia in Oriente che in Occidente, la memorizzazione di un brand

name quali la brevità, la semplicità delle strutture sillabiche (CV o CVC) e della pronuncia, la

significatività, la distintività e la piacevolezza estetica.

Per quanto riguarda invece la migliore strategia di brand naming da adottare affinché l’azienda si affermi con successo nel mercato di destinazione, in linea teorica, sia dal punto di vista orientale che occidentale si professa l’utilizzo di quella che ingloba nel brand name entrambe le componenti, fonetica e semantica: la riproduzione della suono originale del nome consente infatti di richiamare la provenienza dell’azienda, non rendendone la pronuncia ostile ai consumatori target che la percepiranno così come naturale ma al tempo stesso distintiva; la trasposizione di significato consente di comunicare al cliente le caratteristiche e la funzionalità del prodotto attraverso gli elementi culturali locali che più s i prestano a trasmettere il messaggio originario insito nel brand, suscitando in lui lo stesso effetto che il termine fonte aveva sul consumatore della lingua di partenza. Nella pratica, tuttavia, a causa dei diversi background linguistici e socio-culturali, si rivela particolarmente arduo trovare un

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giusto compromesso tra le suddette componenti, ragion per cui molte aziende optano per un’altra modalità di esportazione del nome di marca o ne creano uno nuovo specifico per il mercato di riferimento. Dall’indagine empirica presentata nel precedente capitolo è infatti emerso un impiego limitato della strategia in questione (solo il 10% del campione esaminato) e anche in relazione alle imprese cinesi, i casi che con successo hanno armonizzato la componente fonetica con quella semantica riportati dai diversi studiosi in materia (Yan, 2007; Kum et al., 2011; Wang, 2012, Kang, 2013; Fetscherin et al., 2015) non sono in numero preponderante. Il problema di fondo potrebbe essere rappresentato non soltanto dalle divers ità linguistiche e culturali, ma anche dalla consapevolezza che se si vuole adottare questa tattica il nome deve essere selezionato primariamente in base alla sua pronuncia (per riprodurre efficacemente il suono di partenza) piuttosto che in base al suo significato; la scelta di quest’ultimo sarà perciò vincolata e potrebbe non rivelarsi idonea a rappresentare propriamente gli attributi e i benefici del prodotto o a generare le positive associazioni alla marca necessarie per una sua accettazione da parte dei clienti.

Per quanto riguarda i punti di divergenza tra le scelte strategiche prese dalle due parti, mettendo a confronto le aziende italiane analizzate nel precedente capitolo e quelle cinesi riportate in questo si può notare come le prime, a differenza delle seconde, non ricorrano mai ad acronimi per esportare il proprio brand name, fatta eccezione per quei marchi che già lo erano nella lingua fonte, come ad esempio OVS (Organizzazione Speciali Vendite). Alla base della scelta cinese potrebbe esserci la consapevolezza che questa categoria di nomi facilita il processo di memorizzazione del brand name (De Chernatony & McDonald, 1998; Usunier, 2000; Aaker, 2008), oppure la volontà di risparmiare tempo e risorse nella ricerca di significati idonei al trasferimento del nesso logico di partenza o ancora la mancata conoscenza della lingua e della cultura di destinazione. Le scelta italiana potrebbe invece essere dettata dalla volontà di non dare per scontato che il mero accostamento di lettere non costitutive di un nome possa generare associazioni alla marca positive nella mente dei consumatori target, soprattutto alla luce del fatto che il sistema linguistico cinese non presenta un alfabeto; facendo leva sugli elementi culturali locali o sulla provenienza estera della marca le aziende percorrono una strada più sicura. Ciò non toglie, comunque, che i marchi presentati in Cina come acronimi possano essere percepiti favorevolmente dal pubblico, in virtù soprattutto del suo crescente livello di brand awareness.

Osservando i brand name adottati dalle imprese occidentali e orientali nei reciproci mercati, inoltre, si può notare che i primi sono spesso composti da caratteri legati a concetti di grande rilevanza nel contesto socio-culturale di riferimento (quali il buon a uspicio, la buona salute e

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l’eleganza) o identificativi di fiori particolarmente graditi ai consumatori target (si guardi, ad esempio, il caso di Canali, Dolce & Gabbana, Max Mara e Morellato, III capitolo, par. 3.3); mentre molti dei secondi si adattano alla lingua inglese ma non si modellano eccessivamente sugli elementi culturali occidentali. Essi tendono anzi a porre l’accento sull’innovazione e sulla buona qualità che contraddistingue l’offerta cinese (soprattutto quelli operanti nel mondo dell’elettronica, come nel caso dei nomi di marca Lenovo, Higher e Hisense), sulla magnificenza della storia del paese (basti pensare ai marchi Dynasty e Great Wall) o sull’incanto e le potenzialità del luogo in cui il prodotto viene realizzato (come nel caso delle bevande alcoliche Tsingdao e Moutai e dei climatizzatori Jiangnan).

Quindi, a differenza delle aziende occidentali che cercano di attrarre i consumatori target appellandosi alla loro cultura e adeguandosi ai criteri linguistici seguiti dal brand naming locale (II capitolo, par. 2.3.1), le imprese cinesi rimarcano e valorizzano la propria nazionalità. Questa attitudine rispecchia la volontà del governo di rafforzare l’immagine del paese e la sua influenza a livello globale senza adottare mezzi coercitivi (II capitolo, par. 2.1.1); si tratta essenzialmente di una forma di soft power mirata ad accrescere il prestigio della Cina e a dimostrare al mondo intero che la nazione non è più soltanto la “fabbrica del mondo”, bensì un centro dinamico di idee creative e innovative. Non a caso, infatti, abbiamo assistito negli ultimi anni all’ascesa di grandi player cinesi nei settori dell’high-tech e dell’haute-couture: astri nascenti come Huawei, Xiaomi, Wu Yong e Lao Feng Xiang brillano già nell’universo dei grandi marchi tecnologici e di lusso internazionali.

Il governo inoltre, ritenendo che l’odierna competizione economica mondiale fra le nazioni sia di fatto una competizione fra le più grandi imprese che esse possiedono, incoraggia energicamente l’internazionalizzazione di quelle autoctone (Nolan, 2004). Secondo il presidente del Comitato permanente dell’Assemblea Popolare Nazionale Wu Bangguo, infatti, “la posizione delle Cina nell’economia mondiale sarà in gran parte determinata dalla

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