• Non ci sono risultati.

I ruoli della donna nel lessico del Kanun di Skanderbeg.

R UOLI E FUNZIONI FEMMINILI NEL K ANUN DI S KANDERBEG

U N ’ ANALISI ETNOGRAFICA E LINGUISTICA

6. I ruoli della donna nel lessico del Kanun di Skanderbeg.

L’assenza di coerenza e coesione, la mancanza di uniformità termi- nologica sul piano lessicale e le numerose oscillazioni nella grafia riflettono un processo di elaborazione del testo piuttosto frettoloso (Lafe 2017: 97–99), redatto nella varietà del ghego nordorientale del- la comunità di riferimento, abitante nell’area di Kurbin e Mat. Su questa base linguistica si innestano elementi dello scutarino letterario (ghego nordoccidentale) e, a livello lessicale e morfosintattico, dell’albanese standard, introdotti probabilmente con lo scopo di superare un ristretto ambito regionale (ibid.). Nonostante il carattere ibrido, il testo offre un quadro prezioso per comprendere la struttura organizzativa di una società con un marcato carattere patriarcale nella quale l’universo femminile trova poco spazio. Non deve sor- prendere, quindi, che nel testo del Kanuni i Skanderbegut non siano molto frequenti i termini che si riferiscono alla sfera femminile, dato che l’impianto sociale è di tipo rigorosamente patrilineare; la donna ricopre infatti una posizione rigidamente subordinata rispetto a quella dell’uomo, anche se occupa tuttavia un ruolo insostituibile per garan- tire la discendenza e assicurare una buona gestione dell’economia domestica.

Il primo riferimento alla presenza femminile si incontra all’ini- zio del corpus, nei capitoli iniziali che definiscono l’assetto dei rapporti sociali all’interno della società del Kanun. Dopo il capitolo

dedicato al fis, un termine di origine greca1 che si riferisce alla dis-

cendenza di parte maschile, ovvero a “coloro che discendono da un capostipite comune”, nel II capitolo si passa a definire la gjinia, ter- mine mutuato dal greco (bizantino) γενέα (SE IV: 332) “gruppo di persone con legame di sangue”, un lessema utilizzato in riferimento alla parentela in linea femminile, ovvero alla “famiglia e al fis della donna sposata”:

KS I, I, II, 65, p. 22: Gjinia asht shtëpia e fisi i grues se martueme. Gjinia perfshin: Gruen, prindër e saj dhe rrjedhjen e barkut të tyne, brez mbas brezi sa të mbahet mend. “Gjinia è la famiglia della donna sposata. Essa include: la donna, i suoi genitori e la discendenza di prole del loro ventre, di generazione in generazione fin quando risale la memoria”, KdS, p. 128.

KS I, I, II, 70, p. 22: Gjinia rrjedhimisht kunetia shkaktojne disa të drejta e pengesa te caktueme prej kanunit. “Il rapporto di gjinia e, di conseguenza, il rapporto cognatizio, danno luogo a diritti e impedimenti stabiliti dal Kanun”, KdS, p. 128.

Questi rapporti in linea femminile prevedono, come in altre lingue dei Balcani (Fritsche 1977: 157) (e non solo) l’uso di una terminologia parentale, specifica, in alcuni casi, rispetto a quella utilizzata per definire i rapporti in linea maschile. Un esempio interessante nel testo in esame è costituito dal termine baxhanakë che compare nel capitolo II per indicare “mariti di sorelle”:

KS I, I, II, 69, p. 22: Burrat e motrave në mes tyne quhen baxhanakë. “I mariti di sorelle tra di loro sono definiti baxhanak”, KdS, p. 128.

Si tratta di una forma mutuata dal turco bacanak (FO: 68), che riflette la ricchezza e la varietà di apporti del lessico albanese. Un altro prestito dal turco è costituito da selem “pagamento anticipato di un prodotto non ancora in circolazione” (FO: 895) che designa i beni della donna sposata:

KS I, IV, XLVI, 521, p. 48: Selemi i grues qe s’len fëmijë, shkon mbas pajës. “I beni della donna che non lascia figli seguono la dote”, KdS, p. 181.

1 Il termine è mutuato dal neogreco o dal mediogreco φύσις “natura,

Nel capitolo IV dedicato a “Fidanzamento e Matrimonio” (Kreu IV, Fejesa e Martesa), e nel X (Kreu X, Trashigimi) che tratta “Eredità” si incontrano altre denominazioni legate alla realtà femminile, utilizzate spesso per definire funzioni variabili in base a età e status sociale. Lo svolgimento di determinate pratiche rituali se- gnalano la transizione da un ruolo all’altro, permettendo di accedere a nuovi ruoli che sono puntualmente registrati nella lingua del testo. Non appena raggiunge la pubertà, la giovane, viene definita con due termini entrambi appartenenti allo strato autoctono del lessico alba- nese, vajzë, forma diffusa anche nello standard e in tutte le varietà albanesi, accanto a cucë, forma utilizzata più di rado che costituisce una variante dialettale, tipica delle aree orientali e centrali del dialetto ghego (FE: 311):

KS I, VI, VIII, 721, p. 60: Me kenë tue udhtue nuse e cucë, kjo prinë, nusja mbas sajë. “Se una sposa e una fanciulla viaggiano insieme, la fanciulla precede e la sposa segue”, KdS, p. 201.

Il rituale di passaggio del matrimonio cambia lo status della giovane che da vajzë si trasforma in nuse “sposa”, un altro lessema che appartiene allo strato autoctono1.

KS I, IV, XVI, 268, p. 33: Darsma në kanu asht marrja e nuses dhe qitja nuse e vajzës, me krushq darsmor, miq e shokë dhe gosta qe u shtrohet atyne. “Le nozze, secondo il Kanun, consistono nel prendere la sposa e nel fare uscire la ragazza come sposa con paraninfi, festeggianti amici e compagni e il banchetto che viene bandito per l’occasione”, KdS, p. 151.

Il Kanun fissa anche delle regole precise in base alle quali si possa definire o meno nuse la giovane che muore poco prima delle nozze, celebrate secondo il rito cattolico o mussulmano. La distin- zione è importante perché ha delle conseguenze sulla restituzione della dote:

KS I, IV, XLVII, 543, p. 49: Ma vdekë nusja diten e darsmes para dreke, veshë a pa veshë nuse, paja i kalon dhandrrit: Asht vaj-

zë. Po vdiq nji orë mbas dreke, veshë a pa veshë nuse, paja i mbet

1 Cfr. AE, p. 302, SE VI, p. 96. Risulta difficile, come propone Topalli

in FE, p. 1096, accettare la derivazione dal latino nuptiae, sia per le difficoltà di ordine fonetico, che semantico, cfr. Bonnet 1999: 26.

prindve të sajë: quhet grue. “Se la sposa (nusja) muore il giorno del- le nozze prima del pranzo, vestita o meno da sposa, la dote passa allo sposo: è fanciulla (vajzë). Se muore un’ora dopo pranzo, vestita o meno da sposa, la dote rimane ai suoi genitori: è detta donna (grue)”, KdS, p. 183.

KS I, IV, XIII, 249, p. 32: Për muhamedanët po vdiq nusja para dreke, kjoft e veshun nusease jo, quhet cucë e paja e saj, kthehet dhandrrit. Po vdiq mbas dreke, e veshun nusease jo, quhet nuse e paja u mbetet prindve të saj. “Per i mussulmani, se la sposa muore il giorno delle nozze prima del pranzo, vestita da sposa o no, è con- siderata fanciulla e la sua dote viene restituita allo sposo. Se muore dopo il pranzo delle nozze, sia essa vestita da sposa o no, è considerata sposa e la sua dote rimane ai suoi genitori” (KdS: 148– 149).

Nel Kanun di Skanderbeg e nelle altre raccolte di diritto consuetudinario, diffuse in diverse aree dell’Albania (in particolare settentrionale), vengono menzionati diversi tipi di unioni, ma solo alla regolare martesa me kunore letteralmente “il matrimonio con corona” viene accordata piena legittimità. L’espressione, che riflette l’uso di porre una corona sopra la testa degli sposi (Genesin 2005: 262), è passata generalmente a indicare il matrimonio religioso, celebrato secondo le due forme del rito, cattolico (cf. Articolo XXXII, Kunora fetare katolike), o mussulmano (Art. XXXIII Kunora fetare muhamedane), ammesse nella comunità di riferimento del Kanuni i Skanderbegut. A differenza del Kanuni i Lek Duka- gjinit, che rifletteva le consuetudini di una popolazione quasi esclu- sivamente cattolica, quello di Skanderbeg si rivolgeva a una comu- nità mista, composta da cattolici e mussulmani: esso doveva quindi prevedere degli articoli specifici per i fedeli dell’una o dell’altra fede, articoli che potevano anche risultare tra loro assai discordanti, come nell’esempio seguente che ammette la po- ligamia:

KS I, IV, VII, 169, p. 28: Burri muhamedan i lidhun me kunor të parë, mundet me marrë grue e gra të tjera, kjoftë kur i lshon e kjoft kur e mban tjetren e të tjerat qe ka me kunorë e pa kunorë. “L’uomo mussulmano, sposato una prima volta con corona, può prendere un’altra moglie o più mogli, sia quando dovesse lasciare la

precedente, che quando dovesse tenere le altre mogli che ha sposato con corona o senza corona”, KdS, p. 140.

Oltre a ciò, alla grueja pa kunore, ovvero alla donna che non si sia sposata in accordo con le regole del Kanun, o concubina, non viene concessa la possibilità di essere scelta come zojë shtëpie “padrona di casa”:

KS I, IV, XXXVI, 427, p. 43: Grueja e pa kunorë, në shtëpi të madhe, nuk zgidhet zojë shtëpie, ajo kqyret kurdoherë si e huej, e panderë dhe e mallkueme. “La donna senza corona, in una grande famiglia, non è eletta padrona di casa, lei è sempre considerata come un’estranea, disonorata e dannata”, KdS, p. 171.

L’ingresso della nusja e re “la sposa novella” nella nuova casa è festeggiato con alcuni riti propiziatori di fortuna, prosperità e fecondità:

KS I, IV, XXV, 356, p. 38: Kur të bajë nusja me kapercye shqimin e deres (prakun) do të kalojë mbi nji filxhan me mjaltë. Ajo mjaltë i jepet sa dhandrrit sa nuses. Asht shej urimi: Ju shkoftë ambel moti e jeta. Vende vende nusja do të lyej me mjaltë dyreket e derës, apo prekë nji copë bukë, kapercen nji sahat apo nji gja sermi, dhe të gjithë këto janë sheje urimi per nji jetë të lumtun. “Quando la sposa sta per varcare la soglia di casa, passerà su una tazzina con miele. Quel miele viene dato allo sposo e alla sposa. È un segno di augurio: Che la vostra vita possa trascorrere dolce come il miele. La sposa ungerà di miele alcuni punti delle travi della porta, oppure toccherà un pezzo di pane, passerà sopra un orologio o un oggetto d’argento e tutti questi sono segni di un augurio per una vita felice”, KdS, p. 161.

KS I, IV, XXIV, 357, p. 38: Mbasi nusja të jetë ulë në karrigë, shkon baba i dhandrrit, ungji i tij apo nji ma i afermi e e zbulon nusen, tue ia çue duvakun syper ballit e mandej gratë ia hjekin fare e atëherë ia venë në prehen djalin e vogel. Si i hjekin djalin prej prehni i opin kafen e kur e ulë filxhanin në tabake, s’thotë asnji fjalë, por len aty nji pare. Ajo tashti asht ba nji e shtëpisë, në shtëpi të vet. “Dopo che la sposa si sarà seduta su una sedia, il padre dello sposo, lo zio, oppure il parente più stretto va e la scopre, levandole il duvak (velo nuziale) sopra la fronte e dopo le donne glielo tolgono del tutto ed è allora che le mettono sul grembo il piccolo maschietto. Dopo che portano via il bambino, le danno il caffè e quando la sposa posa

la tazzina sul vassoio non dice niente, ma mette sul vassoio una mo- netina. La sposa è diventata una della famiglia, ormai è a casa sua.”, KdS, p. 161.

Dopo il matrimonio (martesa) la gruja e martueme1 “la donna

sposata” deve attendere alle faccende domestiche, rimanere sotto- messa alla volontà del marito, tenere un comportamento riservato e rispettoso perché:

KS IV, II, II, 1888, p. 127: Grueja shqiptare asht ndera e prindve dhe e shtepisë së burrit të vet. “La donna albanese è l’onore dei suoi genitori e della famiglia del proprio marito”, KdS, p. 323.

Un altro momento centrale che segna un’importante tappa di passaggio è costituito dalla nascita del primo figlio (art. XXXV Fëmija e parë):

KS I, IV, XXV, 423, p. 43: Grueja e djergun nuk del shtepie as s’pershëndetet me kend as në shtepi as jashtë deri qe të hyjë nder uratë. Djergunia ngiatë rreth tri javë. Dhe kur grueja e djergun shkon me hy në kishë, do të percillet prej njaj grueje a fëmije dhe shkon e mertysun der në sy, dhe shaminë a rizën e ngrenë vetem mbasi t’i jenë ba lutjet në kishë. Kshtu merr fund djergunia. “La puerpera non esce di casa, e neanche saluta qualcuno, né a casa, né fuori, fino a quando non avrà avuto la benedizione. Il puerperio dura fino a tre settimane e quando la puerpera andrà in chiesa sarà accompagnata da una donna o un bambino e ci andrà coperta fino agli occhi. Il fazzoletto o il velo le sarà levato dopo che le saranno fatte le preghiere in chiesa. Così finisce il puerperio” (KdS, p. 171).

Come è evidente dall’esempio sopra riportato, il testo del Kanun elenca con grande precisione alcune prescrizioni a cui si deve attenere la puerpera, grueja e djergun, definita attraverso un sin- tagma costituito dal participio aggettivale djergun, tipico del ghego, che rimonta a una forma verbale etimologicamente opaca2.

1 Si tratta di una formazione participiale, costruita sul tema verbale

mart-oj < latino maritāre, cfr. Bonnet 1999, p. 297.

2 Il verbo dergjem, u dorgja “discendere”, Bashkimi, p. 515,

“discendere, cadere ammalato” Cordignano, p. 26. Per l’etimo v. FE, p. 317, Genesin 2005, p. 102. Lo sviluppo semantico è parallelo al tedesco

niederkommen originariamente “venire giù” → “partorire”, cfr. Deutsches Wörterbuch von Jacob und Wilhelm Grimm im Internet,

La donna che abbandona la casa maritale, ruba, oppure si mac- chia del reato di adulterio, ricoprendo di disonore la casa, mina col suo comportamento uno dei valori fondamentali della società tradizionale: l’onore (nderi). In questi casi il marito è autorizzato a porre mano al fucile, perché ha il diritto di difendere la sua re- putazione attraverso la “concessione della cartuccia”, un’espressione che si incontra anche in altri testi kanunari (Genesin 2014: 260 ss.):

KS V, I, IV, 2290, p. 151: Fajet per te cilat zakonisht lshohet fisheku janë […] 6) Per grue qe ik, qe vjedh; 7) Per grue buqë qe gjindet keq, fishekun e lshon kanuni. “Le colpe per le quali viene concessa la cartuccia in genere sono […] 6) Per la donna che fugge, che ruba; 7) Per la donna cagna che è colta in flagrante la cartuccia è concessa dal Kanun”, KdS, p. 365

L’adultera, la donna che si pone in contrasto con la morale sessuale accettata dalla comunità, grueja e pa ndershme, viene connotata con termini dal valore fortemente dispregiativo:

KS VI, III, V, 3396, p. 210: Gjaku i atij qe vritet pse dhunoi grue a vajze duhet të lahet me të holla. Ja ka ba vedit, ai ja ka marrë ftyren per jetë e vedit e grues a vajzes së huej. Grueja e pa ndershme quhet buqë. “Il sangue di colui che viene ucciso per avere messo le mani addosso a una donna o una fanciulla deve essere risarcito in denaro. Lo ha fatto a sé stesso, ha disonorato per sempre sia sé stesso che la donna o la fanciulla altrui. La donna disonesta è chiamata cagna”, KdS, p. 474.

Nel KS si incontrano due lessemi, buqë e lojce, che si riferiscono alla grueja e pa ndershme, la donna che si è macchiata della colpa di adulterio e che, secondo la dura legge del Kanun, merita di pagare con la vita il suo comportamento eticamente inaccettabile:

KS IV, II, II, 1889: Grueja vritet vetem kur te bahet buqë asegjindet keq. Në këte rasë fishekun e lëshon vetë kanuni në ship- nëtë sajë. “La donna e uccisa solo quando diventa troia (donna senza onore) o quando viene colta in flagrante. In questo caso la cartuccia sulla sua schiena la concede il Kanun”, KdS, p. 323.

http://woerterbuchnetz.de/cgi-

bin/WBNetz/wbgui_py?sigle=DWB&mode=Vernetzung&lemid=GN05220 #XGN05220

KS I, IV, XXXIX, 449: […] Në qoftë se ajo grue asht lojce,prindet e sajë, ma në fund, do ta percjellin me fishek në shpinë.[…] “Se quella donna è di dubbia moralità i suoi genitori allafine la accompagneranno dallo sposo con una cartuccia sulla schiena (me fishek në shpinë)”, KdS, p. 174.

La forma buqë è diffusa nel registro colloquiale e rappresenta un diminutivo costruito attraverso il suffisso -çë (Xhuvani, Çabej 1976: 217) sul lessema di origine autoctona bushtër1, indicante la

femmina del cane. Il termine lojce va invece ricollegato a lojc, -e “mobile; volubile” (FGjSh: 276), ma anche “astuto” e, in riferimento al comportamento femminile, “civettuola”, un aggettivo etimologi- camente correlato ai verbi luaj “muoversi, spostare, giocare” e loz “giocare”, risalenti al fondo autoctono della lingua (Genesin 2005: 63–64).

Altri ruoli femminili a cui nel Kanun vengono dedicati alcuni articoli sono la vedova e la virgjineshë, due figure a cui viene riservata una maggiore libertà di azione rispetto alle rigide norme che regolano il ruolo femminile. La donna vedova è infatti libera di organizzare il proprio matrimonio, se vuole risposarsi, o addirittura si prevede che possa scegliersi da sé il marito:

KS I, IV, VI, 164, p. 28: Grueja e vejë, flet vetë per fejesës e martes të vet. Kanuja thotë se “grueja e vejë i kthen krushqit n’udhë”. Ajo ka të drejtë me e zgjedh vetë burrin e vet, ashtu edhe shkuesin, kurse të gjitha punët e tjera të fejesës e të martesës së vet u’a len atyne ku të jetë pshtet, sidomos prindve po i pat. “La donna vedova parla da sé del proprio fidanzamento e matrimonio. Il Kanun dice che «la donna vedova fa tornare indietro i paraninfi». Lei ha il diritto di scegliere da sola il proprio marito, così come lo shkues, mentre tutte le incombenze del proprio fidanzamento e matrimonio le affida alle persone alle quali è appoggiata, in primo luogo ai suoi genitori, se sono ancora in vita”, KdS, p. 140.

KS I, X, VI, 888, p. 70: Gruen e vejë në ç’do moshe kjoftë, me fëmijë e pa to, qe don me ndejë në plang të burrit të vdekun, nuk mund ta qesin andej as prindët e vet as shtëpia e burrit e fisi i këtij.

502: Vejusha mund të dali prej shtëpisë burrit të vdekun, jo

1 Il lessema è probabilmente di origine onomatopeica, come suggeriva

ma parë se tre muej e dhetë dite nga dita e vdekjes se tij, qe të vertetohet në se asht apo jo shtatzanë. “La donna vedova, di qualsiasi età, con o senza figli, che vuole rimanere a casa del marito defunto, né può essere mandata via dalla famiglia e dal fis del marito defunto, né può essere richiamata dalla propria famiglia”, KdS, p. 218.

Anch’essa deve però sottostare a determinate condizioni: KS I, IV, XLV, 501, p. 47: Me vdeke burri pa mbushë 12 muej martesë, paja e vejushes së tij mbetet në vend, e kur të doli, del vetem me çka tëket veshë. “Se il marito muore prima che si compiano 12 mesi di matrimonio, la dote della sua vedova rimane dov’è, e quando esce dalla casa del marito porta con sé solo i vestiti che ha addosso”, KdS, p. 179.

Come si può notare nei due esempi precedenti, il sintagma aggettivale grueja e vejëe la forma vejushë, costruita utilizzando il suffisso diminutivo -ushë1, sono utilizzati nel testo per indicare la

donna vedova. Le due espressioni sono costruite sull’aggettivo e vejë che è diffuso anche nella lingua standard e appartiene allo strato lessicale autoctono attraverso la forma *h2widh-éw-eh2– (cf. vedico

vidháva-, latino vidua, antico slavo ecclesiastico vьdova etc.) (LIV: 294). Il termine che si riferisce alla “vergine giurata” continua invece a forma latina virgine(m)2 e, come si osserva nel paragrafo 4.1., indica una figura conosciuta anche in altre culture tradizionali dei Balcani.

Termini specifici che si riferiscono alla realtà femminile occorrono in un altro evento rituale, il funerale che, come matrimonio e nascita, costituisce un’occasione che serve a rinsaldare il senso di appartenenza alla comunità e sancisce pubblicamente un cambiamento di stato. In contesti di questo tipo il linguaggio ha un ruolo fondamentale, non solo tramite la classificazione esplicita dei partecipanti, dei luoghi, degli oggetti che costituiscono il contesto di interazione, ma anche negli atti linguistici e negli scambi verbali. Nell’ambito del rituale funerario è infatti ben distinto il momento in cui intervengono i cantori funebri gjamtarët3 da quello in cui si

1 Per il suffisso -ushë cfr. Xhuvani, Çabej 1976: 293.

2 Cfr. FE: 1573, per il suffisso -eshë v. Xhuvani, Çabej 1976: 225–226. 3 Si tratta di un nomen agentis costruito sul sostantivo gjamë “lamento”,

presentano le donne con il vajtimi, un termine di origine onoma- topeica1 che designa “il lamento”:

KS I, IX, IV, 767, p. 63: Kur gjamtarët vijnë në cep të oborrit, u del para nji i shtëpisë së vdekunit, dhe ai pershëndetet me ta, i percjellë afer të vdekunit dhe ata menjiherë fillojnëgjamen, me za të fortë e të thekshem tue thanë: “I mjeri unë per ty, miku im, i mjeri un’ooo” e kështu per tri herë rresht.“Quando i gjamtarë(cantori funebri) arrivano all’angolo del cortile sono ricevuti da un familiare del defunto, che li saluta e li accompagna vicino al defunto e loro subito iniziano il lamento funebre (gjamë), con voce alta e straziante, dicendo: «Misero me per te, amico mio, misero me, oooh» e così per tre volte di seguito”, KdS, p. 206.

KS I, IX, IV, 774, p. 63: Kur burrat fillojnë gjamën, gratë lanë