sivamente condizionati dal formulare giudizio sintetico ricorrente che si tratta di un artista nel- l’ultima fase solo «sorpassato», o solo stanco nell’invenzione e applicazione esecutiva.
Occorre subito chiarire, in tutti i casi, che oggi a Pozzale giudichiamo un’opera molto com- promessa specie nei suoi valori pittorici (per cui anche il disegno e la plasticità ne risultano in- cruditi e semplificati), in particolare a motivo dei danni subiti nel 1844 con l’incendio dell’edificio sacro che la ospita, sui quali poco hanno potuto fare i restauri succedutisi. Non è poi il caso di riprendere quanto osservato a proposito della penalizzazione dovuta alla mancanza della cornice che si abbina al condizionamento percettivo causato dalla preparazione ocra degli spazi di risulta rimasti a vista fra le campiture delle immagini.
Un orientamento nel percorso critico prospettato per la fase tarda di Carpaccio si ravvisa, in particolare, nelle lucide annotazioni di Carlo Ludovico Ragghianti nel presentare come suoi due disegni, entrambi raffiguranti un Giovane con berretto, già in Collezione Oppenheimer di Londra e passati allora in collezione privata italiana, i quali opportunamente non ricevono in seguito la conferma attributiva.1In tale contributo, a prescindere dall’opinione erronea che ne
è stata l’occasione, lo studioso fissa alcuni punti nel metodo di approccio a Carpaccio che si ri- tengono particolarmente attuali, anche fra molti altri più recenti e aggiornati, specie nell’af- frontare la problematica dell’ultima stagione, e quella del ‘polittico’ di Pozzale in particolare. Non occorre rimarcarlo, molta strada hanno percorso gli studi critici su Carpaccio rispetto al 1936 anno di quel pronunciamento di metodo che non è il solo; tuttavia esso ancora si distingue nell’ambito della considerazione sugli aspetti stilistici o formali che sostanziano la sua opera, ai quali bisogna guardare di tanto in tanto anche nell’attuale stagione che vede privilegiati altri aspetti come di maggiore interesse critico e che pertanto impegnano maggiormente gli esegeti odierni: la struttura narrativa, la committenza o le implicazioni con il mondo umanistico vene- ziano che i contenuti iconografici e iconologici della sua opera rendono imprescindibili e spesso primarie nella comprensione.2
Poiché in questa occasione ci si ripromette esclusivamente qualche spunto di considerazione sullo stile di Carpaccio e sulla dinamica ‘produttiva’ dell’ultima fase, lasciando consapevol- mente molte altre problematiche in filigrana, si coglie l’utilità di ripartire dalle osservazioni di Ragghianti, emblematiche di un percorso critico su questo piano anche nei riguardi degli svi- luppi seguenti.
Lo studioso esordisce in proposito con la constatazione della «uniforme genericità dei giudizi recati sul suo [di Carpaccio] modo poetico, che non hanno né superato né sottoposto a revisione l’estrinseca ed empirica riduzione descrittiva del Ruskin, accolta poi e rinnovata dal Berenson, dal Venturi, dal Fiocco, e dagli altri studiosi: capacità caratteristiche di narratore, gaiezza e vi- vacità, religione dell’aria, dei costumi e del paese veneziano, l’essere il primo pittore di genere e simili».
Tali definizioni «schermo» di un pittore che ne sortisce in definitiva - si direbbe - soprattutto descrittivo e documentarista, si accompagnano a una riserva circa il fatto che le sue pitture sa- rebbero «povere di disegno intellettuale», povere nell’ideazione compositiva e tematica, tutte carenze che vanno di pari passo con una certa «economia e schematismo» che si ravvisano anche nei suoi disegni.3Si ammette da parte di Ragghianti che Carpaccio non sente come ne-
cessaria la personalizzazione delle più attuali composizioni complesse e intellettualistiche, ad esempio, di Bellini se non addirittura dei toscani. Il maestro, infatti, pone altrove il suo interesse di ricerca espressiva: il suo «operare reale» da mettere in luce sta in altri percorsi, convinzioni e raggiungimenti, «non certo nell’aver mancato di copiare e di emulare modelli che probabil- mente non lo interessavano, perché assorto in altri problemi e ricerche».
Il tenersi a distanza da un meccanismo emulativo su questo piano - che possiamo aggiungere a ben vedere riguardante altresì il sentimento del colore - gli consente anzi «la concentrazione su quei problemi che danno più specifica figura alla sua originalità formale». Quest’ultima, si sottolinea, è «fissata in poche lar ghe oscillazioni andamentali, in pacati or ganismi o collega- menti ritmici che non avevan bisogno di scordare le individue maestà iconiche dei polittici, la
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tematica connettiva fondamentale dei suoi lavori, la sua fantasia pare si desse intera, con dedita simpatia, a individuare come in una crescente, magica avventura la enorme particolarità di vita figurale che fiorisce con un accento così investente, con una forza così attrattiva nelle sue tele, talché sembra che l’artista abbia dato voce di richiamo a tutte le fisiche apparenze dell’universo».4
Anche nella presentazione di un numero ridotto di scelti personaggi sacri in un tradizionale polittico, come quello periferico di Pozzale, scatta questo meccanismo formale. Pertanto ogni aspetto colto in tali protagonisti entro una struttura ritmica semplice, chiara e convincente, e in tutto ciò che li circonda - atteggiamenti controllati, volti severi, gesti, attributi, tessuti, ornamenti minuziosi o ‘paesi’ di piano e montani appena suggeriti - è solo apparentemente descrittivo (come risulta a un’osservazione superficiale), bensì è quanto serve alla sua «fantasia» per con- durre alla sostanza espressiva, per portare tutti questi casi specifici a una realtà di visione inte- grale che, razionalmente cioè prospetticamente, rispecchia in un’opera sola «tutte le fisiche apparenze dell’universo».
L’aspetto della scelta di un polittico dei più semplici è mar ginale sotto questa ottica che mira ogni volta a una integralità di visione. La riduzione, o sintesi funzionale, del sistema spaziale e telaio prospettico di Antonello da Messina (o di Bellini), attuata specie nei teleri, consente a Carpaccio di raggiungere questa visione della realtà con una concentrazione di manifestazioni figurative straordinarie, per certi aspetti impareggiabile. Tuttavia, in ragione di questi rilievi sulla «sostanza espressiva» cercata da Carpaccio non fa differenza insormontabile che si parli di teleri a contenuto narrativo, di pale d’altare a spazio unitario, o polittici. Senza nulla togliere che, in una considerazione secondaria o se si vuole più superficiale, come quella della scelta tipologica, proprio i polittici corrispondano alle esigenze di una committenza ‘tradizionalista’. L’ultimo in ordine di tempo a essere realizzato, quello per Pozzale, a motivo della sua anomalia di essere eseguito su tela è anche l’unico che ci è giunto integralmente, seppure privo di cornice. Carpaccio ne dipinge uno nel 1514 per i nobili Lippomano commissonato trent’anni prima da collocare nella chiesa di Santa Fosca a Venezia (figg. 28, 29, 30), con il ritratto in abisso del protonotario Pietro che lo volle nel 1470 immaginandosi già ai piedi del san Rocco, la cui de- vozione era di grande attualità in quel momento.5Poco tempo prima il pittore ripropone la sua
visione della realtà entro questo telaio prospettico ‘ridotto’ per chiese di valli bergamasche. Nella fattispecie, guardando a quegli anni, per quella di Grumello de’ Zanchi presso Zogno (figg. 31, 32, 33, 34), la cui ricostruzione rimane problematica, e va risolta con l’esclusione del Dio Padre benedicente (fig. 35) presentato entro lunetta, che sembra pertinente a un altro polittico smembrato di questa chiesa di cui si conservano due laterali con Sant’Antonio abate e Sant’Antonio da Padova (figg. 36, 37), da ricondurre a Francesco Rizzo da Santacroce.6Senza
allontanarsi dalla congiuntura dei primi anni del secondo decennio altro esempio di polittico che attende la ricostruzione, difficile anche perché di provenienza sconosciuta, è quello di cui rimangono quattro scomparti con San Pietro martire, San Giovanni Battista, Santo vescovo (Agostino?), Santo Stefano (figg. 38, 39, 40, 41) ora presso il Philbrook Art Center di Tulsa (Oklahoma) che erroneamente fu ritenuto provenire dalla chiesa parrocchiale di Spinea.7È dif-
ficile dare una collocazione cronologica diversa da quella del 1514 circa per le due tavole su- perstiti di un altro polittico con San Sebastiano e San Rocco (figg. 42, 43) di provenienza ignota, ora al Narodni muzej di Belgrado: versione semplificata per l’intervento di aiuti dell’idea com- positiva per questi personaggi sacri contenuta nel disegno di Copenaghen e attuata nel polittico di Santa Fosca del 1514 con ben altra monumentalità e lucidità materica.8
Trova significato, dunque, proprio per l’obiettivo di carattere espressivo che si ripromette di raggiungere che Carpaccio scelga quegli spazi o strutture che non sono i più intellettualistici e moderni, bensì quelli che addirittura idealmente «si ricollegano invece meglio al pervicace bi- zantinismo della tradizione veneta più conservatrice continuata fino a Gentile Bellini; se egli compone la Gloria di S. Orsola con quel pavimento di teste senz’occhi scaglionate fitte, nel modo che avrebbe potuto fare un monaco entro un’icona; se egli riduce alla spietata modula-
zione di alcuni ritmi elementari e profondi quasi come ritornelli di cantica o lassa, le compo- sizioni dei suoi teleri».9
Oltre che negli ultimi dipinti narrativi, ancora nel ‘polittico’ cadorino, occorre ribadirlo, in que- sto ‘ridotto’ ma rigoroso spazio prospettico della memoria, la bellezza delle cose nei loro det- tagli e apparenze sta a rivelare una dimensione complessa della realtà che i santi personaggi rappresentati ‘vivono’ e alla quale l’osservatore è richiamato; essa è qui restituita nel 1519 per una piccola comunità cadorina ancora una volta con conveniente solennità sacrale e con quella magnificenza che si direbbe propria della liturgia delle grandi festività.
Altro aspetto da cogliere in questa occasione nel contributo di Ragghianti, anch’esso critica- mente precorritore, è quello del significato da conferire nell’opera di Carpaccio alle «ripetizioni anche più uniformi»; all’evidenza che da parte del pittore «non si evitava affatto il ritorno anche a lunghe distanze di tempo» di aspetti figurativi, non solo nell’ultima stagione.10Sono figure
che nel ripresentarsi presuppongono l’uso funzionale del disegno preparatorio conservato in bottega o di quello «memorativo», appositamente disposto, ad esempio, prima della consegna dell’opera, talora anche da allievi. Ciò mette in guardia a essere prudenti nel fissare la crono- logia delle opere del maestro, tanto più che è frequente, oltre a queste ripetizioni, il caso del ri- proporsi del « singolarismo figurale». Taluni aspetti formali e inventivi particolari, nella fattispecie quelli tipologici formulati in fase giovanile o matura, «ritornano anche nelle [opere]
28-30 Vittore Carpaccio, San Pietro martire, Venezia, Museo Correr; San Sebastiano, 1514. Zagabria,
Strossmayerova galerija starih majstora ; San Rocco e l’offerente il protonotario apostolico Pietro Lip-
più tarde, senza trapassi né urti né distacchi violenti». Di fronte a queste ripetizioni e ripropo- sizioni vale l’osservazione attenta non tanto della rispondenza della ripetizione alla prima idea o prima applicazione, quanto soprattutto della «nuova elaborazione relativa che ogni volta se ne dava rispetto ad altri valori figurativi, che diventano ogni volta particolarissimi […], talché
sarebbe improprio ed incongruo trasferire dall’una figura all’altra il giudizio una volta formu- 133
31-34 Vittore Carpaccio, San Giovanni Evangelista, San Giacomo Maggiore, San Girolamo, Sant’An-
lato». Anche in queste casistiche non si può di certo spiegare tale metodo come indice di limi- tatezza inventiva. Anzi, esso assume il significato opposto a quello assegnato ai disegni che ne sono il veicolo principale ad esempio da Hadeln che li vede come sostitutivi del modello, o da Berenson che ravvisa in essi un Carpaccio senza disciplina ed erudizione, bensì un disegnatore saltuario, occasionale e d’improvvisazione, prevalentemente impegnato in questa attività quasi
35-37 Francesco Rizzo da Santacroce, Dio Padre benedicente, Sant’Antonio abate, Sant’Antonio da
38-41 Vittore Carpaccio, San Giovanni Battista; San Pietro martire; Santo vescovo (Agostino ?); Santo
Stefano martire. Tulsa (OK), Philbrook Museum of Art, Samuel H. Kress Collection.
42-43 Vittore Carpaccio, San Rocco; San Sebastiano. Belgrado, Narodni muzej. Già Trieste, Collezione
come in un esercizio esterno alla sua arte pittorica.11
Si tratta, invece, di ravvisare proprio nei disegni l’attestazione inequivocabile della «realtà spontanea della sua opera» e per di più nel suo sostanziarsi di opera in opera, persino nelle ri- petizioni o nella riproposizione del «singolarismo figurale».12
Così intesa è proprio tale pratica, tutt’altro che indice automatico di partecipazione della bot- tega, che induce viceversa a spostare l’ottica di valutazione sul procedimento inventivo attuato da Carpaccio. Ciò non toglie che il patrimonio disegnativo sia anche utilizzato da Carpaccio in opere nelle quali partecipano alla stesura gli aiuti di bottega. Nella fattispecie Benedetto che la eredita, e quindi ne acquisisce i disegni e li impiega con libertà crescente, fino a diventare mero spunto nel corso di tutta la sua attività autonoma, molti anni dopo la loro esecuzione e la sua supposta collaborazione con il padre.
La pratica di costruzione delle composizioni di grande respiro dei cicli narrativi che Carpaccio esegue per le Scuole veneziane, appresa con tutta probabilità da Gentile Bellini, la quale ri- chiedeva il contributo di più maestranze di bottega risulta estendersi in certa misura a tutta la produzione finale del maestro. Fissata l’‘architettura’ dell’immagine in uno schizzo o disegno di «prima idea», successivamente perfezionata in scala reale, si potevano adattare a essa ele- menti di repertorio disponibili in bottega: figure da modificare nelle movenze, gruppi di astanti per i secondi piani, fondali architettonici, ma anche animali e piante. Dall’ideazione iniziale, in cui Carpaccio può tenere conto di fonti d’ispirazione grafiche come quelle düreriane, si pro- cede alla definizione compositiva attraverso l’utilizzo dei disegni definiti «simili» disponibili
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44 Vittore Carpaccio, Preparativi per il seppellimento di Cristo . Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.
45-46 Vittore Carpaccio, Preparativi per il seppellimento di Cristo, particolari. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.
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46 45
in bottega in una visione ‘economica’ del lavoro, da qui la frequente manifestazione delle «ri- petizioni» il cui valore e significato è da stabilirsi ragionando prima di tutto sull’impegno in- ventivo del maestro nel loro impiego.13
Queste osservazioni sulla struttura formale e operativa di Carpaccio, da proiettare anche nella sua fase ultima, e il metodo interpretativo da seguire così ragionato è opportuno che ricevano verifica e applicazione a proposito del ‘polittico’ per Pozzale di Cadore del 1519, prima di tutto in un confronto con le opere che si collocano prossime ad esso a fine carriera.
Si è sopra osservato come gli esempi autografi si distribuiscano ad annum attorno a questa data. Ciò nondimeno sussistono ancora alcuni condizionamenti entro la composizione di questo fitto e certo catalogo che sono determinanti, e lo sono prima ancora dell’inclusione di opere at- tribuite a diverso livello di autografia. Si tratta infatti della collocazione in questa fase di opere autografe importanti, ma fuori luogo quanto a cronologia. Valga per tutti il caso del polittico su due ordini per la cattedrale di Sant’Anastasia di Zara, la cui datazione oscilla dagli anni ot- tanta del Quattrocento al 1520 circa.14Inoltre, si tratta dei problemi determinati dall’incertezza
nel collocarvi opere di rilevante importanza ideativa, da sole in grado di illustrare l’alto grado inventivo e stilistico mantenuto dal maestro. Si ricorda, almeno, il caso della tela raffigurante i Preparativi per il seppellimento di Cristo (figg. 44, 45, 46 ) della Gemäldegalerie di Berlino di datazione oscillante entro i primi due decenni del secolo, ma collocabile effettivamente per ragioni stilistiche attorno al 1515-1520.15
Nello stesso 1519, anno del ‘polittico’ di Pozzale, Vittore Carpaccio firma la pala raffigurante la Madonna con il Bambino in trono, i santi Faustino e Giovita e tre angeli musicanti (fig. 47) per la chiesa di San Giovanni Evangelista di Brescia.16L’opera è giudicabile unicamente da
una vecchia foto che ne documenta uno stato di conservazione problematico. Tuttavia la valu- tazione è favorita utilmente in questo caso proprio dal confronto con il modelletto disegnativo per pala d’altare (fig. 48) che si conserva al Kupferstich-Kabinett di Dresda (inv. C 271), assai simile per contenuto e impianto.17Si tratta di due opere contemporanee: l’una per la chiesa im-
portante di una città dello Stato, l’altra per una piccola chiesa di un villaggio cadorino. Un’implicazione e un significato ulteriore in questo confronto fra opere simili ma realizzate per destinazioni di significato diverso potrebbe venire dall’accertamento della committenza della pala bresciana che ancora manca. Ha validità, comunque, richiamare l’interrogativo posto in proposito da Giovanni Agosti sul fatto che essa, «un’opera debolissima di un pittore soprav- vissuto a se stesso», possa essere stata commissionata a Carpaccio dalla straordinaria figura di uomo di chiesa quale fu il bresciano Altobello Averoldi, per cui figurerebbe tra quelle indub- biamente di diverso segno inviate alle chiese della sua patria: la pala di Francesco Francia della
Trinità e i santi Marta, Biagio, Maria Maddalena e Barbara per San Giovanni Evangelista,
circa 1515, e il celebre polittico di Tiziano del 1522 per la chiesa dei Santi Nazaro e Celso in cui il Cadorino ci restituisce l’immagine del facoltoso of ferente.18Una tale eventualità trove-
rebbe giustificazione nel fatto che l’Averoldi che aveva il titolo di vescovo di Pola nel settembre 1517 ricevette da papa Leone X la nomina a nunzio presso la Repubblica di Venezia.19L’im-
pegno a ottenere la partecipazione di quest’ultima alla crociata che il pontefice progettava fu- rono motivo della permanenza nella capitale lagunare del nunzio sino a metà gennaio del 1523. In questo arco di tempo troverebbe occasione l’ipotizzato incarico a Carpaccio prima di quello a Tiziano che è accertato.20Per inciso va osservato che a Brescia in quel momento deteneva il
ruolo di inquisitore generale il domenicano Bartolomeo da Assonica, vescovo di Capodistria, che già aveva sostenuto l’opera di Carpaccio per la cattedrale giustinopolitana.21
Il confronto fra la pala bresciana e il ‘polittico’ di Pozzale rende subito palese il significato re- lativo che può avere ai fini della sostanza espressiva a cui si mira l’opzione per l’una o l’altra struttura. Nel dipinto a spazio unitario Carpaccio rimane fedele alle sue architetture, come quella del basamento a gradini, evidentemente rassicuranti dal punto di vista compositivo e apre su di un paesaggio percepito come fondale, sia per com’è impostato simmetricamente su linee salienti verso l’alto dossale del trono, sia per la funzione delle quinte arboree che servono
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di mediazione nel succedersi dei piani prospettici. I rapporti spaziali che si istituiscono sono quelli dimostratisi validi anche per la pala di Pirano del 1518, pur in un organismo assai più complesso, in cui si mantiene tuttavia lo stesso punto di vista prospettico. Quest’ultimo muta invece di poco proprio nel ‘polittico’ cadorino in cui vi è l’obbligo di semplificare la struttura a vantaggio di una coerenza fra i due ordini in cui esso è scompartito.
È da sottolineare come il disegno per pala d’altare conservato a Dresda manifesti in particolare lo studio che Carpaccio ha riservato a tale composizione e la riconosciuta validità di questa per più utilizzi. Lo dimostrano del resto le connessioni compositive che tale disegno trova soprattutto nella perduta pala bresciana ma anche in quella per Pirano, e in misura ancora diversa nel ‘po- littico’ di Pozzale. Tuttavia è anche da sottolineare che non è per questo necessario attribuir gli il valore di disegno preparatorio esclusivo, ovvero di modelletto per una sola opera. A rigore, si può invece ravvisare in esso l’occasione per validare la bontà della composizione e la sua utilità in vista di più ripetizioni con varianti anche di notevole portata. Questa funzione, del resto, è garantita dalla quadrettatura atta proprio al riporto in scala che risulta eseguita successivamente al disegno, ma che può lasciare libertà nella riformulazione delle figure, ad esempio attraverso l’impiego di «simili». La qualità del ductus, più sensibile nel tratteggiare con libertà e sintesi le figure a penna, più metodica e talora sommaria nella resa a pennello dei passaggi chiaroscurali, è indice della responsabilità del maestro, ma anche di un’esercitazione della bottega intervenuta, almeno in parte, sotto il suo controllo.22Pare difficile poi indentificarvi la mano di Benedetto,
com’è stato fatto, anche se egli si ispira proprio a questa composizione nella Madonna con il
Bambino in trono e i santi Bartolomeo e Tommaso apostoli del 1538 per la chiesa di San Tom-