13 AA.VV., Temi, conoscenza, conservazione, valorizzazione degli ex ospedali psichiatrici italiani, in «TERRITORIO», n.65, 2013, pp. 60-105
14 Il mito della fondazione di Roma è tramandato da diversi autori antichi; sinteticamente Raymond Bloch nel suo libro sulle origini di Roma scrive «altri autori, come Ovidio, nel libro IV dei Fasti, descrivono nei particolari i riti usati durante la fondazione. Romolo segna il tracciato delle mura scavando un solco attorno al Palatino con un vomere al quale sono aggiogati una vacca e un toro: lungo questo solco primordiale i cittadini poi getteranno le fondamenta delle nuove mura». Bloch R., Le origini di Roma, il Saggiatore, Milano, 1960, p.48
15 Sull’importanza nell’antichità dei rituali legati ai confi ni vedi Rykwert J., L’idea di città, Einaudi, Torino, 1981 16 Zanini P., op.cit., 1997, p.7-8
17 Agamben G., Homo sacer, Einaudi, Torino, 1995. Agamben scrive che in un campo «ciò che in esso è escluso, è, secondo il signifi cato etimologico del termine eccezione (ex-capere), preso fuori, incluso attraverso la sua stessa esclusione». Essere dentro il campo signifi ca allora muoversi «in una zona di indistinzione fra esterno e interno, eccezione e regola, lecito e illecito» pp.189-190
18 Oltre alle già citate violenze perpetuate in alcuni manicomi durante gli anni di esercizio, si fa riferimento a casi simili a quello del maestro elementare Franco Mastrogiovanni, 58 anni: ricoverato per un Trattamento Sanitario Obbligatorio, durato quattro giorni, legato mani e piedi e tenuto senza mangiare nel reparto di Psichiatria dell’ospedale di Vallo della Lucania (Salerno) è morto per edema polmonare, per asfi ssia provocata dalla “contenzione”, il 4 agosto del 2009.
19 Fabietti U., La costruzione dei confi ni in antropologia. Pratiche e rappresentazioni, in Salvatici S. (a cura di), Confi ni: costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Rubbettino Soveria Mannelli, 2005, p. 177
20 Lefebvre H., Il diritto alla città, ombre corte, Verona, 2014, p.98 (ed. orig. Le droit à la ville, Anthropos, Parigi, 1968)
Il tema del delimitare, del dividere, del diff erenziare, del distinguere è centrale nei miti di fondazione delle città. Secondo il mito14 Romolo fonda Roma tracciando un segno
sacro15 nella terra: un’incisione, un limite che diff erenzia e distingue per la prima volta uno
spazio e gli attribuisce una dimensione, una linea dritta che defi nisce anche una norma da seguire per rimanere nel giusto. La separazione non è quindi solo tra luoghi diff erenti; partendo dallo spazio investe tutti i diff erenti universi dell’uomo: quello religioso – sepa- rando un luogo sacro da un luogo profano – quello temporale – individuando un prima e un dopo – e soprattutto quello morale – distinguendo tra ciò che è “retto” e ciò che è “stor- to”. In tal modo si defi nisce in maniera decisa la direzione da seguire per rimanere dentro i limiti di una comunità e sotto la protezione del suo potere sovrano. A questo proposito Zanini16 sottolinea come, invece, nei tempi più vicini, l’eccezione17, continuamente confer-
mata, sia diventata regola e come in essa abbiano avuto origine e si perpetuino i campi di concentramento “in tutte le loro forme vecchie e nuove”: si è costruito uno spazio in cui, allontanandosi dalla regola, la legge è sospesa e dentro questa sospensione diventa pos- sibile commettere e giustifi care, in nome di una presunta “ragione di stato”, qualunque delitto18.
Il confi ne tra due luoghi è dunque anche quello dato dalle linee invisibili che creano divisioni sociali all’interno della città: il confi ne è simbolo dell’inclusione o dell’esclusione da un ambito comune specifi co. Più che legato alla disciplina architettonica il confi ne so-
ciale nasce come tema antropologico in quanto “studio del modo in cui gli essere umani producono diff erenze individuali e collettive mediante strumenti culturali, di come cioè producono confi ni”19. Segnare la diff erenza con l’altro è tracciare un confi ne. «La stessa
razionalità che pretende di essere globale (organizzatrice, pianifi catrice, unitaria e unifi - cante) si concretizza a livello analitico proiettando sul territorio la separazione. Essa tende a realizzarsi […] in termini di giustapposizioni di ghetti, quello degli operai o degli intellet- tuali, quello degli studenti (campus) o degli stranieri ecc., senza dimenticare il ghetto del tempo libero o della “creatività” ridotta all’hobby e al fai da te»20.
Senza cedere alla tentazione di ripercorrere per intero la storia del confi namento della follia, ampiamente ed esaustivamente tracciata da Foucault dentro la sua Storia della fol- lia nell’età classica, è opportuno rintracciare per la ricerca il senso del porsi sul confi ne del manicomio “a forma moderna”.
Rappresentata su tela da maestri quali J. Bosch e descritta in libretti satirici divenu- ti popolari in Europa a cavallo tra il XV e XVI secolo – primo fra tutti quello di Sebastian Brand21 – la nave dei folli assurge a rappresentazione simbolica di uno spartiacque fonda-
mentale intervenuto nell’approccio alla follia e nel mutamento della percezione del matto all’interno del corpo sociale. Per tutto il Medioevo il folle appartiene alla sfera del sacro, una manifestazione di Dio o del demonio, una maschera del mistero, la personifi cazione della lotta tra Bene e Male. Alla fi ne del XV secolo si osservano i segni di un cambiamento della gestione della follia e l’affi orare di una visione che la pone non più nella sfera mistico- religiosa, ma in quella terrena. Scrive Foucault «Un nuovo oggetto fa la sua apparizione nel Paesaggio immaginario del Rinascimento; ben presto occuperà in esso un posto pri- vilegiato: è la Nave dei folli, strano battello ubriaco che fi la lungo i fi umi della Renania e i canali fi amminghi. […] Il Narrenschiff è evidentemente una creazione letteraria, presa in prestito al vecchio ciclo degli Argonauti […]. Ma di tutti questi vascelli romanzeschi o sa- tirici, il Narrenschiff è il solo che abbia avuto un’esistenza reale, perché sono esistiti questi battelli che trasportavano il loro carico insensato da una città all’altra. I folli allora ave- vano spesso un’esistenza vagabonda. Le città li cacciavano volentieri dalle loro cerchie; li si lasciava scorrazzare in campagne lontane, […] »22. Rintracciare il signifi cato preciso
di questa usanza non è semplice dato che nella maggior parte delle città europee del XV secolo esiste un luogo di detenzione per gli alienati; può darsi che queste navi di folli, che hanno ossessionato l’immaginazione di tutto il primo Rinascimento, siano state delle navi di pellegrinaggio, delle «navi altamente simboliche di insensati alla ricerca della loro ra- gione». Foucault vede in queste migrazioni forzate non solo la necessità sociale di liberarsi da fastidi e disordini ma anche la celebrazione di antiche ritualità di esclusione: «Questa navigazione del pazzo è nello stesso tempo la separazione rigorosa e l’assoluto Passaggio. In un certo senso, essa non fa che sviluppare, lungo tutta una geografi a semi-reale e semi- immaginaria, la situazione “liminare” del folle all’orizzonte dell’inquietudine dell’uomo medievale; situazione insieme simbolizzata e realizzata dal privilegio che ha il folle di es-
sere “rinchiuso” alle “porte” della città: la sua esclusione deve racchiuderlo; se egli non può ALBRECHT DÜRER, DAS NARRENSCHIFF, 1494
21 Nel 1494 esce a Basilea un lungo poema allegorico in versi rimati, dal titolo Das Narrenschiff ovvero La nave dei folli, scritto in dialetto alsaziano dall’umanista e poeta satirico Sebastian Brant. Il tessuto narrativo è corredato da numerose xilografi e, alcune delle quali attribuite al giovane pittore e incisore Albrecht Dürer. E’ il libro tedesco che ha probabilmente avuto più fortuna nei secoli, tradotto e pubblicato in tutta Europa: l’editore Mentelin, per amplifi carne il successo, lo farà tradurre nella lingua internazionale di allora, ossia il latino, con il titolo di Stultifera Navis. Una nave stipata di folli e guidata da folli, si dirige in un viaggio fantastico verso il paradiso dei folli, Narragonien, passando per Schlaraff enland, il Paese di Cuccagna, fi no al tragico epilogo del naufragio fi nale.
22 Foucault M., op.cit, pp. 66-73 IL CONFINAMENTO DEL FOLLE
e non deve avere altra prigione che la “soglia” stessa, lo si trattiene sul luogo di passaggio. È posto all’interno dell’esterno e viceversa».
Il tema dell’esilio in perpetuo movimento per classi sociali non ben accette nella vita urbana, viene riproposto con una carica utopica di trasformazione sociale23 al tempo del-
la retorica della “casa per tutti” da Le Corbusier con il progetto dell’asilo fl ottante. Una chiatta di cemento armato, lunga 80 metri con una grande stanza divisa in tre compar- timenti, autorizzata dai servizi di navigazione fl uviale, con 160 letti, una sala da pranzo, cucine, servizi igienici, lavandini, docce, appartamento del barcaiolo, appartamento del direttore e un giardino pensile in cima alla casa galleggiante doveva ospitare i clochards durante l’inverno24. Un’opera sicuramente “minore” nella vasta biografi a dell’architetto,
non oggetto di monografi a, ma che è riemersa all’interno della vicenda del riconoscimen- to delle opere lecorbusierane nelle liste del patrimonio mondiale dell’umanità25. «La si-
stemazione della Péniche Louise-Catherine, “barcone” in cemento armato, realizzata da Le Corbusier per l’Armée du Salut rappresenta una inedita sperimentazione architettonica di uno spazio collettivo itinerante. A poppa e a prua, l’organizzazione prevede gli alloggi e i servizi igienici riservati rispettivamente ai marinai e al personale. Lo spazio restante, con l’innalzamento del ponte per una altezza libera di 4,15 metri sostenuto da due fi le simmetricamente disposte di pilotis, prevede la successione di diversi dormitori, servi- zi igienici comuni, un refettorio, servizi tecnologici e cucina e, in posizione centrale, la scala principale di accesso al livello più basso dal ponte di coperta. La superfi cie esterna corrispondente alla parte sopraelevata del ponte, con l’estradosso destinata a terrazza praticabile, è interamente fi nestrata sui lati lunghi per facilitare l’aerazione e l’illuminazio- ne dello spazio interno. L’asile fl ottant, pur non avendo subito alterazioni nella originaria confi gurazione si è presentato per diversi anni in stato di abbandono».
Tornando alla follia, nella sua dimensione di confi ne “assoluto”, peregrina “da un al- diquà del mondo a un aldilà” è con l’età classica (dal Rinascimento alla Rivoluzione) “or- meggiata in mezzo alle cose e alle genti”, trattenuta e tenuta ferma nell’ Hospital des fous: l’internamento succede all’imbarco. Il XVII secolo ha creato grandi case di internamento e per un secolo e mezzo i folli sono stati sottoposti al regime di questo internamento. «È tra le mura di questo internamento che Pinel e la psichiatria del XIX secolo incontrarono i folli; è là – non dimentichiamolo – che li lasceranno, non senza gloriarsi di averli “liberati”»26. A
partire dalla metà del XVII secolo la follia è legata ai luoghi dell’internamento, in un amal- gama di problemi di ordine civile, relegata tra le stesse mura e relegata oltre il confi ne del- la ragione. Nel Seicento e ancora di più nel Settecento i poteri politici si devono confron- tare con la necessità di gestire alcune categorie di persone che, pur non classifi cabili come delinquenti, minacciano l’ordine sociale. La ragione dell’internamento è duplice: da un lato un’assistenza caritativa, dall’altro la tutela dell’assetto sociale mediante un sistema di controllo collettivo e di repressione. L’assistenza è essenzialmente concepita come reclu- sione in luoghi separati di quanti, con il loro comportamento deviato e deviante, turbano l’assetto e la tranquillità sociale. L’assistenza psichiatrica è quindi inscindibilmente legata alla repressione. Con la rivoluzione industriale, fra la fi ne del Settecento e l’inizio dell’Ot- PARIS, ARMÉE DU SALUT, ASILE FLOTTANT
PÉNICHE LOUISE CATHERINE, FOTO STORICA
23 Morgan D., The “fl oating asylum”, the Armée du salut and Le Corbusier: A Modernist Heterotopian/Utopian Project in «Utopian Studies», The Pennsylvania State University, Special issue: Utopia and Architecture, Vol.25, n.1, 2014, pp. 87-124
24 Estratto e tradotto da Le Corbusier et Pierre Jeanneret, Oeuvre complète, volume 2, 1929-1934 25 Caccia Gherardini S., Quando il patrimonio aff onda. La Péniche di Le Corbusier a Parigi, in «RA restauro archeologico», Firenze University Press, Vol. 27, n.1, 2018, pp.132-141
26 Foucault M., op. cit., p. 117 ARMÉE DU SALUT
tocento, si concretizzano nuovi strati di marginalizzazione ed emergono nuove necessità di organizzazione e di razionalizzazione sociale nella gestione della follia. Il forte sviluppo del sistema manicomiale, diff erente dalle precedenti forme di asilo, risponde a esigenze politico-sociali e a un compito quanto mai diffi cile: separare secondo l’umanità, la ragione e il diritto, il colpevole dal malato.
Il manicomio rimane dunque un luogo di internamento coatto anziché un centro di terapia e di riabilitazione attiva. Si legge sul Manuale del Donghi27, palesata la corrispon-
denza tra ospedale e manicomio, che «il manicomio presenta però sempre qualche affi ni- tà colle costruzioni carcerarie. […] Nonostante i pietosi intendimenti della psichiatria mo- derna, non si vede come possano evitarsi alcune celle – specialmente per i furiosi pericolo- si – affi ne di attuare una vera e propria segregazione». In un certo senso, con l’istituzione manicomiale la medicina della follia si è distaccata nettamente dalla medicina generale per aver accettato di gestire non la cura ma l’esclusione dalla comunità, rispondendo a un obiettivo tipico di una tecnica di controllo sociale.
Il confi ne del manicomio è, dunque, un elemento di separazione netta che permette ad entrambe le realtà sociali di esistete in maniera totalmente indipendente: Jurij Lot- man, in uno studio sullo spazio artistico, indica «l’ermeticità» come una «proprietà fonda- mentale del confi ne» che separa due spazi28. «Excludere signifi ca letteralmente “chiudere
fuori”, tenere lontano, separato; […] Limitare uno spazio tracciandone i confi ni è un tenta- tivo di annullare la possibilità che al suo interno possa accadere qualcosa di non voluto, di imprevisto, rendendolo se non impossibile almeno molto improbabile»29. Ritorna Erving
Goff man che defi nisce l’istituzione come il luogo circondato da barriere permanenti in cui si mettono in atto tecniche di controllo e in cui è netta la distinzione tra estranei e interni all’istituzione totale: «Nella nostra società occidentale ci sono tipi diversi di istituzioni, al- cune delle quali agiscono con un potere inglobante – seppur discontinuo – più penetrante di altre. Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato nell’impedimento allo scam- bio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fi siche dell’istituzione: porte chiuse, alte mura, fi lo spinato, rocce, corsi d’acqua, foreste e brughiere».
Il confi ne del manicomio, a ben vedere, mette al sicuro chi dal confi ne è escluso: questo aspetto può essere riconsiderato oggi in parallelo al fenomeno defi nito da Zanini come “diritto alla recinzione”30. Davanti all’ossessiva percezione di un pericolo esterno, di
disordine e di sporcizia, avanza sia in Europa che in Italia la richiesta di veder riconosciuta legislativamente la possibilità di tirarsi fuori da un territorio, di isolarsi rispetto a un tutto, auto-segregandosi in uno spazio scelto. La volontà di chiudersi all’interno di un confi ne, al sicuro di un recinto controllato, se negli Stati Uniti è stato all’inizio un fenomeno di esclusivo appannaggio dei miliardari, oggi il caso sembra aver contagiato una grossa fetta della popolazione. Le recinzioni che defi niscono i quartieri residenziali esclusivi, puliti, ste- rilizzati, senza problemi sociali sono esempi di “muri” che tengono fuori, che escludono il diverso, l’altro che rompe l’omologazione, l’omogeneità di reddito, di etnia, di gruppo
CONFINE CERCATO
27 Foucault M., Op.cit, p.687 e p.692
28 Lotman J.M., Struktura chudožestvennogo teksta, (1970), trad. it. La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1972, p. 272
29 Zanini P., op. cit. p.55 30 Zanini P., op. cit. pp.129-133
sociale. «Aree isolate e recintate, realmente extraterritoriali, dotate di complicati siste- mi a circuito chiuso e guardie armate fi no ai denti all’erta ventiquattrore su ventiquattro […]. Tali enclave rigidamente controllate assomigliano straordinariamente ai ghetti etnici dei poveri, ma se ne diff erenziano per un aspetto cruciale: sono state liberamente scelte come un privilegio per il quale si è disposti a pagare un occhio della testa»31. Una gated
community è uno spazio protetto, una porzione di territorio quasi sempre completamente recintata, sorvegliata elettronicamente, pattugliata da una vigilanza privata notte e gior- no, in cui una comunità, spesso caratterizzata dall’omogenea ricchezza dei suoi membri, tende a una completa autonomia rispetto all’esterno, dotandosi di propri servizi, scuole e soprattutto regole. «Al suo interno l’ordine spaziale è tutt’uno con le regole che la stessa comunità si è data»32. In sicurezza, vivere in una gated community assicura che nulla di im-
previsto, casuale o a sorpresa possa accadere. Si potrebbe, a questo punto, avanzare pro- vocatoriamente un’ipotesi di conversione funzionale per gli ex manicomi: trasformando i padiglioni di degenza in unità abitative – funzione tipologicamente vicina – e istallando un sistema di videosorveglianza, molti ex complessi manicomiali ben si adatterebbero a divenire gated communities. Ma è suffi ciente il breve racconto scritto Ballard, esplicita dura critica a questa condizione protettiva e artifi ciale dell’esistenza, per non approfon- dire l’ipotesi. Nell’elegante e raffi nato complesso residenziale di Pangbourne Village, ad ovest di Londra, sebbene recintato da mura e sorvegliato da telecamere, viene commessa una terribile strage; tutti gli abitanti adulti vengono uccisi dai propri fi gli. «[…] gli omicidi non furono altro che l’estrema postilla a un processo di estraniamento dal mondo esterno […] In una società totalmente sana, l’unica libertà è la follia»33.
Alla condizione di “prigionia volontaria” è dedicato il primo progetto di Koolhaas, Exo- dus, or the Voluntary Prisoners of Architecture (1972, con E. Zenghelis), parodia del presun- to potenziale utopico delle enclave urbane e intervento satirico sulle carenze e sui pericoli dell’architettura della metropoli moderna. Dopo aver interpretato in un’esercitazione sco- lastica il muro di Berlino – per cui la “bellezza dell’architettura era direttamente propor-
KOOLHAAS R., MAU B., 1972
EXODUS, OR THE VOLUNTARY PRISONERS OF ARCHITECTURE
31 Bauman Z., Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge, Oxford, 2000 (trad. it., Modernità liquida, Sagittari Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 211)
32 ibidem
33 Ballard J.G., Un gioco da bambini, Anabasi, Milano, 1993, pp.85-86
zionale al suo orrore” – quale «macroggetto» capace di creare con il suo spessore e la sua lunghezza una un’ampia serie di situazioni sociali e psicologiche e un altrettanto ampia gamma di opportunità architettoniche e urbane, Koolhaas dispone al centro di Londra un muro. Mégastructure trouvéè o monumento continuo – memoria volontaria del progetto di Superstudio – è costituito da due imponenti, lunghissimi muri paralleli che racchiudono una fascia di territorio urbano, che può essere letta sia come prigione che come oasi me- tropolitana, suddivisa in dieci settori quadrati che corrispondono ad altrettanti “scenari”: piazze, parchi, residenze private, edifi ci simbolici disegnati solo per grandi linee capaci di generare un fl usso inarrestabile, un esodo vero e proprio dei cittadini verso l’enclave se- parata dal resto della città, «in estasi per la libertà off erta dai loro confi ni architettonici»34.