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La condizione della donna I principi su cui si basano que ste norme consuetudinarie sono gli stessi su cui vertono anche gl

R UOLI E FUNZIONI FEMMINILI NEL K ANUN DI S KANDERBEG

U N ’ ANALISI ETNOGRAFICA E LINGUISTICA

4. La condizione della donna I principi su cui si basano que ste norme consuetudinarie sono gli stessi su cui vertono anche gl

altri Kanun: burrnija, besa, onore, uguaglianza e libertà personale, ma per l’analisi di questi concetti e delle pratiche che da questi deri- vano (ospitalità, protezione, intercessione, garanzia e vendetta) ri- mando ad altri miei lavori (cfr. Martucci 2010; 2013). Qui di seguito ci occuperemo in particolare del ruolo e della condizione della donna secondo le norme kanunali. Nella casa paterna la donna era consi- derata, secondo il Kanun, come qualcosa di superfluo: alla sua nasci- ta “piangevano perfino le travi di casa” (Nova 1977: 278), perché non era attesa e perché si sarebbe preferito un maschio. Questo si spiegava col fatto che le donne nascevano per la famiglia del marito e non per quella del padre1, dato che non tramandavano il sangue

della casa paterna, ma perpetuavano quello della casa maritale. Nella casa maritale, d’altro canto, ella era considerata sempre come un’estranea2. Questa estraneità sarebbe provata, osserva Valen-

tini, dalle prescrizioni concrete del Kanun, secondo le quali, confor- memente al principio della solidarietà familiare, la famiglia paterna era responsabile del delitto della donna che uccide il marito, e vice- versa il marito era responsabile, verso la famiglia della moglie, per alcune ingiustizie che avesse dovuto commettere contro di lei o per la sua uccisione (cfr. Valentini 1945: 25). Solo nel caso in cui la famiglia paterna avesse consegnato al marito la rituale cartuccia in segno di delegazione di jus gladii, questi non avrebbe dovuto rispondere dell’uccisione della moglie (Cozzi 1912: 330; cfr. Palaj 1912: 121). Finché si trovava nella casa del marito, era considerata

1 E’ opportuno sottolineare che la forma di matrimonio adottata dagli

albanesi era connessa a due principi, l’esogamia e la virilocalità. La prima regola imponeva il divieto di matrimonio tra appartenenti allo stesso fis, la seconda imponeva al marito di condurre la donna nella casa paterna.

2 “Burri ka gjak, grueja gjini. Grueja âsht bija e dheut”: Lett. “L'uomo

ha sangue, la donna stirpe. La donna è figlia della terra”. Palaj spiega che il senso di questo detto popolare dei montanari albanesi del nord era sostanzialmente: La donna è considerata figlia di forestieri (Palaj, 1941, p.15).

come un piccolo otre, che sopporta pesi e fatiche (KLD art. 29)1.

Valentini osserva che la donna, nonostante il prezzo pagato dal ma- rito al padre per il matrimonio, non era considerata come cosa com- prata, bensì come cosa presa a nolo per tutta la vita del marito e non oltre, tanto è vero che la vedova poteva tornare alla casa paterna quando voleva (Valentini 1945: 25 ).

La condizione della donna, secondo Federico Patetta, non si poteva dire lontana da quella che era nelle società primitive o semi- barbare (Patetta 1941: 27). Le erano negati tutti i “diritti del sangue” (Palaj 1943: 131), cioè tutti i diritti che il Kanun riconosce nella tri- bù solo ai maschi, come la proprietà fondiaria2. Nella vita civile essa

non poteva mai essere membro del consiglio di tribù o del villaggio, nel tribunale arbitrale non era accettata la sua testimonianza indivi- duale o collettiva, né la sua delazione (cfr. KS §§ 1886, 2216, 2501, 2511, 2667; KLD §§ 561, 1045, 1088); tanto che: «Se è necessario il giuramento di una donna, quel giuramento lo possono e lo devono fa- re i suoi genitori» (KS § 2513)3.

Il marito aveva diritto di consigliarla e rimproverarla, di basto- narla e di legarla quando lei avesse disprezzato le sue parole o i suoi ordini. Questo, senza che i parenti di lei potessero chiedere qualsiasi riparazione. Le sole cose che il marito non poteva fare erano basto- narla a sangue e ucciderla4: in simili ipotesi ne avrebbe risposto alla

1 La traduzione corretta dell’articolo 29 sarebbe: “La donna è otre per

portare”. Si dovrebbe intendere che “la donna è un otre per portare il bam- bino e le altre some, cioè le pesanti incombenze domestiche” (Valentini 1945: 25). Anche nella versione del Kanun riportata da Mark Sadiku, il con- cetto è ribadito: “Altri diritti la donna non ha, solo è borsa per portare il bambino che le ha donato Iddio; altro diritto non ha, né per dare né per prendere (in ordine al matrimonio dei figli), ma solo il padre e il padron di casa (ce l’hanno tale diritto)” (Sadiku 1943: 277; cfr. Cozzi 1912: 313).

2 La proprietà è legata al sangue, e quindi agli uomini, l’intero sistema

che giustifica tale affermazione, elimina allo stesso tempo le donne, che non trasmettono il sangue, e di conseguenza neanche la proprietà” (Stahl 1997, p. 53). Cfr. Valentini 1945, pp. 111-137. Cfr. Shryock 1988, pp. 113–118.

3 Oppure, se è stata data in sposa, dal capo famiglia della casa maritale

(KS § 2513). Si vedano anche KS §§ 2599, 2628.

4 Salvo nei casi di adulterio e tradimento dell’ospite. «La donna è uccisa

famiglia paterna di lei1, dato che, secondo il Kanun, «il marito com-

pra il lavoro e la convivenza della moglie, ma non la vita» (KLD art. 28). La donna però, eccezionalmente, poteva assumere l’ammini- strazione della casa quando non vi fossero stati maschi adulti nella famiglia. Ad esempio, la vedova del capo di casa assumeva l’ammi- nistrazione se i figli erano minorenni, finché il figlio maggiore aves- se raggiunto l’età (15 anni) in cui poteva dirigere gli affari di fami- glia. Oppure, se i genitori, morendo, lasciavano una figlia maggio- renne, e questa poi dichiarava dinanzi alla sua parentela più prossima di voler rimanere sempre nubile (virgjineshë)2, e non vi fossero stati

maschi adulti in famiglia, essa assumeva il maneggio degli affari.

4.1. Le virgjineshë. In linea generale possiamo affermare che queste erano delle donne che per vari motivi giuravano, innanzi a testimoni e mallevadori, che sarebbero rimaste nubili e non avreb- bero avuto figli per tutto il resto della loro vita. Così descrive questo voto M. E. Durham: “If she could find twelve elders of her tribe group to act as con–jurors she could swear perpetual virginity. If she broke the vow the honour of the con–jurors was blackened and a

1 «Se il marito uccide la moglie, o il figlio uccide la madre, cadono in

sangue con i genitori della donna. Lo stesso vale per ferite da arma da fuoco, da taglio o invalidità procurata» (KS § 475).

2 Ci sono diversi termini in molte delle lingue dei Balcani con cui questo

fenomeno viene indicato: virgjineshë o semplicemente virgjin in albanese (alcuni hanno riferito anche dell'uso del termine burrneshë, ma questo in- dica in generale una donna dal carattere risoluto e coraggiosa come un uomo e può essere attribuito a qualsiasi donna; altri hanno riportato il ter- mine più moderno di vajza e betuar, ma questo termine non si riscontra nella letteratura sull’argomento antecedente la seconda metà del XX seco- lo); tobelija(persona vincolata da un voto) in Bosnia; tombelijain Monte- negro; tybelinella variante kosovara dell’albanese. Alcuni studiosi (Tarifa, Young) riportano anche i termini in serbo-croato per indicare donne masco- linizzate: muzana, muskobanj. Come possiamo facilmente notare, i termini albanesi si riferiscono allo stato virginale delle donne in questione, i termini montenegrini, kosovari e bosniaci fanno riferimento al vincolo derivante da un voto. L'etnografo K. Ulqini testimonia di un altro termine utilizzato dagli albanesi islamizzati delle zone montuose del Mat: sadik. Questo termine, di origine turca, significa “fedele” (Ulqini 1961: 161).

blood–feud ensued. It was not easy for her to find twelve con–jurors” (Durham, 1928: 194.). Questo, ripetiamo, in linea generale, giacché molte delle virgjineshëdi cui abbiamo notizia non hanno fatto questo tipo di giuramento.

I motivi che potevano portare a questa decisione erano diver- si:1) evitare un matrimonio indesiderato; 2) poter gestire il patrimo- nio familiare in caso di morte dei genitori e di assenza di maschi adulti (15 anni) in casa; 3) amor filiale; 4) per un voto. Nel caso in cui, tuttavia, una ragazza non si fosse sposata permotivi di salute, fisica o mentale, non era definita virgjineshë (KS § 986).

1) Evitare un matrimonio indesiderato. Premesso che il matri- monio non era affare personale ma familiare e la donna non aveva diritto di interessarsi della scelta del proprio futuro marito e che a ciò pensavano i maschi della sua famiglia, l’unico modo che una fan- ciulla aveva per evitare il matrimonio (questo valeva sia per le cat- toliche che per le musulmane) era quello di manifestare alla propria famiglia l’intenzione di rimanere per sempre«vergine»: questa era obbligata a chiamare dei mallevadori (dorzan), i quali dovevano farsi garanti del fatto che non sarebbe mai passata ad altro marito, inoltre era tenuta a restituire l’eventuale compenso (merqiri) ricevuto dalla famiglia del fidanzatoin previsione delle nozze (Cozzi 1912, p. 318; cfr. KS §§ 985, 990).

2) Poter gestire il patrimonio familiare. Come abbiamo accen- nato in precedenza, se i genitori, morendo, lasciavano una figlia maggiorenne, e questa poi dichiarava dinanzi alla sua parentela più prossima di rimanere sempre virgjineshëe non ci fossero stati maschi adulti in famiglia, essa assumeva il maneggio degli affari. Quando eventuali fratelli fossero cresciuti, il nuovo capo famiglia avrebbe dovuto agire di comune accordo con lei (Cozzi 1912); se rimaneva orfana una sola figlia e senza avere altri congiunti maschi, questa di solito poteva godere dell’eredità paterna finché fosse rimasta «ver- gine», cosa che normalmente le fanciulle orfane non potevano fare, essendo costrette ad andare a vivere sotto la tutela del parente maschio più prossimo della fratria paterna. Tuttavia, se nella sua famiglia ci fossero stati altri maschi adulti, questi avrebbero dovuto provvedere al suo sostentamento anche se fosse diventata virgji- neshë. Se poi gli eredi avessero deciso di dividere la sostanza, questa

veniva divisa in parti uguali fra essi comprendendovi pure la «vergi- ne», la quale poi fino alla sua morte poteva amministrare la sua por- zione godendone tutto l’usufrutto: alla morte poi la sua parte di ere- dità sarebbe tornata agli eredi maschi (ibid.).

Il diritto di eredità, che talvolta veniva accordato alle donne con lo stato di «vergini», e che normalmente non era concesso alle donne1, era uno dei motivi più frequenti che spingeva le ragazze a

fare questa scelta2.

3) Amor filiale. Un altro motivo per rimanere “vergine” poteva venir dato dall'amor filiale, nel caso in cui i genitori della ragazza fossero stati inabili al loro sostentamento e non avessero avuto altri figli maschi, la figlia per non abbandonarli e per poterli aiutare rinunciava volontariamente almatrimonio. Tuttavia questo caso era molto raro essendo per i genitori una vergogna il non maritare la propria prole.

4) Per un voto. Nel Kanun di Skanderbeg si afferma che una ragazza poteva diventarevirgjineshë anche për shpirt, “per l’anima” e cioè per un voto3. Queste donne, potevano in una certa misura ve-

stirsi e comportarsi come gli uomini, senza tuttavia acquisirne i diritti (ad es. non potevano alienare la sostanza familiare, non avevano di- ritto di voto nelle assemblee).

La loro nuova condizione non permetteva di avere un ruolo particolare nei riti religiosi, né consentiva di far parte di un gruppo organizzato, tanto è vero che esse normalmente non avevano contatti fra loro, quindi, come precisa Cozzi: «le “vergini” non formano una vera casta, né loro competono, oltre quelli accennati, altri diritti o

1 Tale disposizione del Kanun trova la sua spiegazione nel fatto che, se

la donna avesse ereditato, si sarebbero introdotti elementi stranieri nelle singole tribù, diminuendo il vincolo di coesione e di indipendenza.

2 “In base al principio delle leggi consuetudinarie che «due ragazze for-

mano un maschio», se due figlie rimangono orfane, e dichiarano di rimanere «vergini», esse godono vita natural durante l’usufrutto di tutta la sostanza paterna, sebbene vi sianoaltri eredi maschi” (Cozzi 1912: 318).

3 Cfr. KS§ 985. La nostra interpretazione è che tale istituto sia dovuto a

una reinterpretazione locale del celibato ascetico femminile di stampo cat- tolico, poi estesosi anche a comunità di fede diversa. Per un'analisi delle fonti e una più precisa ricostruzione del fenomeno, si vedano Martucci 2014: 35–60; 2018: 53–90.

privilegi maschili, bensì giova ripetere, che esse vengono considerate in tutto e per tutto quali donne, con la sola differenza che esse godono l’intera disistima dei loro connazionali» (Cozzi 1943: 319– 320; cfr. Valentini 1945: 30.). Bisogna inoltre precisare che la nuova condizione delle “vergini giurate” non aveva nulla a che fare con l’omosessualità (Young 2001: 57–59). Come ci fa notare già la Dur- ham, le “vergini giurate” spesso disdegnavano apertamente le donne e il loro grado di misoginia soventemente poteva competere con quello degli uomini: “She treated me with the contempt she appeared to think all petticoats deserved” (Durham 2000: 80).

5. Diritti e doveri delle donne. Come compensazione della