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La condizione occupazionale e il precariato degli assistenti sociali »

Nel documento Il precariato nei Servizi sociali. (pagine 83-87)

PARTE II: La precarietà, il Welfare State e gli assistenti social

II. La condizione occupazionale e il precariato degli assistenti sociali »

I dati della ricerca condotta da Carla Facchini (2010) testimoniano non solo l’aumento della problematicità occupazionale delle coorti più giovani, ma anche il ruolo svolto dalle trasformazioni in atto sia per l’offerta che per la domanda di lavoro. Il ridimensionamento delle risorse destinate al sociale e l’aumento di laureati in servizio sociale hanno costituito un importante ostacolo occupazionale per gli assistenti sociali.

Diventare assistente sociale fino agli anni Novanta era considerato relativamente “facile”; costituiva un titolo forte e sicuro dal punto di vista lavorativo. A conferma di questo lo testimoniano i dati della ricerca in questione.

I cinquantenni hanno iniziato a lavorare come assistenti sociali quasi totalmente nel pubblico direttamente con contratto a tempo indeterminato e sono “stabilizzati” dal punto di vista contrattuale. In questo nucleo ciò che ci preme sottolineare è la stabilità e la continuità occupazionale: una grossa parte di questi operatori lavora ancor oggi presso lo stesso ente in

cui aveva iniziato, senza mai sperimentare altri contesti e ciò ha anche portato ad avere vantaggi in termini di carriera.

Una parte dei quarantenni è entrata nel mercato con contratti a tempo determinato che nel tempo però si sono trasformati in contratti a tempo indeterminato. La stabilizzazione, tuttavia, non ha coinvolto l’intera coorte in esame dove i più sfortunati sono stati condotti nella trappola della precarietà.

Infine, i più giovani che hanno ovviamente iniziato a lavorare più tardi come assistenti sociali ma sono anche coloro i quali hanno sperimentato e sperimentano più forme contrattuali atipiche. La mobilità tra un servizio e l’altro sembra essere il destino dei nuovi assistenti sociali.

Il principale nodo nei percorsi lavorativi è la “precarietà/stabilità occupazionale, nell’ottica di una progressiva stabilizzazione intesa come il raggiungimento di un contratto a tempo indeterminato. Un obiettivo, questo, che rischia di non essere raggiungibile da tutti per le attuali condizioni di mercato” (ibidem; p. 121).

La figura dell’assistente sociale, sin dagli esordi, ha fatto prevalere le spinte ideali e motivazionali di carattere etico su quelle legate alla propria affermazione personale, carrieristica e retributiva. E questo è presente ancora oggi dove “l’immagine che emerge è quella di una professione che non viene di norma scelta per gli incentivi economici remunerativi” (Benedetti e Fazzi; 2003; p. 25). Sembra perciò che la relativa stabilità occupazionale sia di per sé sufficiente per il professionista; l’aspetto retributivo e l’aspirazione a ruoli dirigenziali non sembrano essere gli elementi fondamentali che spingono a scegliere questa professione.

Veniamo ora ai tipi di contratto degli assistenti sociali.

I dati Censis del 2008 evidenziano che la grande maggioranza dei rapporti di lavoro è a tempo indeterminato (70,4%), il 12,3% ha un contratto a tempo determinato, il 10,6% ha un contratto a progetto ed un 6,7% comunica di avere altre forme contrattuali. Questi dati, confrontati con quelli del 1999, evidenziano cambiamenti importanti per la distribuzione dei contratti a tempo determinato. Questa tipologia contrattuale è diminuita drasticamente; nello stesso periodo sono aumentati i rapporti di lavoro a progetto. Inoltre, si evince un dimezzamento dei soci di cooperativa e di contratti occasionali. Come si possono spiegare questi dati? Innanzitutto i tagli economici alla pubblica amministrazione hanno comportato importanti riduzioni delle assunzioni sia dirette che tramite terzi, il che ha lasciato scoperti

posti lavorativi anche per lunghi periodi. Contemporaneamente, il maggior uso di contratti a progetto si deve al mancato ricorso alla libera professione e all’assunzione tramite cooperative.

Sempre la ricerca condotta da Carla Facchini (2010) sottolinea come i contratti a tempo indeterminato siano proporzionali al livello di anzianità di servizio: dal 34% di chi ha un’anzianità inferiore a 5 anni lavorativi, si sale al 76,4% per chi ha un’anzianità tra i 6 e i 15 anni, fino al 97,1% per chi ha più di 26 anni di servizio. All’opposto, la diffusione di forme contrattuali atipiche si concentra nella coorte più giovane con il 52,6%. Questa ricerca evidenzia anche forti discrepanze territoriali: si rileva maggior stabilità occupazionale e maggior occupazione nelle regioni del Nord Italia, mentre sono più instabili le aree meridionali e le isole (Ibidem; p. 148).

La situazione reddituale e contrattuale più diffusa è l’impiego presso un ente locale con contratto a tempo indeterminato ed una retribuzione tra i 1.000 e i 1.500 euro. A questa, si affiancano gli assistenti sociali all’apice della carriera e con retribuzioni dirigenziali che lavorano presso enti pubblici e ministeri. Ben diversa è la condizione dei giovani: sono assunti con contratti a termine o a progetto, presso cooperative, con retribuzioni attorno ai 750 euro.

“La loro condizione di fragilità deriva dal sommarsi di bassi redditi ed instabilità lavorativa […] Dalla nostra indagine emerge che il perdurare di contratti atipici e di retribuzioni inferiori ai 1.000 euro perdurano anche dopo 4 anni di lavoro” (Fiore e Puccio in Facchini; 2010; p. 157).

Queste condizioni potrebbero essere transitorie del percorso lavorativo ma le attuali riforme del mercato del lavoro e della pubblica amministrazione sembrano stabilizzare la precarietà. Al di là delle ripercussioni sulla sfera privata che abbiamo già avuto modo di esaminare, quali sono le conseguenze per i servizi?

“[…] Il problema non riguarda solo i destini e le carriere degli assistenti sociali. Se un eccesso di stabilità, inteso come assenza di mutamenti per tutto l’arco della vita lavorativa, può rischiare di trasformarsi in immobilismo e irrigidimento rispetto all’acquisizione di nuove competenze ed esperienze, e quindi di riduzione della qualità dei servizi, un turnover accentuato degli operatori può provocare, e sta provocando, gravi problemi nell’erogazione di adeguate prestazioni professionali. In molti settori […] siamo in presenza di casi complessi che richiedono forme di sostegno e di accompagnamento prolungate nel tempo […]. Risulta un elemento fondamentale per affrontare positivamente le esperienze di vita più complesse la presenza di operatori con cui si costruisce nel tempo un rapporto di fiducia e di partnership. La presenza di operatori con basso turnover, che possono costituire punti di riferimento costanti nel tempo, diventa allora un requisito indispensabile per garantire la qualità degli interventi erogati. L’elevato turnover non è solo un problema occupazionale, diventa una questione che va affrontata con la massima attenzione nella gestione dei servizi e delle politiche” (Facchini; 2010; pp. 121-122).

Infine, è da considerare che i dati in nostro possesso risalgono a qualche anno fa. Ora, la percezione è che si siano moltiplicate ulteriormente queste forme contrattuali atipiche e con esse stanno crescendo importanti lacune nel sistema dei servizi che stanno snaturando la portata del Welfare stesso.

Nel documento Il precariato nei Servizi sociali. (pagine 83-87)