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Conclusioni sulla lingua del Breve.

Si fornisce di seguito un resoconto schematico dei principali caratteri fono- morfologici e lessicali che avvicinano il nostro testo all’area toscano occidenta- le, e in particolare alla varietà pisana, rinviando ai luoghi dell’analisi dove essi sono discussi con relativa esemplificazione.

3.1 Tratti toscano-occidentali.

Rinviano al toscano occidentale tratti del vocalismo quali: (a) l’assenza, con rare eccezioni, del dittongamento di Ĕ ed Ŏ toniche dopo consonante + r (cfr.

§§ 1.2.1.1, 1.2.1.2) e (b) la mancanza del dittongamento in HŎMO, latinismo

normale nel pisano e lucchese medievali (cfr. § 1.2.1.2), (c) la conservazione del dittongo AU secondario davanti ad l in aulo, cauli, paraula, taule (cfr. §

1.2.1.5), (d) la forma ogosto in luogo di agosto (cfr. § 1.2.1.5), (e) il passaggio di e tonica in iato a i nelle forme rizotoniche del pres. cong. di dare e stare (al contrario del fiorentino in cui la e si conserva: cfr. § 1.2.1.6), (f) la conservazione dei dittonghi discendenti ai, ei, oi (normale nelle varietà toscane escluso il fiorentino: cfr. § 1.2.1.7), (g) il passaggio di e protonica ad i nelle forme ciglieri, spidale etc. (cfr. § 1.2.2.1), (h) la conservazione di en protonico (che rimane senza aprirsi in an come a Firenze: cfr. § 1.2.2.2), (i) la mancata labializzazione (pisana e lucchese) della vocale palatale protonica nelle voci del verbo dimandare (le forme con i prevalgono su quelle con e ed o: cfr. § 1.2.2.3); (j) l’esito -évile della terminazione -ĬBĬLIS (ma cfr. § 1.2.2.4), (k) o in

intertonico e postonico nelle forme nominali (a differenza del fiorentino in cui si ha il passaggio a er: cfr. § 1.2.2.7).

Per quanto riguarda il consonantismo, si sono rilevati: (a) il raddoppiamento di m o n postonica nei proparossitoni cammare, cammerelle, cannapo, gennero (cfr. §§ 1.1.10 e 1.2.3.10), (b) la conservazione della palatale scempia in ucelli e ucillagione (cfr. § 1.1.10), (c) la sonorizzazione delle occlusive più estesa che nel fiorentino (segondo, sigurtà, etc.: cfr. § 1.2.3.1), (d) la perdita dell’elemento occlusivo dell’affricata dentale, ovvero s in luogo di z sorda (cfr. § 1.2.3.3), (e) il dileguo della v davanti a r nel futuro di avere (arà e aranno: cfr. § 1.2.3.8), (f) l’esito ss da ks in lassare (cfr. § 1.2.3.8), (g) la conservazione dell’esito nğ da -NG- in constringere, pingere etc. (cfr. §

1.2.3.8), (h) possa (< lat. POSTEA) in luogo di poscia (cfr. § 1.2.3.8), (i) l’esito

ss del nesso str negli isolati mossa ‘mostra’ e mosse ‘mostri’ (cfr. § 1.2.3.8), (j) la forma medesmo comune alla maggior parte della Toscana occidentale (nessuna presenza del tipo fiorentino medesimo: cfr. § 1.2.3.8).

Fra i fenomeni generali sono rilevanti: (a) la forma quine frequente in toscano occidentale (cfr. § 1.2.4.4), (b) la prostesi di v davanti al dittongo uo in vuo’, vuopo, vuova (cfr. § 1.2.4.5), (c) la sincope vocalica davanti ad r in lavorrà ‘lavorerà’ (fenomeno più esteso in testi toscano-occidentali rispetto al fiorentino: cfr. § 1.2.4.6).

Per quanto concerne la morfologia nominale si sono registrati: (a) il suffisso -ieri al maschile singolare (il cui uso non è però costante: cfr. § 1.3.1.a) e (b) i metaplasmi di declinazione cannapo, comuno, pescio (cfr. § 1.3.1.1);per gli articoli e le preposizioni articolate si è notata (c) la prevalenza delle forme forti dell’articolo su quelle deboli (cfr. § 1.3.3)e viceversa (d) la prevalenza delle forme deboli delle preposizioni articolate su quelle forti (cfr. § 1.3.4), (e) l’uso costante di in del e derivati (normali a Pisa e a Lucca: cfr. § 1.3.4) e (f) l’uso di in sula / suli / sulo (cfr. § 1.3.4). Negli indefiniti (cfr. § 1.3.8) si è osservata (g) la conservazione di -a finale nei composti con

UMQUA(M), (h) -a finale in ogna accanto ad ogni (anche se la forma con -i

finale è quella prevalente), (i) l’uso di amburo ‘tutti e due, entrambi’, caratteristico del pisano e lucchese antichi. Alla medesima area rinvia (j) dipo (cfr. § 1.3.10), affiancato da un’isolata occorrenza di depu (per cui vd. § 3.3.f e 3.3.o).

Nella morfologia verbale si sono notati: (k) l’infinito traggere ‘trarre’ (cfr. §§ 1.1.10, 2.1.1.d); (l) la 3ª pers. plur. del pres. indicativo dei verbi della 2ª, 3ª e 4ª classe costruita sulla 3ª pers. sing. + -no (denno ‘devono’, ponno ‘possono’, vuolno ‘vogliono’ cfr. §§ 1.2.1.2, n. 112, 1.3.12.1 e 1.3.12.7); (m) esempi di est accanto ad è nella 3ª pers. sing. del pres. indicativo del verbo essere (cfr. § 1.3.12.1.a); (n) ave accanto ad à nella 3ª pers. sing. del pres. indicativo del verbo avere (cfr. § 1.3.12.1.c); (o) la desinenza -eno nella 3ª pers. plur. dei verbi della 2ª, 3ª e 4ª classe (cfr. § 1.3.12.1); (p) serà e seranno accanto a sarà nella 3ª pers. sing. del futuro di essere (cfr. § 1.3.12.2).

Concludendo con il lessico e le forme caratteristiche, sono tipici del toscano occidentale (a) ascino, pisano e lucchese per ‘asino’ (cfr. §§ 1.2.3.8, 2.1.1.a), (b) cascia ‘cassa’ (cfr. §§ 1.2.3.8, 2.1.1.a), (c) vastare ‘bastare’ (cfr. §§

1.2.3.1.1, 2.1.1.d), (d) taverna e tavernaio nell’accezione di ‘macelleria’ e ‘macellaio’ (cfr. § 2.1.1.c), (e) scempicare ‘saldare (un conto o un debito)’ (cfr. § 2.1.1.d).

3.2 Tratti pisani.

Definiscono il testo come più specificamente pisano tratti fonetici quali: (a) il dittongamento in apartiene, contiene, conviene, insieme e in fuore, forme che prevalentemente conservano la vocale intatta in testi lucchesi del XIII e XIV sec. (cfr. §§ 1.2.1.1 e 1.2.1.2); (b) uve, forma pisana da UBI (cfr. §

1.2.1.3); (c) pió prevalente su più (cfr. §§ 1.2.1.3, 1.3.8); (d) inoltre u davanti ad l in modulare ‘moderare, sindacare’ e nel derivato modulatore ‘sindacatore’, esempi del tipo pisano -ul- in corrispondenza di -er- (cfr. §§ 1.2.2.6 e 2.1.1.d); (e) la conservazione della sorda nelle voci del verbo recare e in mercatante, mercatanti, mercatantia (rispetto alle forme regare e mercadante del lucchese: cfr. § 1.2.3.1); (f) la consonante scempia nelle voci di ucidere (cfr. § 1.1.10).

Nella morfologia nominale si è rilevato (g) l’uso di -e prevalente su -i nei femminili plurali della 2a classe (cfr. § 1.3.2),in quella verbale (h) la 3ª pers. plur. dell’imperfetto congiuntivo costruita sulla 3ª sing. + -no (ess. del tipo dicesseno: cfr. § 1.3.12.4.b).

Interessanti infine, per quanto riguarda il lessico, (i) l’arabismo moccobello, prima diffusosi a Pisa e poi passato in Sardegna (cfr. § 2.1.1.b), (j) l’espressione a denari bianchi e gialli, indicante una forma di scrutinio segreto documentata nel corpus del TLIO solo in testi pisani (cfr. § 2.1.1.e) e (k) la forma scottino ‘scrutinio’ (cfr. § 2.1.1.f).

3.3 Tratti caratteristici del Breve.

Al di là dei tratti toscano-occidentali e pisani sopra esaminati, il testo spicca per una serie abbastanza cospicua di peculiarità linguistiche, soprattutto fonetiche ma anche lessicali e in minor misura morfologiche, che possono ricondursi per lo più ad influssi sardi e che in qualche raro caso potrebbero far pensare, ben più problematicamente, addirittura a contatti con l’area linguistica siciliana.

La difficoltà nell’attribuire tali tratti alle diverse possibili contaminazioni linguistiche sta, essenzialmente ma non solo, nel problema aperto della datazio- ne del codice e dell’identificazione dello scriba (cfr. § 1.2.2). Se infatti non si può stabilire con precisione quando il testo sia stato redatto, e da chi, anche i problemi linguistici connessi restano irrisolti. Per le particolarità fonetiche che potrebbero ascriversi all’opera dei revisori si possono pertanto avanzare solo congetture.

Non sarà superfluo ricordare preliminarmente che la varietà campidanese, parlata nel sud dell’isola, presenta convergenze fonetiche con l’area dialettale corsa meridionale tali da aver indotto alcuni specialisti, nel dibattito sulla posizione da attribuire al corso nella classificazione dei dialetti italiani, ad esprimersi in favore di una “unità sardo-corsa” (cfr. CORVETTO², p. 214). Fra i

tratti fonetici che accomunano il campidanese ed il corso fin dalle prime attestazioni spicca la chiusura di -e ed -o in sillaba finale rispettivamente in -i ed -u (cfr. § 1.2.2.1.1 e vd. più avanti § 3.3.f), particolarità del vocalismo atono per la quale le due varietà si accostano anche ai dialetti dell’Italia meridionale (cfr. LRL, VI, p. 900), con la differenza, da mettere in rilievo, che la -i finale in siciliano da -e latina è un fatto fonetico assolutamente generalizzato, mentre la -i finale limitata a certe classi di parole in sardo e corso è piuttosto attribuibile al campo della morfologia321.

Se quindi, come si è detto, le corrispondenze fonetiche fra le varietà campidanese e corsa meridionale non sorprendono e non richiedono in questa sede ulteriori approfondimenti322, va ribadita la problematicità della questione delle apparenti convergenze fra alcuni tratti peculiari del Breve e gli esiti notoriamente tipici del vocalismo tonico siciliano: sulla base delle considerazioni sviluppate nel § 1.3.12.5 si può ragionevolmente presumere che gli infiniti in -iri (-ire) attestati nel Breve (àviri, mantìnire, mantìniri, pòtiri, sàpiri, tìnire, tìniri, tìnirli) rientrino piuttosto nel novero degli altri sardismi individuati (vd. infra), costituendo peraltro interessanti indizi della probabile antichità di un fenomeno fonomorfologico diffuso nel campidanese odierno, la scomparsa degli infiniti in -ĒRE, verosimilmente attestato fin dai secoli XI-XIII,

arco cronologico in cui si collocano le carte volgari dell’Archivio Arcivescovile di Cagliari che offrono esempi di infiniti come debiri e airi.

321 Secondo W

AGNER, Fonetica storica, p. 70, “non è pensabile alcun rapporto con esiti

analoghi dell’Italia meridionale, poiché lo stesso fenomeno è sorto spontaneamente in diverse regioni romanze (còrso-gallurese, dialetto delle Asturie, portoghese)”. Il rapporto fra siciliano e sardo è stato ben indagato da BONFANTE, Il siciliano e il sardo, attraverso l’esame di 6 carte dell’AIS, che in definitiva “non provano alcuna affinità o connessione fra il sardo e il siciliano” (p. 204) e lo studio dell’articolo del ROHLFS, Sprachliche Berührungen zwischen Sardinien und

Süditalien, esaminato il quale Bonfante conclude che rapporti diretti fra siciliano e sardo “non esistono, né sono mai esistiti” (p. 220) se non in tempi recenti e limitatamente al lessico per l’importazione di alcuni ittionimi nella Sardegna meridionale da parte di pescatori siciliani, calabresi e campani (p. 219). È stato infatti appurato che attualmente “all’influenza esercitata dalle varietà meridionali e soprattutto da quella siciliana possono essere attribuite numerosi voci presenti in particolar modo nel campidanese” (CORVETTO², p. 9), forme che sarebbero state importate dai pescatori siciliani gravitanti nei porti sardi e soprattutto a Cagliari. Sulle conclusioni generali tratte da Bonfante concorda WAGNER, Ancora per “Il siciliano e il sardo”, che si limita a proporre alcune specifiche rettifiche.

322

Si osserva comunque che la presenza di persone originarie della Corsica a Villa di Chiesa è testimoniata da due passi del Breve in cui si ordina che “nessuna gente, terramagnese, sardi, corsi et nessuna altra gente, possa, overo debbia, fare alcuna ressa, iura, overo conpagnia...” (II 17), ossia si vietano associazioni illegali a tutti i continentali, sardi e corsi e “che per lo consiglio di Villa si debbia chiamari due sardi et uno corso, che siano investigatori sopra coloro che mectessino lo fuoco suprascripto...” (II 48), dove si specifica che la commissione preposta alle indagini sugli incendi boschivi doveva essere composta da due sardi e un corso “ritenuti più competenti, evidentemente, per la loro origine rurale” (TANGHERONI,La città

dell’argento, p. 227). Tali passi confermano l’importanza della presenza corsa a Villa di Chiesa nella prima metà del ’300 (un piccolo indizio supplementare si ricava dall’antroponimo Ricciardo lo Corso IV 112), stimata da Tangheroni in una percentuale intorno al 2 o 3 % degli abitanti, percentuale “grosso modo attribuibile” anche “agli immigranti italiani non di Pisa o del contado pisano” (cfr. ibid.), fra cui lucchesi, pistoiesi, fiorentini, genovesi e siciliani.

All’area linguistica siciliana sembrerebbero rinviare anche i plurali del tipo di carraturi, colaturi, comperaturi, etc., forme però forse solo apparentemente metafonetiche, in merito alle quali si è osservato che per la distribuzione non univoca del fenomeno (non mancano esempi di -u- tonica in luogo di -o-

indipendenti dal vocalismo finale) saranno più verosimilmente da considerare ipercorrettismi dovuti all’interferenza dei due sistemi vocalici toscano e sardo, come induce a pensare la presenza nel testo di casi opposti di -o- tonica per -u- (cfr. § 1.2.1.3). Resta isolata e pertanto di scarso rilievo la forma fimina, attestata nel corpus del TLIO esclusivamente in testi di area siciliana (cfr. § 1.2.1.9) e senza paralleli in sardo. Rinvia foneticamente all’area meridionale anche l’unica occorrenza di tempagno (da TYMPANIUM) ‘timpano, coperchio e

fondo di un barile’323.

Dopo questa necessaria premessa, passerò sinteticamente in rassegna le altre forme più peculiari del Breve notate nel corso del presente lavoro e meno dubitativamente attribuite all’influsso del sardo.

Per quanto riguarda il vocalismo tonico, (a) le forme cipulle e gula (cfr. § 1.2.1.3) devono probabilmente la u all’influsso del sardo (cfr. WAGNER, DES,

s.v. kipúdda < CEPULLA e s.v. gúla).

(b) Accanto al maggioritario moglie si sono rintracciate tre occorrenze di muglie (cfr. § 1.2.1.4), forma attestata nel corpus del TLIO soltanto in un tardo testo veneziano d’oltremare324. Tale forma, per la quale si pensa ad un influsso del sardo mugliere, è significativamente offerta anche dalla Carta de Logu, versione pisana, a. 1325, cap. XXX (“Del tocchare la muglie d’altrui”).

(c) Nel Breve si sono inoltre notate alcune forme in cui si conserva la Ĭ breve

latina (cfr. § 1.2.1.9) probabilmente ancora per influsso fonetico del sardo: almino e mino, con paralleli nei capitoli di mano non pisana del Breve del porto di Cagliari (1318-21) (p. 1123) e nella Carta de Logu, versione pisana, a. 1325 (capp. VI, LXXXXV); firma e infirmi da confrontare con il sardo fírmu; l’isolata frisca da confrontare con il logudorese e campidanese friscu; orichia e ricchia ascrivibili ad influsso del campidanese oríga, i toponimi Valvirde e Valvirdi che riconducono al sardo centrale vírde e al campidanese bírdi.

(d) Anche le forme piscio ‘pesce’ e pischera ‘peschiera’ (vd. glossario e cfr. § 1.2.1.9), non altrimenti attestate nel corpus di testi del TLIO, si devono confrontare rispettivamente con il sardo píske e il campidanese piskèra (WAGNER, DES, s.v. píske e WAGNER, La lingua sarda, p. 192). Per piscio si

deve osservare la notevole contaminazione fonetica fra il tipo pescio, metaplasmo toscano occidentale di cui si trovano quattro occorrenze nel Breve, e la i tonica che riflette l’influsso del sardo.

(e) Per analoghe ragioni sono particolarmente notevoli anche le forme visco e arcivisco (cfr. § 1.2.1.9), esclusive del Breve. Le forme normali in pisano antico erano infatti vesco e arcivesco (cfr. CASTELLANI, Pis. e lucch., pp 325-

323 Il tipo timpàgno è “presente in tutto il Mezzogiorno salvo varianti fonetiche”: cfr.

FRANCESCHINI, Commenti danteschi, p. 224 (e bibliografia ivi indicata); inoltre FRANCESCHINI, I volgari nelle Glose mediolatine di Guido da Pisa, p. 623.

26; DARDANO, p. 127; TAVONI, Gradi S. Gir., p. 845; CASTELLANI, Gr. stor., p.

347) mentre in lucchese le forme non erano apocopate (usuali vescovo e arcivescovo). La peculiarità delle forme del nostro testo, non attestate altrove nel corpus del TLIO, consiste pertanto nella i tonica325, ovvero nella conservazione di Ĭ breve latina, per la quale è presumibile una contaminazione

fonetica fra il tipo pisano vesco e il campidanese antico pískobu attestato ad esempio nelle Carte volgari (piscobu II 3, III 1, XI 1, 5: cfr. GUARNERIO,

L’antico campidanese, p. 202 e WAGNER, DES, s.v. pískobu).

(f) Passando al vocalismo atono, nel nostro testo si sono registrati numerosi esempi di chiusura di -e finale in -i e, in misura nettamente minore, di -o finale in -u, secondo una caratteristica del corso e del campidanese antichi326. La notevole chiusura di -e atona finale in -i riguarda nel Breve non solo numerosi infiniti verbali (per un totale di 250 occ.) ma anche molti sostantivi e aggettivi al singolare (come rilevato nel § 1.2.2.1.1, cui si rinvia per i riferimenti bibliografici e gli esempi). La diffusione del fenomeno induce a pensare ad un riflesso sul piano grafico dell’incertezza degli scribi in Sardegna nell’impadronirsi del sistema toscano occidentale con i suoi esiti diversi delle vocali anteriori in posizione finale di parola, piuttosto che a dei veri e propri sardismi come invece nel caso dei minoritari esempi con -u finale. Per questo tratto, registrato in forme come alcunu, deffectu, dellu, esu, depu, sollidu, lu (articolo e pronome: cfr. §§ 1.2.2.1.1; per lu vd. § 1.3.3), si è istituito un confronto con statu e modu attestati nei tre capitoli in volgare di mano non pisana del Breve del porto di Cagliari (1318-21), p. 1122 e p. 1123, con saltu della Carta de Logu, versione pisana, a. 1325, cap. LXXXXV e con le occorrenze di affectu, Alfonsu, ayutu, allu, altu, campu, capitaneu, Castellu de Castru, delu, dilu, lu, multu, nostru, podirusu, succursu, vicariu nelle lettere edite da Meloni (cfr. MELONI, Una nota su alcuni documenti in lingua sarda,

pp. 363-64).

(g) In protonia è notevole rignone ‘rene delle bestie da macello’ (vd. glossario), che si trova in questa forma esclusivamente nel Breve mentre altrove nel corpus del TLIO sono attestati regnoni (nell’emiliano Atrovare del vivo e del morto, a. 1375) e rognoni (nelle Rime di Sacchetti, della seconda metà del XIV sec. e nella Bibbia volgare); la forma si deve confrontare con il sassarese riñóni registrato da WAGNER, DES, s.v. rundzòne (italiano rognoni).

Fra i tratti rilevanti del consonantismo si è registrata (h) l’affricata palatale sonora di arangi ‘arance’, forma non altrimenti attestata nel corpus del TLIO e che si può verosimilmente ritenere di influsso sardo meridionale per l’analogia con il campidanese aránğu (cfr. § 1.1.3).

(i) È ascrivibile a betacismo di chiaro influsso sardo bitusto ‘vitusto’ (per cui cfr. § 1.2.3.1.1).

325 Si trovano invece ess. di viscovo, con chiusura della e in i ma senza apocope pisana, ad es.

nelle umbro-romagnole Costituzioni Egidiane (1357), nella Cronaca aquilana (c. 1362) e nel napoletano Libro de la destructione de Troya (XIV sec.).

326 La varietà campidanese presenta la “modificazione delle vocali finali -e ed -o

(j) Per la conservazione del nesso latino FL- nell’isolato flume (cfr. § 1.2.3.8)

si è notato che in sardo fl- iniziale di parola è conservato negli antichi testi (cfr. ATZORI, Glossario sardo ant., s.v. flumen e WAGNER, Fonetica storica, p.

253).

(k) Nella forma mascho (attestata accanto alla forma toscana maschio) si è osservato l’esito šk invece di ski del nesso cl in posizione interna dopo s, normale nell’Italia meridionale e nel sardo (cfr. § 1.2.3.8).

Per quanto riguarda i fenomeni generali la vicinanza al sardo si è notata nel caso di (l) ombraco ‘ombracolo, tettoia, pergolato’, lemma in cui di norma la sillaba finale si conserva nei testi del corpus TLIO e da confrontare con il sardo umbragu (vd. § 1.2.4.2), e di berrina ‘berlina’ per l’assimilazione progressiva - rl- > -rr- (cfr. § 1.2.4.8).

Per la morfologia nominale si sono notati (m) interamene ‘interiora degli animali’ (accanto a interame e interami), in cui si conserva, come tipicamente nel sardo, la terminazione in -mene dal neutro latino in -MEN (cfr. § 1.3.1) e

fructura ‘frutta’ (da confrontare con l’antico logudorese fructora e fructura attestati nel Condaghe di San Pietro di Silki: vd. § 1.3.2).

(n) In tuctute ‘tututte, tutte’ si è rilevata un’analogia, oltre che con l’antico toscano tututto, con il sardo antico tottotta, attestato due volte ancora nel Condaghe di San Pietro di Silki (cfr. § 1.3.8).

(o) La forma depu, isolata rispetto alle numerose occorrenze del toscano- occidentale dipo (cfr. § 1.3.10) e hapax nel corpus di testi del TLIO, risulta attestata nel còrso antico e sarà probabilmente da confrontare con il sardo medievale depus.

(p) Fra le congiunzioni si è posto l’accento in particolare sul sardismo ne(n) ‘né’, oggi vivo nei dialetti sardi centrali e interpretato da WAGNER (DES, s.v.)

come NEC con -n di NON. Un’occorrenza della congiunzione è

significativamente attestata anche nel capitolo 157 degli Statuti di Bosa (cfr. TODDE, Alcuni capitoli degli Statuti di Bosa, p. 25) dove si legge: “tutore nen

curatore”.

Per la morfologia verbale si sono registrate (q) le forme porrecte, porrecti, porrecto, participi passati di porgere, abbastanza rare nel corpus di testi del TLIO, da confrontare con il sardo porrectu, antico participio passato di porrere ‘porgere’ (cfr. § 1.3.12.6), sopravvissuto nel sostantivo logudorese porrètta, apporrètta ‘dono, sussidio, colletta, questua di beneficenza’ (cfr. WAGNER,

DES, s.v. pòrrere).

Passando al lessico, (r) fra i nomi appartenenti alla sfera dell’antica amministrazione isolana ricordo armentaio ‘amministratore superiore’ (cfr. § 2.1.3.b), curatore ‘magistrato giuridico ed amministrativo’ (cfr. 2.1.3.c) e magiore ‘preposto d’ufficio ad una amministrazione pubblica’ (cfr. § 2.1.3.d).

(s) Gli attuali “continentali”, come vengono odiernamente definiti dai sardi gli abitanti della penisola italiana, erano nel XIV sec. i terramagnesi (cfr. § 2.1.3.a).

(t) Interessante il sardismo cupa dal lat. CUPAM ‘botte’ nell’accezione tipica

del campidanese di ‘copertura fatta di stuoie (a forma appunto di botte) posta entro le sponde di un carro per proteggerlo dal calore’ (cfr. § 2.1.3.e).

(u) Sardismi lessicali sono anche molente ‘asino’ (accanto alla forma toscano occidentale ascino per cui cfr. 2.1.1.a) e il suo derivato molentaio ‘chi guida il molente, asinaio’ (cfr. § 2.1.3.g), pratargio ‘guardiano del pascolo, pastore’ (cfr. § 1.2.3.7 e § 2.1.3.g) in cui si è rilevato l’esito -argio da -ARIUM

tipico del campidanese ed osservato anche nel toponimo Villamassargia (composto da villa e massargia, ovvero massaria ‘agricoltura’: vd. indice onomastico).

(v) Termini della tassonomia popolare per l’allevamento del bestiame quali il già menzionato vitusto ‘agnello di tre anni’ (cfr. § 2.1.3.h), saccaione ‘agnello di un anno’ (cfr. § 2.1.3.h) e sementoso ‘agnello giovane’ (cfr. § 2.1.3.h), sono ancora impiegati, oltreché nella Sardegna odierna (vd. glossario), anche dai pastori sardi immigrati negli anni Sessanta nel Valdarno, nei poderi abbandonati dalla mezzadria toscana che lasciò l’attività agricola per le aziende artigianali e le industrie di più recente sviluppo327.

Per altri caratteri non esclusivi del Breve si è notata la divergenza dall’area toscano occidentale.

(a) Forme non anafonetiche quali ad esempio agionti, agionto e gionte sono attestate prevalentemente in testi medievali senesi (o comunque solitamente non in toscano occidentale: ma cfr. § 1.2.1.4) e il dilongo del nostro testo si potrebbe confrontare con il corso longu (cfr. STUSSI, Un testo del 1248 in volg.

prov. dalla Corsica, p. 154, n. 23).

Interessanti (b) le due occorrenze di paravula (accanto al pisano paraula), forma che si trova attestata in uno dei falsi documenti corsi copiati nel 1364 studiati da Pär Larson (cfr. LARSON, Note su un dossier, p. 327 e vd. § 1.2.1.5).

La forma paravola è attestata in testi senesi, a San Gimignano, Prato ed Arezzo.

(c) Accanto al suffisso -ile si trovano numerosi esempi del concorrente -ele, caratteristico della Toscana orientale e dell’Italia mediana (cfr. § 1.2.2.4).

(d) In protonia è notevole il fenomeno del passaggio di -ar- > -er- > -ir- in forme verbali come piglirà (cfr. § 1.2.2.7), attestato nel corpus del TLIO anche nella siciliana Sposiz. del Vang. della Pass. secondo Matteo (1373) [2 ess.], e sirà, forma frequente a Montepulciano e nell’amiatino (CASTELLANI, Gr. stor.,

p. 361, inoltre attestata a San Sepolcro e Cortona: pp. 443-44). Lo sviluppo è regolare in Toscana orientale e nell’Umbria settentrionale, ma sembra improbabile nel Breve un influsso da tali aree.

Sorprende anche (e) la conservazione della vocale atona (a od e) fra occlusiva e r nelle voci di comperare, contrariamente a quanto osservabile in pisano e lucchese antichi, dove prevale la tendenza alla sincope (cfr. § 1.2.2.7.1).

(f) La forma atre, isolata e quindi forse attribuibile ad un errore del copista, non è preceduta dall’articolo determinativo («poi atre» 39v.2) e non può pertanto essere giustificata da un fenomeno di dissimilazione (cfr. § 1.2.3.6).

(g) Non è attestata la velarizzazione di l preconsonantica che costituisce una caratteristica del pisano e del lucchese (cfr. § 1.2.3.6): davanti a consonante

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