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Quali sono, dunque, i percorsi educativi, in un’istituzione per adulti con disabilità intellettive, complesse o con un disturbo dello spettro autistico, che possono favorire l’autodeterminazione delle persone che vi risiedono?

La domanda di tesi di questo lavoro aveva come fine quello di evidenziare dei percorsi possibili e praticabili affinché persone adulte, con uno specifico quadro diagnostico alle spalle ed inseriti all'interno di un contesto altrettanto specifico come un istituto, possano veder riconosciuto il loro diritto all'autodeterminazione.

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Quello che si è voluto proporre in questo lavoro è stato un percorso, che partito da un interesse personale, si è volto prima ad una ricerca teorica, poi ad un approfondimento del contesto preso come riferimento. Compresa la posizione del contesto rispetto al tema, è stato chiesto all'ambiente ed ai suoi professionisti di soffermarsi sui singoli ospiti con cui lavorano, invitando ad osservare e valutare le persone, nelle loro conoscenze, abilità, ed il contesto, nelle opportunità e nei sostegni. Quanto osservato è stato ripreso e portato sul tavolo del confronto nel focus group finale: in quell'occasione, i grafici ed i numeri, sono stati trasformati in parole, i frammenti si sono riuniti andando a comporre un quadro su ogni singolo ospite del gruppo, e prospettive di possibile cambiamento sono apparse. Le riflessioni nate a partire dal micro contesto istituzionale preso in considerazione, ben presto sono divenuto riflessioni sul macro contesto, andando a sollevare più di una domanda sulle politiche sociali e sulla società tutta.

L'autodeterminazione, come è stato possibile vedere, interessa tante altre aree dello sviluppo umano, dall'autonomia, all'indipendenza, dalla capacità di scelta al problem solving. Non si può lavorare a favore dell'autodeterminazione come fosse un concetto privo di legami, privo di ricadute su altri aspetti della vita. E, analogamente, lavorando su questi altri "pianeti", si lavora anche per permettere a ciascuna persona di divenire attore protagonista della propria vita. In quella che al momento può sembrare più un'utopia, la società è il luogo che, assumendosi le proprie responsabilità, deve essere promotore di una cultura che si orienti verso prospettive inclusive, in cui persone come quelle incontrate in questa casa con occupazione, possano imparare un modo di stare al mondo che appartiene a loro, e che misurano con la relazione con gli altri. Perché ciò diventi realtà, la responsabilità di promuovere questa nuova cultura è nelle mani e nelle azioni degli operatori, che come professionisti hanno il compito di accompagnare la persona in uno sviluppo dinamico-positivo. L'istituto, attraverso opportunità e sostegni, può diventare un luogo di riconoscimento e sviluppo di conoscenze, volizione e abilità della persona, per permetterle, come prima cosa, di esercitare i propri diritti, e come seconda, di uscire dalla condizione di ambiguità. E di partecipare, poi, alla vita sociale, con la propria identità.

Con uno sguardo più operativo, dagli strumenti utilizzati sono stati ricavati tre aspetti principali, che trovando fondamento in agganci teorici, possono divenire delle buone pratiche da cui partire affinché cambi il paradigma sociale sul tema.

Il primo aspetto emerso con forza in relazione alle riflessioni degli operatori stessi, è la consapevolezza da parte del contesto di essere fondamentale nel processo e di giocare un ruolo di responsabilità; consapevolezza e responsabilità che devono tradursi e trovare spazio in azioni educative. Per poter fare ciò, occorre dare il giusto peso alla diagnosi. Una diagnosi può divenire funzionale solo nel momento in cui dialoga con il punto di vista pedagogico ed educativo, fornendo delle chiavi di lettura che possano far comprendere il funzionamento del soggetto e possano dare valore ai suoi comportamenti in un'ottica dinamico-positiva (Benci, formazione, 17 marzo 2017; Goussot, 2011, p. 38).

Fare ciò, rientra nel dare centralità alla persona, come individuo, non come portatore di deficit. Carl Rogers fonda la sua psicologia sul dare centralità alla persona, nell'avere fiducia nella sua tendenza attualizzante (Pianforini, 2015; Istituto dell'approccio centrato sulla persona, s.d): la persona, secondo Rogers, è un organismo attivo che possiede intrinseche e profonde tendenze volte alla crescita e allo sviluppo personale. (Ryan, 2009, p.1) Fermarsi ai risultati di un test d'intelligenza o alle diagnosi scritte non dice chi realmente la persona sia: si conosce l'altro nell'incontro, nella relazione con la persona non con le sovrastrutture che diagnosi e punteggi del QI rappresentano (L., intervista, 16 maggio 2017).

Qual è quindi un percorso possibile per l'operatore sociale? Il divenire un facilitatore, un sostegno (Istituto dell'approccio centrato sulla persona, s.d) che sappia lasciare spazio alle scelte delle persone con cui lavora, permettendo così a quella persona e a sé stesso come operatore di uscire dalla condizione di liminalità (Murphy, 2001 cit. in Moioli, 2012, p. 40), di ambiguità, riconoscendo l'autorità nell'esercizio di quelli che sono i diritti degli uomini, primo fra tutti di autodeterminazione.

Questo percorso può apparire fosco, se pensato in relazione a persone che presentano delle compromissioni proprio in quelle aree che permettono di comprendere il funzionamento di ciò che li circonda e di adattarvisi di conseguenza. Il compito di rischiarare il percorso è responsabilità però del contesto. Seguendo un approccio sociale menomazione ed essere disabile non sono collegati da un nesso causale (Cottini, 2016, p. 24). I deficit divengono disabilitanti nel momento in cui si scontrano con barriere ambientali o sociali. Non è quindi la persona facendo capo alle capacità o ai modi di comunicare che conosce o comprende, a non poter fare scelte, esprimere preferenze, avere desideri o interessi, comunicare decisioni relative alla propria vita o alla propria quotidianità. Se accogliamo che le persone hanno una propensione naturale a svilupparsi psicologicamente e a superare in modo autonomo le sfide dell'ambiente, agendo comportamenti autodeterminati per necessità, prima ancora che per capacità (Deci & Ryan, 1985 cit. in Cottini, 2016, p.16); se accogliamo che le strutture mentali di ogni persona sono in continuo sviluppo (Benci, formazione, 17 marzo 2017; Vygoskij cit. in Goussot,2011, p. 65), e possono apprendere tramite esperienze e sostegni; se riusciamo a dare il giusto valore alle diagnosi, scorgendo i moti di volizione anche nei più piccoli dei gesti, allora siamo concordi che servizi, enti e società devono assumersi le loro responsabilità in merito.

Come secondo percorso, quindi, il dare centralità alla persona scaturisce nel concepire un ambiente che sappia rispondere ai bisogni degli individui, al loro essere adulti in un contesto istituzionale che, socialmente, è escludente per natura.

I risultati emersi dagli strumenti utilizzati sono stati utili al fine di evidenziare pratiche e approcci che possono rendere contesti ad alta protezione luoghi in cui apprendere, consolidare, perfezionare capacità che permettano un'effettiva partecipazione sociale.

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Dall'intervista e dal focus group è stata evidenziata l'importanza dei momenti di ascolto, di scambio e colloqui individuali tra operatore e ospite, in cui potersi conoscere, indagare le caratteristiche, gli interessi e le motivazioni della persona con cui l'operatore lavora. La scala, inoltre, ha permesso di valutare a partire da osservazioni diverse le caratteristiche degli ospiti, e di come esse si relazionino, o meno, con gli interventi educativi ed il contesto.

Gioca, poi, un ruolo fondamentale il garantire che vi sia realmente la possibilità di attuare una scelta, e ciò, banalmente, si traduce nell'offrire almeno due possibilità tra cui scegliere (L., intervista, 16 maggio 2017). L'azione di scelta è particolare in riferimento a casistiche come quelle descritte, poiché operare scelte può portare ansia, comportamenti inadeguati o addirittura, una netta sostituzione: tuttavia "questo non significa che le persone con disabilità intellettiva o autismo non siano in grado in assoluto di operare scelte, ma per poterlo fare devono avere già sperimentato realmente gli elementi su cui fondarle" (Morgan, 1996, cit. in Cottini, 2016, p. 87).

Da non dimenticare è la necessità di creare un contesto che non protegga dalla realtà andando ad aggiungere connotazioni negative a ciò che già di per sé è definito "speciale": questo non implica per forza una de-istituzionalizzazione totale, semmai chiede di apportare modifiche, ad esempio, alle proposte lavorative/occupazionali o attività extra- istituzionali, lasciando margine di prospettiva, scelta e progettualità anche agli adulti che vi prendono parte.

Azioni educative che tengano conto degli aspetti qui emersi, possono trovare fondamento in un approccio, che oltre alla centralità della persona, vada ad evidenziarne le capacità. Come terzo ed ultimo percorso, dalla letteratura e tra le righe dei dati raccolti e delle esperienze fatte, emerge come un approccio che si basi sulle capacità debba essere qualcosa di più di espressioni scritte su libri o su lavori di tesi.

Il capability approach, delineato dall'economista e filosofo Amartya Sen, ad esempio, mostra come la qualità della vita delle persone dipenda, sì, dai mezzi che ciascun individuo possiede, ma anche, dall'effettiva trasformazione di quei mezzi in risultati che seguano la volontà della persona stessa (Cottini, 2016, p. 24). In altre parole, il benessere della persona è frutto dello spazio di capacità messe in gioco dalla persona e dallo spazio di funzionamento possibile nel contesto. Un approccio simile, come sottolineato da Cottini (2016) permette, per prima cosa, di andare oltre al concetto di normalità e menomazione, aprendosi al campo positivo delle capacità. Secondariamente, riporta il focus sulla persona, dando valore alle sue capacità e al ruolo che la persona riveste nel determinare quali sono le sue capacità rilevanti e quali obiettivi raggiungere.

In un contesto in cui obiettivi e progetti sono stilati solitamente dagli operatori, fare luce sul diritto di autodeterminazione delle persone con cui si lavora, e quindi anche di progettualità rispetto alla propria vita a partire dalle proprie capacità, è qualcosa che chiede ai Progetti Educativi Individualizzati di divenire ciò che Palmieri definisce "Progetti di vita" (2006, p. 73), ossia uscire dalle cristallizzazioni in cui possono bloccarsi gli obiettivi

dei PEI, quasi fossero dislocati dalla persona e rappresentassero solo elenchi puntati ai quali porre delle spunte, e di diventare un "luogo di possibilità" (Palmieri, 2006, p. 73), di crescita, in istituto e in altri contesti.

Per fare ciò è necessario coinvolgere la persona con cui si lavora, stabilendo quali obiettivi raggiungere, lavorandovi insieme ed insieme alle persone significative, al fine di creare una rete sociale che non sia composta solo da professionisti.

Quello che si è cercato di fare con questo lavoro è stato un piccolo tentativo di cammino sui percorsi qui delineati: al termine di questo incontro tra teoria e pratica, è necessario esplicitare anche quali sono stati i limiti incontrati.

Innanzitutto, l'indagine svolta per questioni di tempi e spazi di scrittura presenta dei limiti: gli argomenti riportati all'interno del lavoro sono stati oggetto di selezione e, di conseguenza, non vi hanno preso parte tutti i riferimenti teorici trovati o i dati materiali raccolti.

In secondo luogo, in relazione alle scelte metodologiche, le strade percorse con i relativi strumenti utilizzati, anche in questo caso, sono stati frutto di una scelta in relazione a fattibilità di rielaborazione all'interno della tesi e disponibilità del contesto coinvolto.

L'intervista semi-strutturata svolta alla coordinatrice psico-pedagogica e il focus group hanno presentato limiti di tempo nel loro svolgimento, ciò ha comportato il dover individuare argomenti specifici di discussione, tralasciandone inevitabilmente altri.

La scala di valutazione, infine, come descritto, è stata presentata solo agli operatori, sia per i fini della domanda di indagine sia per l'impossibilità di entrare in contatto con altre figure al di fuori del contesto lavorativo descritto. Per quanto concerne la scala, inoltre, come sollevato anche dagli operatori coinvolti, il fatto che si basi su valutazioni derivanti da osservazioni individuali comporta che l'osservazione non possa essere considerata "obiettiva e neutra" ma, al contrario, "costantemente esposta al rischio della soggettività" (Maida, Molteni & Nuzzo, 2014, p.58): pertanto, quanto emerso non è da considerarsi scientificamente estendibile e sovrapponibile ad altri contesti o situazioni.

Questo lavoro non si propone di essere una fotografia scattata sull'argomento. Si propone di essere un viaggio, il cui bagaglio può essere modificato o arricchito, e la cui meta è in continuo divenire.

Di ricette, per l'autodeterminazione, non ne esistono. Non ci sono dosi da seguire, ci sono solo ingredienti che non possono mancare.

Come per il caffè. Ad ogni persona piace probabilmente una qualità o un modo diverso di bere il caffè: l'unica uguaglianza sta negli ingredienti.

Ecco il caffè, signore, caffè in Arabia nato, e dalle carovane in Ispaan portato. L'arabo certamente sempre è il caffè migliore, mentre spunta da un lato, mette dall'altro il fiore. Nasce in pingue terreno, vuol ombra, o poco sole. Piantare ogni tre anni l'arboscel si suole. Il frutto non è vero, ch'esser debba piccino, anzi dev'esser grosso, basta sia verdolino,

usarlo indi conviene di fresco macinato, in luogo caldo e asciutto, con gelosia guardato.

…A farlovi vuol poco, mettervi la sua dose, e non versarlo al fuoco, far sollevar la spuma, poi abbassarla a un tratto sei, sette volte almeno, il caffè presto è fatto.

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