CAPITOLO QUINTO
1. Conoscenza e carattere collettivo
Nelle Formes Durkheim si immerge nel passato primitivo percorrendo una ricognizione delle fonti dell’agire religioso dei credenti e della vita sociale (Bellah 1965). È dunque necessario portare al centro della discussione l’origine del totemismo e delle credenze totemiche in relazione al concetto di rappresentazione collettiva. Quest’ultima costituisce l’elemento chiave del testo, è un’unità concettuale imprescindibile sia per lo studio del totemismo, l’analisi della forma più semplice, sia per lo studio delle categorie del pensiero e della loro genesi. L’interrogativo che sottende l’esame del totemismo concerne infatti lo statuto di quelle cose sociali che sono oggetto specifico della sociologia durkheimiana.
Il pensiero sociologico di Durkheim, abbiamo visto, si confronta spesso con la tradizione fi- losofica kantiana e di ascendenza kantiana. Da questa prospettiva prenderemo le mosse da un passo della Logica trascendentale. Kant fa emergere come «la nostra conoscenza trae origine da due sorgenti fondamentali dell’animo», vale a dire dalla «ricettività delle impressioni», attra- verso la quale un oggetto ci è dato, e dalla «spontaneità dei concetti», attraverso la quale questo oggetto è pensato. Si ha conoscenza solo quando si congiungono «queste due facoltà o capacità» (Kant 1967, 125 B 74). Ne consegue che i concetti hanno la necessità di essere “riempiti”, mentre le intuizioni di essere interpretate. L’elaborazione kantiana è valida per gli oggetti che sono co- nosciuti dalla scienza, ma resta tuttavia inevaso come tale processo risolva la conoscenza delle cose sociali. Kant, inoltre, presuppone che le cose della natura siano conoscibili secondo questo disegno, senza avvertire che ciò che è portato a oggetto della conoscenza scientifica sia già il risultato di una strategia conoscitiva, quale è indubbiamente la distinzione tra qualità primarie e secondarie, dando inoltre per scontato che l’ordine del conoscere possa corrispondere a quello del conosciuto, che vi possa essere dunque una corrispondenza. Nel caso di Kant “questa” è già posta come criterio di possibilità, poiché la ragione trova nella natura ciò che essa stessa vi ha posto, secondo la propria legislazione. Eppure, per arrivare a Durkheim, dobbiamo chiederci: conosciamo le cose sociali come conosciamo le cose della natura?
Perché l’individuo possa rappresentarsi qualcosa occorre che questo qualcosa gli sia presente. Tuttavia, nel caso del sociale, il qualcosa che un individuo ha presente come rappresentazione non è propriamente una cosa, una cosa che ha di fronte, oppure una cosa che egli si pone di fronte
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ad oggetto di rappresentazione, perché le cose sociali sono pratiche e credenze istituite che, per quanto siano per e negli individui, sono a esse esterne e presentano la proprietà della costrittività. Da un lato, hanno dunque i caratteri delle cose, e noi ce le possiamo rappresentare come qualsiasi altra cosa; da un altro lato, riguardando gli individui, essendo pratiche, hanno proprietà diverse da quelle delle mere cose. A guardare con attenzione ci accorgiamo che non si può non tener conto che le cose sociali sono prodotte dalla vita associata degli individui, ossia che le cose sono prodotte dalle relazioni degli individui, dagli individui. Esse, dunque, hanno insieme a che fare con l’individuo e con qualcosa che si produce tra gli individui, che è negli e per gli individui ma che è anche tra gli individui, di modo che non è più possibile avere una concezione della natura dell’individuo, del modo con cui egli conosce e agisce senza tener conto di questa sua dimen- sione in cui pratica il conoscere e l’agire. Vi è dunque una coappartenenza che porta a pensare che la cosa sociale non sia solo ciò che gli individui si rappresentano; la società non è solo la rappresentazione di un individuo, o la rappresentazione di ego. La mia rappresentazione della società non poggia solo sull’attività della coscienza anche se dovessi ammettere che possa svol- gersi in un senso del tutto diverso da quello delle cose della natura, giacché il sociale è qualcosa che si fa esso stesso di per sé presenza di rappresentazione.
Il rapporto tra religione e società non inerisce unicamente allo specifico ordine della fede, o al modo dell’esperienza religiosa, specifica e di matrice spiritualista, così come prospettato da James in The Varietes of Religious Experience (1906, v-xx). Per James la religione si può defi- nire mediante le impressioni, i sentimenti e gli atti dell’individuo preso isolatamente, perché questo si considera in rapporto a ciò che gli «appare» come divino. Tuttavia, il nesso tra religione e società possiede tratti più profondi, perché interessa sia la costituzione dell’esperienza in modo più ampio, sia la costituzione di una sociologia della religione che getta le basi per approfondire temi più squisitamente legati alla teoria della conoscenza. Immergersi nel passato delle società «primitive» significa «spiegare una realtà attuale, a noi prossima, e capace di conseguenza di informare le nostre idee e i nostri atti: questa realtà è l’uomo» (Durkheim 2005, 51).
A partire dall’Introduzione del testo Durkheim mostra come la propria ricerca interessa cer- tamente la scienza delle religioni, però «eccede» nello stesso tempo la sfera propriamente reli- giosa, presentando aspetti e problemi che fino a quel momento erano stati deliberati «soltanto tra filosofi» (Ibidem, 59). Scrive il Nostro:
Alla base dei nostri giudizi, esiste un certo numero di nozioni essenziali che dominano tutta la nostra vita intellettuale; si tratta di quelle che i filosofi, da Aristotele in poi, chiamano le
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categorie dell’intelletto: le nozioni di tempo, di spazio, di genere, di numero, di causa, di sostanza, di personalità ecc. Esse corrispondono alle proprietà più universali delle cose. Esse corrispondono alle proprietà più universali delle cose. Sono come la robusta cornice [cadre] che racchiude il pensiero; questo non sembra poterne fare a meno senza distruggersi, perché non possiamo pensare oggetti che non siano collocati nel tempo o nello spazio, che non siano numerabili ecc. (Ivi).
I primi sistemi di rappresentazione che l’uomo si è fatto del mondo e di se stesso sono di origine religiosa. Se la filosofia e le scienze sono nate dalla religione, ciò è successo perché la religione stessa ha assolto, fin da subito, il compito delle scienze e della filosofia. Quindi, intesa come «eminentemente collettiva», la religione è «un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre, cioè separate, interdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale, chiamata Chiesa, tutti quelli che vi aderiscono» (Ibidem, 97). La definizione, una delle più solide a dispo- sizione della sociologia, porta con sé tre osservazioni. La prima: la radicale distinzione tra sacro e profano. La seconda: il fatto che la religione è un insieme di credenze e pratiche relative a ciò che viene ritenuto sacro. La terza: la particolarità per cui la religione si caratterizza per il fatto che le credenze relative alle cose sacre vengono condivise da una comunità di fedeli, nel contesto di riti collettivi.
Il carattere eminentemente collettivo si rivela, da un canto, perché la religione consolida e fortifica una comunità di credenti nella cornice di uno spazio e di un tempo, separati dalle attività quotidiane e condivisi con gli altri membri della propria comunità, mentre, dall’altro, gli stessi membri, nel sacro che adorano, «trasfigurano» l’immagine idealizzata della società stessa. Con la stabilità di questa prospettiva, Durkheim mostra che la religione «offre» all’uomo le forme categoriali attraverso le quali poter pensare e organizzare la materia della conoscenza, che in questo caso è data dalla stessa vita sociale. L’osservazione della religione, delle credenze e delle fedi, del sacro, come dei riti connessi alle pratiche religiose, indicano chiaramente come le cate- gorie principali si originano dalla religione e nella religione. In questo senso, essa è una «cosa» eminentemente sociale, perché le rappresentazioni religiose «sono delle rappresentazioni collet- tive che esprimono realtà collettive» (Ibidem, 59)33. È nel prendere parte alla vita sociale, nell’es-
sere assieme agli altri, che nell’individuo prendono corpo rappresentazioni che egli può elaborare individualmente, ma che di fatto si rendono possibili solo in quanto ego ed alter, nel commercio
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sociale, sperimentano e provano sentimenti, immagini e idee che sono comuni e che li accomu- nano. Ciò che rende comune e ciò che accomuna, che non sono uniti in una successione di tipo lineare, costituiscono una struttura di relazioni nella quale gli individui non possono entrare e uscire a loro piacimento, ma nella quale già si trovano, nella quale vivono e dalla quale sono vissuti. La comunanza delle pratiche sociali, vuol dirci Durkheim, nel far provare agli individui sentimenti e stati mentali che altrimenti non potrebbero avere, accomuna i sentimenti, gli stati mentali, le idee, costituendo insieme la materia e la forma delle rappresentazioni, le quali sono collettive anche in questo senso eminente.
2. Forme dell’esperienza
Un primo criterio analitico applicato da Durkheim per caratterizzare e distinguere il rituale religioso dalle altre pratiche sociali si riferisce alla forma dell’esperienza. I fenomeni religiosi sono sistemati in due categorie, costituite da due diverse forme di esperienza, come le credenze e i riti. Mentre le prime «sono stati di opinione e consistono di rappresentazioni», le seconde (i riti) costituiscono «tipi determinati di azione» e tra questi due ordini di fatti «c’è tutta la diffe- renza che separa il pensiero dal movimento» (Ibidem, 86; Rosati 2010). Il rituale pertanto è lo spazio e il tempo, per eccellenza, in cui una particolarissima alchimia che scaturisce dall’essere insieme, induce gli individui uti singoli a esperire se stessi e gli altri individui uti universi (Poggi 2000, 2006).
L’analisi del totemismo australiano permette di cogliere quegli elementi costitutivi della reli- gione che, una volta interpretata mediante l’opposizione sacro e profano, dove il primo rappre- senta il nucleo identitario di una comunità morale, finisce per essere ritenuta un elemento per- manente della vita sociale. Eppure, ciò che si rivela con il totemismo, è quel modo con cui le “cose” sociali si producono tramite lo stesso movimento di istituzione del gruppo. Per cui non è solamente il modo in cui il sociale è «proiettato» a divenire oggetto di studio. Se la religione ha a che fare con l’identità di una comunità, finché ci sarà società, non solo una congerie di indivi- dui, ci sarà religione: ciò significa che perdureranno anche gli elementi costitutivi della vita re- ligiosa, cioè la sacralizzazione di alcuni contenuti delle credenze religiose e la dimensione ri- tuale. Il punto fondamentale risiede allora nel fatto che la ritualità permette di operare un auto- trascendimento come unica condizione per cui la contingenza della società non si risolva nella sua scomparsa. In altre parole, perché la società esista è necessario che essa introduca una misura di «conflitto», una spinta ad alter, nella vita che gli individui provano, per quanto impersonale
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questo alter possa essere. È necessario pertanto che la società introduca un fattore capace di motivare, o imporre, un’operazione di autotrascendimento, e ciò è possibile nel momento in cui il sociale si rappresenta nel pensiero religioso: o meglio, ciò è possibile nel momento in cui è il sociale stesso che rende sé come rappresentato nel pensiero religioso. Esso è vissuto dagli indi- vidui nelle pratiche religiose di modo che, prima di essere categorie dell’intelletto, le forme e le rappresentazioni sono categorie sociali:
La vera funzione della religione non è quella di farci pensare, di arricchire la nostra cono- scenza […] ma è quella di farci agire e di aiutarci a vivere. Il fedele che ha comunicato con il suo dio non è soltanto un uomo che vede verità nuove, ignorate dal non-credente; egli è un uomo che può di più. Egli sente in sé una forza maggiore per sopportare le difficoltà dell’esistenza e per vincerle. Egli è sollevato al di sopra della misura umana, perché è solle- vato al di sopra della sua condizione di uomo; si crede salvo dal male, sotto qualsiasi forma concepisca il male (Ibidem, 480-481).
Ciascun homo duplex si esprime e si realizza assumendo un’identità condivisa, capace di tema- tizzare, anche per autotrascendimento, il «meglio» di ciascuno. La superiorità della società, in questo senso, non può che essere morale: è la società la fonte per eccellenza della morale e come superiorità spirituale il suo dominio coinvolge insieme il sentimento e la ragione dell’uomo. A quest’ultimo, del resto, possono giungere idee e sentimenti a lui superiori solo da entità che siano a lui superiori, può riconoscere qualcosa a lui superiore per una convinzione resa possibile dell’esperienza che ha del sociale. In tal senso, il rispetto che noi proviamo verso una persona «è l’emozione che proviamo quando sentiamo prodursi in noi questa pressione interna e del tutto spirituale» (Ibidem, 265), dovuta alla sua autorità morale. Per cui non solo il fedele che ha co- municato con il proprio dio è più «forte», ma è colui che appartiene a una comunità morale, e un uomo «salvato» attraverso la fede è un uomo con una comunità, laddove un uomo privo di co- munità è un uomo che diviene preda di patologie sociali. Pertanto, ciò che «in questo caso ci determina non sono i vantaggi o gli inconvenienti dell’atteggiamento che ci viene prescritto o raccomandato; è il modo in cui ci rappresentiamo colui che lo raccomanda o lo prescrive» (Ivi). La sua efficacia in noi dipende dall’intensità con cui da noi è vissuta l’ascendenza morale. Forte di questo Durkheim può esprimere pienamente il suo pensiero:
I modi di agire a cui la società tiene tanto da imporli ai suoi membri si trovano, per questo stesso motivo, contrassegnati da un segno distintivo che provoca il rispetto. Essendo
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elaborati in comune, la vivacità con cui sono concepiti da ogni individuo particolare si ri- flette in tutti gli altri e viceversa. Le rappresentazioni che li esprimono in ognuno di noi hanno quindi un’intensità a cui non potrebbero pervenire stati di coscienza puramente pri- vati: essi traggono la loro forza da innumerevoli rappresentazioni individuali che sono ser- vite a costituirle. È la società che parla per bocca di quelli che li affermano in nostra pre- senza: è essa che ascoltiamo ascoltandoli, e la voce di tutti ha un accento che non potrebbe avere quella di uno solo. La stessa violenza con cui la società reagisce, con il biasimo o con la repressione materiale, contro i tentativi di dissenso, manifestando con lo sdegno l’ardore della convinzione comune, contribuisce a rafforzarne il dominio. In breve, quando una cosa è oggetto di uno stato dell’opinione, la rappresentazione che ne ha ogni individuo trae dalle sue origini, dalle condizioni in cui è sorta, una potenza di azione avvertita anche da coloro che non vi si sottomettono. Essa tende a ricacciare indietro le rappresentazioni che la con- traddicono, e le tiene a distanza; essa comanda, al contrario, gli atti che la realizzano, e ciò, non già per mezzo di una coercizione materiale o della prospettiva di una coercizione di questo genere, ma semplicemente in virtù della diffusione dell’energia mentale in essa pre- sente. Essa ha un’efficacia che deriva unicamente dalle sue proprietà psichiche, ed è preci- samente da questo segno che si riconosce l’autorità morale (Ibidem, 266).
Nell’essere-insieme non solo si produce e riproduce l’immagine della realtà, ma si depositano e codificano maniere di agire e di pensare che vanno ben al di là dello scopo apparente. Il rituale religioso, come pratica, è infatti completamente differente da tutti gli altri tipi di pratiche umane, proprio a partire dal suo carattere non utilitaristico e a-strumentale: mentre produce integrazione, il rito sospende la pluralità degli atteggiamenti ascrivibili a ciò che nella vita quotidiana è ascritto all’ordine della produzione (Ibidem, 445). In tal senso, il rituale possiede un’energia interpreta- tiva che non può essere ridotta, o banalizzata, con altre forme di agire o con altre pratiche più o meno codificate:
Ecco perché le critiche facili, a cui un razionalismo semplicistico ha talvolta sotto- posto le prescrizioni rituali, lasciano in genere indifferente il fedele: la vera giustifi- cazione delle pratiche religiose non risiede negli scopi apparenti che esse perse- guono, bensì nell’azione invisibile che esse esercitano sulle coscienze, nella maniera in cui influiscono (Ibidem, 422).
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Le necessità dell’azione e soprattutto dell’azione collettiva possono e debbono esprimersi in formule categoriche, perentorie e nette, che non ammettono contraddizione; infatti i movi- menti collettivi sono possibili solo a condizione di essere concertati, e quindi regolati e de- finiti. Escludono i brancolamenti, fonte di anarchia: tendono da soli verso un’organizzazione che, una volta stabilita, si impone agli individui. E dato che l’attività non può fare a meno dell’intelligenza, accade che questa sia trascinata nella stessa via e adotti, senza discussioni, i postulati teorici reclamati dalla pratica (Ibidem, 431).
Il rituale riunisce fisicamente i membri del gruppo in un momento straordinario e separato, sacro appunto, che vincola i membri nel loro stare assieme a realizzare collettivamente forme reiterative, coordinate e codificate di agire. Per l’indigeno, ad esempio, non è minimamente «messa in dubbio» l’efficacia del rito, egli ne segue la ritmicità collettivamente agita, convinto che i riti debbano produrre i risultati che si aspetta per una specie di necessità. Se l’avvenimento «inganna le sue speranze, egli ne conclude semplicemente che i riti sono stati neutralizzati dai malefici di qualche gruppo ostile» (Ibidem, 394). L’esperienza della dimensione sociale del ri- tuale non è né generalizzata con pratiche di routine, né sotto-tematizzata: gli indigeni non pen- serebbero affatto che un risultato favorevole «possa essere ottenuto con altri mezzi» (Ivi). Le credenze magiche producono l’effetto di legare, gli uni agli altri, gli uomini che vi aderiscono, ma non esiste una «Chiesa magica», perché la pratica religiosa necessita di un presupposto fon- damentale, ovvero una chiesa da cui è «inseparabile», una comunità capace di porsi quale auc- toritas istituita dai credenti in una stessa fede (Ibidem, 94-95). Essa ha dunque un carattere col- lettivo ben definito nel momento in cui, nelle vesti di communitas morale, afferma e attua il senso di necessità e di vincolo della pratica rituale.
Durkheim propone un ulteriore argomento a proposito della distinzione tra il rituale religioso e l’eterogeneità della altre pratiche umane. Il rituale, afferma, si riferisce alla «natura particolare» del proprio oggetto (Ibidem, 87). Cosa significa tale dichiarazione? È necessario chiarire questo aspetto perché a differenza del metodo weberiano, l’attenzione è ora rivolta al fenomeno reli- gioso in generale, inteso nella sua totalità. Se con il postulato fondamentale della metateoria che in Weber fonda il metodo comprendente, le cause delle credenze di un individuo coincidono con il senso che queste hanno per lui (Weber 1976, I, 342-343; Treiber 1993), per Durkheim, dal momento che le religioni possiedono necessariamente elementi essenziali in comune e «affinità esteriori» che ne presuppongono altre più profonde, alla base di tutti i sistemi di credenze e di
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tutti i culti vi è necessariamente «un certo numero di rappresentazioni fondamentali e di atteg- giamenti rituali che […] rivestono ovunque lo stesso significato oggettivo e adempiono ovunque alle stesse funzioni» (Durkheim 2005, 54-55). Le credenze religiose conosciute, semplici o com- plesse, possiedono uno stesso carattere comune: «esse presuppongono una classificazione delle cose, reali o ideali, che gli uomini si rappresentano in due classi, in due generi opposti, definiti generalmente con due termini distinti tradotti abbastanza bene dai concetti di profano e di sacro» (Ibidem, 87). Continua Durkheim:
La divisione del mondo in due domini che comprendono l’uno tutto ciò che è sacro, l’altro tutto ciò che è profano, è il carattere distintivo del pensiero religioso; le credenze, i miti, gli gnomi, le leggende sono rappresentazioni o sistemi di rappresentazioni che esprimono la natura delle cose sacre, le virtù e i poteri loro attribuiti, la loro storia, i loro rapporti gli uni con gli altri e con le cose profane (Ivi).
Il concetto di sacro, così come si è sviluppato nelle Formes, avverte l’eco di quanto espresso da Hubert e Mauss nel 1906. A esso viene attribuito un «survalore», una «carica aggiuntiva» atta