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Congetture sulla committenza: i rego lieri di Pozzale e il Lume di San Tommaso,

il governo della chiesa cadorina del-

l’arcidiacono Pietro Aleandro.

10 Pieve di Cadore, Archivio antico della Magnifica Comunità di Cadore, busta 113, Materie ecclesia-

stiche. Beni, rendite, legati e livelli, fascicolo 23, Inventari del mobiglio delle chiese nelle visite dell’Ar-

cidiacono 1525-1528, c. 5r. Atto della visita di Pietro Aleandro, arcidiacono di Cadore e pievano di

merito di Giandomenico Zanderigo Rosolo, sulle regole cadorine nella storia: «L ’importanza del patrimonio della chiesa, amministrato dalla Regola, non appare dai primi Laudi, che ne trattano solo limitatamente. La Regola deve al Lume della chiesa, talvolta, una parte dei prodotti del monte, probabilmente a titolo di pensione spettante anticamente ai domìni, o delle offerte per voti fatti. L’amministrazione dei redditi del Lume è ben distinta da quella delle primizie, spettanti e raccolte direttamente dal sacerdote. I giurati devono esigere i redditi ed i regolieri devono manifestare i terreni in loro possesso soggetti al Lume».4Le regole, inoltre, stabiliscono

con i loro Laudi il rispetto delle festività, ad esempio dei santi patroni, nonché il calendario e, si aggiunga, esse ben conoscono e salvaguardano le modalità e precedenze (talora contese) della rappresentanza alle funzioni liturgiche.5

Il Laudo dell’università della villa di Pozzale è del 1370, però dei «monti».6Si conosce la

versione del 1588, nella traduzione del 1756 del notaio Giuseppe Genova, omologata dal vi- cario di Cadore Giulio Pagani il 7 aprile 1757, ed è da ritenersi che, sugli aspetti che qui in- teressano, i contenuti non dovettero essere mutati, almeno nella sostanza, rispetto ai primi anni del Cinquecento, seppure in premessa si dichiari proprio il bisogno di rinnovarlo, e «per l’indigenza de’ tempi presenti aggiunger alcune nuove provisioni, ed alcune antiche riddurre in meglior ordine e disposizione, con che bene e convenientemente sia a tutti li regolieri pre- scritta una Regola di vivere».7

La destinazione di parte delle risorse alla chiesa della villa è esplicitata all’articolo 26: «Item ordinarono che de’ pegni fatti da’ saltarj la terza parte sia del Lume di San Tommaso, terza del marìco, e l’altra terza de’ saltarj, accioché siano più solleciti e diligenti a custodir l’istessa regola e faula».8Si conferma tale contenuto anche al punto 30, a proposito della pena da com-

minarsi a chi non partecipasse alla processione propiziatoria fissata l’ultimo venerdì di maggio: «Item, perché vi è una diuturna consuetudine osservata, che ogn’anno nel dì di venerdì ultimo del mese di maggio si va colle croci attorno il Gei [confini esterni della campagna coltivata presso l’abitato], cantando inni e le litanie ed altre orazioni per la conservazione de’ frutti, perciò fu stabilito che ciascuno per casa sia tenuto mandare una persona di buona vita colle croci predette a pregar divotamente, sotto pena di soldi dieci per ciascuno che non va, da levarsi subito ed applicarsi al Lume di San Tommaso».9

La prassi, come si deduce da documenti di prima mano la cui segnalazione si deve alla cortese e generosa collaborazione di Antonio Genova, offre molti elementi specifici su cui formulare le congetture che si giudicano determinanti a proposito della commissione del ‘polittico’ di Carpaccio, da ritenersi dovuta ai regolieri di Pozzale. Il completamento della ricerca dovrebbe controllare in modo più sistematico la gestione e destinazione «dei prodotti del monte» per l’arco temporale che interessa.

Innanzitutto, tra i dati attualmente a disposizione va messa in luce l’iniziativa di costruzione (o ricostruzione e adeguamento) della chiesa di San Tommaso fin dal 1503. Con una delibera del Consiglio Generale del Cadore del 12 marzo di tale anno Pozzale ottiene licenza di fare 500 tagli nella sua ‘vizza’ per fabbricare la propria chiesa.10Fu uno sforzo vanificato poiché,

fra il 18 e 19 luglio 1509, la chiesa e la stessa villa di Pozzale furono incendiate dalle truppe di Massimiliano I d’Asburgo, le quali misero «a sacco, a fogo, et fiamma mezzo lo paiese no- stro scomenzando Pieve, Pozzale, Sottocastello, et Valle fino in Ampezzo di villa in villa, et di casa in casa».11

Lo si ricorda in un testo copiato a distanza di tanti anni, verosimilmente dal notaio Alessandro Vecellio nel 1571: «Che nelli anni 1508, 1511, due volte il detto luoco di Pieve, et altri luochi furono abbrugiati, saccheggiati, et dipredati, et spogliate le Chiese con tutti li paramenti, et scritture da la Nation Alemanna allora nemica della Illustrissima signoria Nostra di Venezia».12

È da ritenere che alcune delibere dello stesso Consiglio per la locazione di monti della Regola di Pozzale, precedenti questa devastazione, consentissero di sostenere le spese dell’iniziativa edilizia.13

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l’edificio sacro e delle abitazioni civili si ritiene abbia potuto determinare il prolungamento dei tempi per la commissione della nuova pala che, quindi, per ragioni di disponibilità delle risorse, forse fu affidata solo in un secondo momento a Carpaccio così da essere pubblicata, verosimil- mente, alla data riportata dal cartellino, nel 1519: circa dieci anni dopo la nefanda prima di- struzione del paese perpetrata dagli imperiali.

Che ai regolieri di Pozzale spettasse non solo l’onere della ricostruzione della chiesa ma anche la cura degli aspetti relativi al culto e al suo decoro, come occasionalmente quella degli arredi mobili, delle suppellettili liturgiche e della pala d’altare, lo si può congetturare in base ad altri documenti.

Può ritenersi un precedente sul metodo seguìto anche per il ‘polittico’ di Carpaccio, quanto i regolieri di Pozzale avevano dovuto affrontare in passato, fra 1497 e 1499, per contribuire alla realizzazione della pala dell’altare maggiore della Pieve di Santa Maria.

Occorre premettere come fosse in vigore da tempi lontani un rapporto speciale fra Pieve e Poz- zale, in virtù del fatto che «fra le cappelle di Pieve, Pozzale tiene la prerogativa d’essere la prima (poiché) ella è antichissima nella sua fondatione», pertanto, dopo tale premessa, nel pro- filo di Giovanni Antonio Barnabò del 1730 circa si legge: «Hanno li loro capi in primo luogo (dopo Pieve) al Capitolo generale di Chiesa con voto e voce assieme e per la preminenza delle altre cappelle soccombono a maggior aggravio di tanto per cento dell’altre. Hanno pure la so- praintendenza co’ Sindaci della Matrice delle offerte della medesima delle quali pure tengono una o più chiavi; ne possono quelli ingerirsi in tal amministrazione senza l’intervento di questi cosichè li Sindaci di San Tomaso sono curatori della suddetta Chiesa Matrice».14Ebbene, con

parte del 5 giugno 1497, il Consiglio concede licenza ai consorti dei monti di Pozzale di affittare la propria montagna per soddisfare alla rata, e porzione della pala di Santa Maria, «de nouo fiende».15Dello stesso giorno (1497, 5 giugno) è il rilascio di licenza ai consorti dei monti di

Pozzale di affittare la propria montagna onde supplire alla rata che incombe su di loro per la fabbrica della nuova chiesa di Santa Maria di Pieve.16Nel 1498, 9 maggio, si delibera la licenza

perché Pozzale possa affittare «Maisèmola», e Calalzo possa affittare «Ajarnòla» per contribuire la loro quota delle spese per la pala dell’altare maggiore di Pieve.17Infine, nel 1499 lì 14 agosto,

Pozzale affitta la sua montagna per pagare la pala di Santa Maria.18Si tratta, com’è stato soste-

nuto, dell’importante Flügelaltar, giunto frammentario, che si deve a Ruprecht Potsch in fase giovanile, noto soprattutto come pittore con bottega a Bressanone, e all’intervento di intagliatori formatisi, come lui, nella stessa città presso Hans Klocker.19

I regolieri di Pozzale dovettero, dunque, seguire la stessa prassi per sostenere le spese del nuovo ‘polittico’ della loro chiesa di San Tommaso. Non fu un impegno da poco per l’università della villa trovare le risorse e, per i Giurati del Lume, amministrarle.

Tale risultato sulla commissione del ‘polittico’ di Carpaccio, prospettato per via congetturale, può trovare una conferma esterna a osservare casistiche analoghe, reperite a titolo d’esempio in un arco temporale vasto.

È il caso di citare almeno la documentazione riguardante il trittico eseguito da Francesco Ve- cellio per l’altare maggiore della chiesa di San Marco di Venàs, raffigurante la Madonna con

il Bambino, san Marco, i santi Lucano e Albano (?), allocata nel 1535, ma i cui pagamenti si

seguono fino al 1538.20

Si aggiunga quale confronto la prassi seguìta dai «figli del Lume di San Giovanni di Vìnigo» per la costruzione della nuova chiesa fra Quattro e Cinquecento, con richiesta nel 1502 della visita dell’arcidiacono «per verificare i conti di questo Lume in modo che la costruzione già iniziata sia portata a termine».21Successivamente, oramai tra 1548 e 1551, si dispone dei do-

cumenti sul reperimento (taglio di alberi nel bosco comune) e amministrazione delle risorse per l’esecuzione della pala di Francesco Vecellio raffigurante La Madonna con il Bambino in

trono e i santi Giovanni Evangelista e Giovanni Battista.22

Particolarmente dettagliata, inoltre, è la documentazione del notaio Vincenzo Vecellio di Ve- cellone, cugino di Tiziano, concernente gli affreschi del presbiterio dell’antico coro di Santa

Maria Nascente a Pieve, eseguiti da tre allievi di Tiziano su cartoni dello stesso maestro tra 1566 e 1567.23Emblematica è la «Schaeda tributi sive taxae: modola di coloro, li quali per sua

cortesia e liberalità sarano contenti di contribuir alle spese della pittura della cubba della chiesa di Santa Maria di Pieve» con data 1566, 18 giugno.24

Da ultimo, si considerino, sempre a titolo d’esempio, le annotazioni circa le spese per il culto della Regola di Vigo, e in particolare la controversia sorta con Cesare Vecellio a proposito di due dipinti d’altare perduti, forniti alla chiesa di San Martino negli anni ottanta.25

Se ci si spinge ben oltre nel tempo, si può trovare applicato tale metodo di reperimento di risorse a beneficio della chiesa di San Tommaso di Pozzale ancora nel primo Seicento, quando il marigo Tommaso da Rù avanza tale supplica in occasione della visita patriarcale: «Inoltre supplichiamo anco vostra signoria illustrissima et reverendissima dii licenza di poter taiar legni nella vice di essa chiesa comessagli dalla Regola per poter far una fornase per beneficio d’essa chiesa et ci- mitero, gratie».26

Su fondamento congetturale si può, dunque, riconoscere ai regolieri di Pozzale la committenza del ‘polittico’; manca con tutto ciò la specifica di chi, fra loro, potesse scegliere di rivolgersi a un grande pittore di Venezia, nell’ultima fase della carriera, segnando in tal senso un punto d’orgoglio e di rinnovamento. Per ottenere la pala di Ruprecht Potsch di Pieve gestivano l’affare, fra 1498 e 1500, Cristoforo Palatini responsabile del Fòntego, che ef fettuò il pagamento, e il notaio che ne fece richiesta, Andrea Vecellio, sindaco della chiesa (responsabile economico e amministrativo), eletto dagli «uomini» del «comun» di Pieve.27Si tratta di esponenti delle prin-

cipali famiglie cadorine, la prima di autorità da tempo consolidata, l’altra in ascesa, proprio con Andrea, per inciso il nonno di Tiziano, e con Agostino che era responsabile materiale del Fòntego, ossia ‘canevàro’.28Va sottolineato che questa generazione dei Vecellio annoverava,

dunque, alcuni esponenti sicuramente agiati, per cui non dovevano mancare le occasioni dei contatti con Venezia e i centri di Terraferma, si arriva del resto agli anni di formazione nella città lagunare di Francesco e Tiziano.29A quelle date, 1498-1500, per il dipinto principale della

Pieve appoggeranno la scelta, attribuita ai parrocchiani, di pittori-intagliatori tirolesi e non di estrazione locale, come Antonio Rosso, e neppure friulani o bellunesi, men che meno veneziani, come potrà avvenire solo in seguito, ben dopo le vicende belliche.30Per quanto riguarda l’«af-

fare» Carpaccio del 1519 si entra nella sfera delle pure ipotesi, sia che si cerchino i nomi di persone che a Pozzale si distinguevano per censo dovuto ai commerci (specie di cereali e le- gname), che per l’autorevolezza e l’apertura di orizzonti conseguente al ruolo rivestito nella Regola, nel Centenaro o nel Consiglio Generale del Cadore.31

Tuttavia, ancora nel 1730, nel descrivere la situazione di Pozzale e la sua storia, Barnabò ricorda i privilegi antichi di una sola famiglia, quella dei Baldovini, e nel primo Cinquecento, quando i focolari erano una trentina, la situazione non era certo diversa o migliore, si trattava di «tutta gente bassa ed una sola specie».32Appare importante, in tale contesto, un documento del 1522:

la convenzione fra la Regola di Pozzale e «li nobili signori Bortolo, e Pietro Baldoini in cui si

dice salve le loro nobiltà, e privilegi».33

Non sembra dunque percorribile l’ipotesi del sostegno cospicuo di un solo privato committente, la quale si opporrebbe proprio alla motivata congettura sull’iniziativa, invece, dei regolieri. 34

Del resto, non emerge nessun patronato privato sull’altare, come avrebbero potuto permetterselo i Baldovini. Si permane, comunque, nell’ambito delle ipotesi se si prospetta che una mediazione nella scelta del maestro a Venezia possa essere stata esercitata da un notabile del luogo, o da un partecipante all’amministrazione civile che aveva a capo il Capitano, un nobile veneziano a inizio del suo cursus honorum, attraverso il quale è scontato il contatto frequente con la Ca- pitale, come lo era, in virtù dei loro uf fici, per i vicari, oratori e notai.35E rimane sempre una

supposizione pensare che questa mediazione possa essere avvenuta per la partecipazione al- l’iniziativa dell’autorità ecclesiastica - che pure doveva esprimere il suo beneplacito e appro- vazione dell’opera - e di conseguenza prendere in considerazione l’arcidiacono, o i suoi vicari e rappresentanti ivi residenti.36

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IL GOVERNO PASTORALE DELLA CHIESA CADORINA DIPIETROALEANDRO, ARCIDIACONO

DICADORE

Se dal campo della ricerca prettamente documentaria si passa a quello delle idealità (e dei rari portatori di esse) mutano il metodo e il raggio di ricerca, ma si prospetta altresì un utile abbozzo sul contesto e il sentire comunitario a Pieve e Pozzale in questo preciso momento, circa il 1519 e gli anni successivi l’accoglienza dell’opera di Carpaccio.

Va innanzi tutto osservata la frenesia di rinnovamento che tutto investe in questa fase postbel- lica.37Per rimanere nella sfera del sacro, il superato pericolo sollecita le espressioni di rendi-

mento di grazie a Dio, alla Madonna quale mediatrice e Madonna della Difesa, ai santi patroni, agli ausiliatori, con partecipazione di clero, istituzioni, regole e del popolo tutto dei devoti.38Il

caso della chiesa della Madonna della Difesa di Vigo e delle sue pitture votive, a partire dal 1512, è in tal senso emblematico di un tale clima.39Si assiste diffusamente a espressioni spe-

cifiche, e non solo nella sfera devozionale. Si prospetta, almeno, uno sforzo progettuale di rin- novamento nei costumi del clero, come pure delle comunità cristiane e dei singoli fedeli, in tempo di accentuata rivalità e discordie.

Si guarda in questa fase con nuove motivazioni a Venezia la quale, nel frattempo, consolida il suo governo proprio mentre ribadisce i privilegi di autonomia del Cadore, similmente a quanto era avvenuto con il patto di dedizione del 1420.40Ed è all’insegna del rinnovamento nella sfera

politica e al riconoscimento di autonomia che si manifestano forti tensioni sulle prerogative di nomina dell’arcidiacono fra il Consiglio Generale di Cadore e il patriarca di Aquileia. Que- st’ultimo, nel riservarsi la scelta e la nomina proprio nello specifico frangente che qui interessa, ravvisa la possibilità di salvaguardare l’unità della sua chiesa, di riaffermare la propria autorità attraverso quella dell’arcidiacono al quale, per sua statura morale e culturale, vuole affidare sia la riforma dei costumi del clero, sia la rappacificazione delle comunità.

Il dipinto di Carpaccio giunge a Pozzale nel mezzo di tutto questo e, in certa misura, pur nella sua episodicità e ubicazione, può ricordare indirettamente tale fase.

Alcuni episodi contribuiscono a conferire a quanto affermato su questo preciso momento storico una misura di concretezza dentro una microstoria. In data 8 febbraio 1513 il Senato ordina che sia restaurato e fortificato il castello di Pieve, ciò avviene prima della pace di Noyon che si conclude solo nel 1516.41Il 21 ottobre 1513 il Provveditore Veneto impone a quelli di Pozzale

di non offendere Pieve né con fatti né con parole.42Nel 1515 il Consiglio Generale del Cadore

prega il vescovo suffraganeo di Aquileia, Daniele de Rubeis, che visitava il Cadore di frenare il non meglio specificato «traffico» esercitato dal clero cadorino.43

Si situa in questa congiuntura la travagliata nomina a pievano di Pieve e ad arcidiacono di Cadore di Pietro Mareno Aleandro, umanista-filologo, promotore della ‘riforma cattolica’ e, quindi, fi- gura di ragguardevole statura nell’azione concreta di governo della chiesa cadorina.44Gli anni

in cui si ricostruisce la cappella di Pozzale e in cui si colloca la nuova pala d’altare sono quelli almeno dell’avvio della sua attività pastorale e partecipazione, in vero inizialmente indiretta, a tutte le vicende delle comunità del Cadore. Anche se per lo più vissuta da lontano (da Roma negli anni che più interessano), tale partecipazione dell’Aleandro consente, infatti, di ricostruire in modo del tutto peculiare la mentalità e la vita di queste comunità, Pozzale compresa. È da tener conto, anzitutto, che in proposito si deve guardare alla seconda fase della vita (quella che è quella meno indagata in studi recenti), di Pietro Mareno Aleandro di Giovanni Cristoforo da Conegliano. Egli porta il nome della nobile famiglia di Motta di Livenza a cui appartiene la madre, Chiara di Galeazzo Aleandro, cugina di primo grado di Francesco, padre del celebre Girolamo (1480-1542) elevato al cardinalato da papa Paolo III nel 1538; nasce a Conegliano il 23 maggio 1470, come lui stesso specifica nel testamento autografo datato 11 settembre 1536 a Cèneda, noto nella lacunosa e scorretta trascrizione di Francesco Croce notaio di Belluno del 1735, 20 luglio.45

e dal breve coinvolgimento nella trasmissione di alcuni importanti testi letterari e filosofici».46

Questo periodo si chiuse con l’impresa editoriale del 1505, quando diede alle stampe a Venezia presso Giovanni Tacuino il De temporibus di Beda il Venerabile assieme al De regionibus urbis

Romae libellus aureus di Paolo Vittore; nella lettera in prefazione sottoscritta a Padova e indi-

rizzata al collezionista d’epigrafi veronese Battista Baldo, egli si qualifica come «Petrus Mareno ex Corneliano».47

Nella seconda fase «l’umanista lasciava il passo al curiale, prendeva gli ordini, e diveniva nel 1515 segretario del cardinale Domenico Grimani, patriarca di Aquileia (†1523), che l’Aleandro seguì fedelmente negli anni successivi, tra Roma e il Veneto, passando poi al servizio del nipote Marino», il quale gli succede quale patriarca aquileiese.48

All’Aleandro è conferito il presbiterato a Roma nell’aprile 1511.49Già il 28 giugno 1511 è no-

minato vicario generale delle diocesi di Cèneda, Treviso, Padova e Vicenza; la nomina viene da Matteo, vescovo di Gerusalemme e governatore di Cesarea, e gli consente, tra l’altro, di conferire benefici e di riscuotere le rendite di quelli vacanti.50

La svolta nella sua carriera ecclesiastica è dovuta, comunque, all’incontro con il cardinale Do- menico Grimani, patriarca di Aquileia dal 1497 al 1522, che lo chiama presso di sé nel 1514, probabilmente in virtù della parentela con Girolamo Aleandro, anch’egli grande umanista, che proprio allora passava dal ruolo di rettore dell’università di Parigi a segretario del pro cancel- liere di Francia, il vescovo di Parigi, e del principe vescovo di Liegi il quale lo invia nel 1516 come agente a Roma.51

Nel 1515, Domenico Grimani, di certo tra i più famosi e influenti cardinali, assegna a Pietro Aleandro dapprima l’ambìto ruolo di segretario e poi, con nomina data a Civitavecchia il 24 agosto, quello di vicario per l’amministrazione secolare ed ecclesiastica della chiesa Collegiata di San Marco in Roma, della quale il cardinale veneziano deteneva il titolo come tradizione.52

Agli occhi di Domenico Grimani le doti di Pietro Aleandro dovettero essere davvero speciali se, oltre a queste nomine, altre ne seguirono a breve, quale segno inconfutabile di riconosci- mento e fiducia non comune: prima il beneficio di Campomolino presso Oderzo e il canonicato