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Conclusioni della Parte I Verso una pragmatica delle musiche

I musemi come figure

A partire dal , con la sua tesi di dottorato incentrata sull’analisi “al mi- croscopio” della sigla della serie TV Kojak, Philip Tagg ha elaborato un metodo, definito “semiotico–ermeneutico”, di grande vigore analitico ma, per ammissione del suo stesso autore, così complesso da non poter essere applicato se non a fronte di radicali semplificazioni. Secondo Tagg, per rendere conto della ricchezza del dato musicale, è necessario considerare il più ampio spettro di parametri dell’espressione musicale possibile, non limitandosi a quelli tradizionalmente considerati notazionabili (trascrivibili su spartito) e al centro quindi dell’analisi musicologica tradizionale (definita, come visto, “spartitocentrica”), ma includendo anche quelli, difficilmen- te notazionabili, eppure centrali nella significazione della musica, relativi alle dimensioni microritmiche (fondamentali nelle musiche di tradizione afroamericana), timbriche e di spazializzazione del suono (fondamentali nelle musiche fonografiche come la popular music). Nelle sue analisi, egli considera quindi aspetti musicali che sono: temporali, melodici, orchestrali, tonali, testurali, dinamici, acustici, elettromusicali e meccanici.

Tagg (, p.  e sgg.) riprende la nozione di “musema” (museme) propo- sta, su calco di morfema, dal musicologo Charles Seeger nel  (“minimal unit of musical expression” o “meaning”) e opera un “confronto interogget- tivo” (interobjective comparison), di sapore decostruzionista: ossia confronta

frammenti di brani musicali diversi per i quali si ipotizzano affinità a livello di tratti musicali distintivi. Ricorrendo a parafrasi associative–verbali codi- ficate della singola unità (visual–verbal associations; sensazioni, immagini, concetti che ascoltatori e comunità associano a una data musica), si cerca di ricostruire il significato del singolo musema all’interno del brano oggetto dell’analisi. In pratica, si parte da una posizione iconica–antiriduzionista del significato musicale, si traduce cioè musica con altra musica, e poi si traduce quest’ultima in forma verbale.

“Questo metodo va completato a due livelli [. . . ]: con la critica ideo- logica e con l’analisi dei codici musicali sottoculturali, cioè con nozioni

. Ringrazio Stefano Jacoviello per la notazione (Torino, Circolo dei Lettori,  maggio ).

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di tipo sociologico” (Sibilla , p. ). Nei nostri termini, Tagg prova a mettere in luce le microstrutture musicali che si fanno veicolo di conno- tazioni socioculturali, contribuendo a cristallizzarle nell’immaginario. Nel caso della sigla di Kojak “è emerso come la musica rinforzi una visione fondamentalmente monocentrica del mondo e in particolare la credenza [fallacy] secondo cui l’esperienza negativa di un ambiente urbano ostile possa essere superata solo ricorrendo a un atteggiamento individualista di forza bruta ed eroismo solitario [got–it–alone heroism]”. Anche nel caso della megahit degli ABBA Fernando (), analizzata nel , “prevale una forma simile di monocentrismo, ma la minaccia e la preoccupazione rappresentate dall’oppressione, dalla povertà e dalla ribellione sotto il neocolonialismo vengono scardinate dall’adozione di un atteggiamento ‘turistico’ (sorpren- dentemente espresso soprattutto nell’organizzazione spaziale della traccia, che presenta dei flauti quena ‘etnici’ ai lati e una voce ‘da Europa occidentale’ in alto al centro [. . . ]) e da reminiscenze nostalgiche che si stagliano sopra un familiare accompagnamento ‘soft disco’ che sa di ‘casa’ (questi elementi prendono poi prepotentemente il sopravvento, in funzione anti–angoscia [Angst–dispelling])” (Tagg , p. ).

Per ammissione dello stesso Tagg (, pp. –), la nozione di muse- ma è problematica, data la sua generalità; ma, proprio per questo, è anche capace di rendere conto del ruolo delle configurazioni sonore, di qualsiasi tipo, che, in una data comunità, in un dato momento storico, vengono ri- conosciute come solidali (ovvero, costituenti unità musicali) e, in quanto tali, significanti, distintive e nominabili. Si tratta, cioè, di elementi cui viene attribuito un significato più o meno preciso e che consentono il ricono- scimento del testo in cui sono inseriti, perché rimandano a un sistema di valori, più o meno codificati nell’immaginario sonoro. Esempi di musemi o, meglio, di museme stacks (“compound of simultaneously occurring musical sounds; syncrisis”, nella terminologia di Tagg) e museme strings (“compound of consecutively occurring musemes”), resi nelle relative associazioni vi- sive–verbali (o più semplicemente verbalizzazioni), sono: colonialist drum,

official symphony, detective chord, anguish, mysterious lake, dark forest, chase, magic sound, dream, Bacharach chord ecc.

Tagg propone una “prova di commutazione” — si tratta di una delle fasi del confronto interoggettivo, di sapore stavolta fonologico — per determina- re i confini di un musema. Variando, iterativamente, uno dei parametri del dato sonoro, si determina se, dove e come si diano variazioni di significato (o se, al contrario, il significato non cambi; in tal caso, aggiungiamo, potrem- mo parlare di “allo–musemi”, su modello degli allofoni della linguistica). Per esempio, qualora l’accordo di chitarra posto a chiusura del tema dei

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film di James Bonddovesse ricevere un diverso trattamento sonoro (con

un tremolo, un delay, suonandolo in stile steel/slide ecc.), esso perderebbe la connotazione di “mistero” cui è associato, acquistando una sfumatura “hawaiana”. Si passerebbe così da un detective chord a qualcosa come un

Hawaiian chord.

In generale, al di là della peculiarità delle denominazioni taggiane, con musema dobbiamo intendere ogni unità musicale sincretica (insieme di tratti fonici, ritmici, timbrici, spaziali; cfr. par. .) distintiva: sono elementi che danno informazioni sulla struttura e la natura del brano, ne rendono in- tuibile lo svolgimento e ne consentono l’inserimento in un sistema testuale di ordine superiore (stile, genere). Nella nostra prospettiva, scavalcando l’ap- proccio ancora legato a un’idea di codicità che Tagg sembra portare avanti, i musemi sono entità che agiscono sul piano delle forme, sia dell’espressione (i suoni), sia del contenuto (i loro significati), e individuano classi di eventi sonori possibili, non singole occorrenze, non sostanze; si danno cioè inde- finite possibili manifestazioni concrete, per esempio, dell’“inseguimento” (chase) o del “suono magico” (magic sound), diverse, come visto, per uno qualunque dei diversi parametri del dato sonoro–musicale e diverse per le indefinite variazioni individuali offerte al livello della manifestazione.

La teoria di Tagg va certamente piegata a questo scopo, ma considera- re i musemi come figure, in senso propriamente semiotico, ossia come esito terminale del percorso di convocazione della semantica discorsiva (investimenti semantici delle configurazioni di tratti plastici al livello delle configurazioni discorsive, riconoscibili attraverso una griglia di lettura cultu- ralmente convenzionale), non figure del mondo fenomenico, però, ma del

“mondo musicale”, consentirebbe di ricondurli nel quadro dell’attanzialità e della narratività greimasiane, su modello delle analisi condotte da Eero Tarasti (). Le relazioni tra figure musematiche, e in particolare la loro

“opposizionalità” (nei termini dello studioso finlandese, che si è occupato principalmente di temi musicali in contesti classici, tonali e romantici), con- sentirebbe cioè di ricostruire i programmi narrativi all’interno dei quali esse sarebbero inserite, e il cui percorso coinciderebbe con lo sviluppo stesso del brano.

Lavorare sui musemi come figure musicali consentirebbe di operativiz- zarli anche alla luce delle categorie della semiotica tensiva (non tanto o non solo nei termini di Fontanille e Zilberberg, ); ossia valorizzando il

. Brano scritto da John Barry, impiegato nei titoli di testa del film Dr. No (, regia di Terence Young); si veda Tagg (, p. ).

. Cfr. par. ., nota . Si veda Greimas e Courtés (, voci “Figura”, “Figurativizzazione”, “Figurativo”, pp. –).

. Unità di taglia maggiore individuate da altri musicologi e semiologi della musica (music

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complesso gioco di vuoti e pieni, protensioni, attese, ripetizioni, variazioni e risoluzioni attraverso cui una data musica, semplicemente nel suo dispie- garsi all’ascolto, istruisce processualmente l’ascoltatore al proprio senso.

Da questo punto di vista, per la semiotica è stata fondamentale la lezione di Leonard B. Meyer (), ripresa e sviluppata da autori come Luca Marconi () e Daniele Barbieri (, ).

Dimensione pragmatica e competenza musicale

In una prospettiva che si vuole pragmatica, appare fondamentale l’idea che non tutti i soggetti, al di là delle attestazioni empiriche, abbiano lo stesso accesso al senso dei testi musicali e possano quindi “usarli” nello stesso modo; ovvero, dobbiamo includere nel nostro orizzonte teorico l’idea di diversi possibili livelli di competenza musicale, di diversi possibili tipi e gradi di riconoscimento delle pregnanze che un testo musicale offre al proprio potenziale fruitore.

Gino Stefani è il musicologo che, nel quadro di un approccio pragmatico alle questioni semiotiche della musica (approccio determinato dai suoi inte- ressi primariamente didattico–pedagogici), ha sviluppato la proposta teorica, sotto questo profilo, “più convincente” (Middleton , pp. –). Per Stefani (, pp. –)il senso di un testo musicale è sì radicato nel suo

livello immanente, nel dato sonoro, ma è come sovradeterminato dall’uso concreto che se ne fa o, meglio, se ne può fare, e quindi, a monte, dalla messa in gioco, da parte di tutti gli attori coinvolti, di un “sapere, saper–fare e saper–comunicare”. I diversi livelli di competenza musicale costituiscono delle “variabili extratestuali” che influenzano tanto il risultato delle attività musicali (in entrata e in uscita, in codifica e decodifica), quanto la possibi- lità di farne oggetto di discorso (ovvero, di costruire un metalinguaggio a partire da esse, di verbalizzarne l’esperienza). Influenzato dalla tipologia dei codici di Eco, Stefani (ivi, p. ) individua cinque livelli di competenza, che comprendono:

— Codici generali (CG), ossia schemi percettivi e logici, comportamenti antro- pologici, convenzioni di base con cui interpretiamo qualunque esperienza e quindi anche quella sonora;

— Pratiche sociali (PS) determinate, ossia progetti e modi di produzione ma- teriale o segnica particolari, o in altre parole istituzioni culturali (lingua,

. La ripetizione rappresenta, sulla scia della lezione di Ruwet, uno dei più precoci interessi della semiotica musicale; si veda Stefani ().

. Si vedano anche Sibilla (, pp. –), Marconi e Stefani (, pp. –) e Jacoviello (, pp. –).

Conclusioni della Parte I  abbigliamento, lavoro agricolo, lavoro industriale, sport, spettacoli, ecc.), fra cui anche quelle “musicali” (concerto, critica, ecc.);

— Tecniche musicali (TM), ossia teorie, metodi, più o meno specifici ed esclusivi delle pratiche musicali (strumenti, scale, forme compositive, ecc.); — Stili (St) d’epoca, di genere, di corrente, d’autore, ossia modi particolari di

realizzare tecniche musicali, pratiche sociali e codici generali; — Opere (Op) musicali singole, individue, uniche.

A seconda del livello di competenza posseduto dall’ascoltatore, il testo musicale produrrà “strati di significato” diversi. Per quanto i diversi tipi di competenza siano diversamente articolari e valorizzati presso comunità diverse, si danno comunque una competenza “colta”, che “tende a una appropriazione specificamente e autonomamente artistico–estetica del la- voro coi suoni, e quindi ritiene massimamente pertinente il livello Op”, e una competenza “popolare”, che “all’inverso [. . . ] tende [. . . ] a una appro- priazione globale ed eteronoma (‘funzionale’) del lavoro con i suoni” (pp. –). Dalla sovrapposizione di queste due tendenze, intese come aree

proiettate sul continuum graduabile della competenza, emerge quella che Stefani chiama “competenza comune” (ibid.), la cui massima ampiezza si dà al livello TM, per restringersi “a rombo” sia sul versante CG, sia Op. I livelli di competenza così individuati possono trovare una traduzione in termini sociologici prototipici se intesi come condizioni di possibili usi codificati della musica; si pensi, per esempio, alla celebre proposta di Theodor W. Adorno (, pp. –), che individua sei tipi di comportamento musicale (esperto, intuitivo, consumatore, emotivo, risentito, passivo) basati su scel- te, inclinazioni e gusti radicati nel grado di competenza del dato musicale posseduto dall’ascoltatore.

Per quanto presenti dei problemi, quantomeno terminologici, nel quadro di una sociosemiotica contemporanea (si veda l’uso del termine “codice”, sostituito dallo stesso Eco con il più elastico modello enciclopedico, ), e andrebbe quindi precisato e riformulato, il modello di Stefani (che lo stesso autore definisce “provvisorio”; ivi, p. ) è l’unico che abbia cercato — scavalcando l’approccio strutturalista, ma ponendosi sempre in un quadro semiotico — di rendere conto in maniera sistemica della natura pragmatica della costruzione del significato musicale in quanto discorso: circuitazione di senso tra testi e pratiche e loro metatesti.

La sociosemiotica della comunicazione musicale che prospettiamo si innesta sulla semiotica plastico–strutturale jacovielliana (con le integrazioni che si sono proposte: dimensione topologica, enunciazione fonografica, modello delle figure e applicabilità dell’attanzialità e narratività greimasiane); ne considera cioè gli esiti analitici, relativi al livello introversivo della musica,

 Conclusioni della Parte I

nella loro dialettica con il livello estroversivo, ovvero il piano del confronto dei soggetti con le sostanze, dei testi in situazione d’uso, del significato socioculturale che, nel tempo, viene loro assegnato. Da questo punto di vista, per quanto metodologicamente raramente sovrapponibili, sociosemiotica della musica e popular music studies appaiono discipline solidali: Tagg () delinea i fondamenti di una musicologia per non–musicologi (“a musicology for non–musos”), così come la sociosemiotica della musica dovrebbe essere una semiotica della musica non–musicologica. Entrambi i campi, peraltro, per quanto pure abbiano potuto attingere da una lunga tradizione di studi (da una parte musicologia e studi musicali, dall’altra semiotica e sociosemiotica), si sono visti costretti ad agire, come rimarcato da Middleton (), in un sostanziale “vuoto metodologico”.

P II

PER UNA SOCIOSEMIOTICA