• Non ci sono risultati.

Conoscere e assoluto

Nel documento UNITÀ E UNIFICAZIONE (pagine 21-26)

La questione è chiara: se tra conoscere e verità, cioè tra conoscere e assoluto, si pone una distanza, come potrà il conoscere essere vero?

Hegel risponde — lo vedremo — dicendo che il conoscere è la verità stes-sa dell’assoluto, nel senso che l’automovimento del concetto, il quale passtes-sa dall’in sé al per sé per tornare all’in sé e per sé, costituisce l’essenza dell’assoluto stesso. In tal modo, egli ritiene di poter determinare l’assoluto, senza negarlo.

Esprime-(36) G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito; trad. it. di E. De Negri, cit., p. 66.

(37) Ivi, p. 67; così traduce Garelli: “non si vede perché non si debba ammettere anche, all’inver-so, una sfiducia in questa sfiducia, e non ci si debba preoccupare che questa paura di errare non sia già l’errore stesso” (p. 58).

(38) Ibidem; così traduce Garelli il punto cruciale: “ossia, perciò, che il conoscere — il quale, in quanto esterno all’assoluto, è anche esterno alla verità — sia comunque veritiero” (pp. 58–59).

remo la nostra critica a tale posizione quando la prenderemo in esame con la dovuta attenzione e la descriveremo nei suoi aspetti più significativi.

Per ora, ci rifacciamo alla posizione di Chiereghin, il quale offre questa so-luzione al problema indicato:

il conoscere si produce originariamente e principalmente nel punto in cui esso

“tocca” la cosa o nel punto in cui la cosa “tocca” il mezzo per attraversarlo. In quel punto il conoscere cessa di essere uno strumento, così come la cosa cessa di essere separata da esso, ma, pur diversi per essenza, s’identificano nell’unità di un unico e medesimo atto.(39)

Il passo è fondamentale e merita la massima considerazione. Chiereghin afferma che la relazione, che ordinariamente viene pensata come sussistente tra il conoscere e la verità (assoluto), decreta non soltanto il loro vincolo, ma soprattutto la loro distanza.

Si conoscerà veramente, pertanto, solo quando la distanza dalla verità verrà meno, dunque quando si toglierà la relazione stessa. Non a caso, egli parla di un

“punto” nel quale il conoscere e la cosa si toccano, ossia diventano un medesimo.

Ebbene, questo punto, in cui si realizza l’unità tra il conoscere e la cosa — si badi: l’unità, non l’unificazione, che mantiene ancora la dualità (e vale come relazione) — è l’atto in cui conoscere e cosa s’identificano, ancorché diversi.

Concordiamo in pieno con la visione di Chiereghin. Ci permettiamo di aggiungere che l’atto, che realizza l’unità tra diversi e che viene indicato come

“unico e medesimo”, non può non essere l’atto del loro togliersi in quanto di-versi, affinché si configuri effettivamente il loro trascendersi nell’unità.

L’unità, insomma, ci pare tale se, e solo se, la diversità viene meno, così che, venendo meno la differenza, vengono meno anche le identità determina-te rappresentadetermina-te dal “conoscere” e dalla “verità”.

Che è come dire: nella misura in cui la verità viene assunta come termine in relazione al conoscere, in quella relazione che appunto li vincola decretan-do però anche la loro differenza, essa non può che essere una verità determi-nata, dunque una verità condizionata dall’altro da sé, dunque condizionata dalla non–verità.

Allo stesso modo, nella misura in cui l’assoluto viene assunto come termi-ne in relaziotermi-ne, esso vietermi-ne termi-negato termi-nella sua assolutezza, così che, se di verità e di assoluto si vuole veramente parlare, allora si dovrà intendere precisamente quell’unità in cui la differenza viene meno e la dualità scompare.

(39) F. Chiereghin, La “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., p. 33.

Il fatto è che una tale unità non può in alcun modo essere determinata, perché sono venuti meno i termini. Questi ultimi sono i “portatori di deter-minatezza”: soltanto se essi vengono conservati, come nell’unificazione, allo-ra la determinatezza permane, ma la conseguenza è che l’unità non è effettiva poiché la differenza non si è effettivamente tolta.

Se la differenza viene meno, e viene meno veramente, allora non si realizza l’unificazione, che è ancora una relazione, ma l’unità autentica, la quale però cessa di mantenere il tratto della determinatezza. Il problema sorge perché Hegel — e anche Chiereghin — pretende di conciliare assolutezza e determina-tezza, cioè pretende di conciliare gli inconciliabili.

Tanto Hegel quanto Chiereghin, insomma, non accettano il togliersi del conoscere nell’assoluto, cioè nell’autentica verità, e non riconoscono che que-sta è l’unica possibilità che viene offerta al conoscere per essere vero: essere uno con l’assoluto, ossia perdersi in esso.

Di contro, essi recuperano la dualità, nonostante lo stesso Chiereghin ab-bia parlato dell’atto in cui la dualità viene meno: “nell’unità di un unico e me-desimo atto”.

In particolare, Chiereghin svolge un argomento che prende avvio da un’af-fermazione di Hegel, e scrive: “Per questo Hegel può affermare che nessuna astuzia sarebbe in grado di farci avvicinare l’assoluto senza introdurvi alcun mutamento, se l’assoluto stesso ‘in sé e per sé non fosse e non volesse essere già presso di noi’”(40).

A noi sembra che nel passo di Hegel, fatto proprio da Chiereghin (se l’as-soluto “in sé e per sé non fosse e non volesse essere già presso di noi”(41)), ven-ga espressa la neven-gazione più radicale dell’assoluto, per lo meno se inteso come irrelato e non inscrivibile in alcun rapporto, secondo la definizione datane dal-lo stesso Chiereghin. Il quale così procede:

“Essere presso di noi” significa: nulla potrebbe modificare o essere modificato da qualcosa, e quindi avere una relazione positiva con altro da sé, se non pos-sedesse già in sé la capacità di attuare tale relazione; riferita al conoscere, tale capacità suppone preformata in noi la possibilità di “toccare” la cosa e altret-tanto nella cosa la capacità di essere accolta dal conoscere. L’identità di en-trambe queste possibilità è già interamente il modo in cui l’assoluto è attivo e presente in noi. Come si può vedere, già a questo livello iniziale della

distru-(40) Ivi, p. 34; il passo di Hegel, che abbiamo scritto tra apici, compare nell’Introduzione alla Fe-nomenologia, a p. 66 dell’edizione di De Negri.

(41) G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito; trad. it. di E. De Negri, cit., p. 66.

zione della vuota apparenza del sapere agisce quella coincidenza di soggetto e oggetto, di essere e pensare, che costituisce, secondo Hegel, il tratto fonda-mentale del sapere assoluto.(42)

Anche questo passo è importantissimo: con esso si passa dall’assoluto al

“sapere assoluto”, come se si trattasse di un medesimo. Seguiamo l’andamen-to dell’argomentazione. In base a quanl’andamen-to si dice nelle prime righe, si lascia intendere che all’assoluto venga offerta la possibilità di “avere una relazione positiva con altro da sé”. Ma come è possibile, ci chiediamo, porre tale affer-mazione, dopo avere dichiarato che l’assoluto è tale proprio perché nega ogni possibile relazione ad altro?

Inoltre: l’assoluto avrebbe già in sé “lacapacità di attuare tale relazione”.

In quale senso, ci chiediamo ancora, l’assoluto è ab–solutus, se poi ha in sé la capacità di attuare la relazione ad altro? Non si sta forse dicendo che l’asso-luto avrebbe in sé la capacità di negare sé stesso? E, dunque, che l’assol’asso-luto è contraddittorio?

Ma procediamo con ordine e senza fretta. Il conoscere avrebbe, da par-te sua, la capacità di “toccare” la cosa, cioè l’assoluto. Domandiamo: perché continuare a usare il verbo “toccare”? Con tale verbo, Chiereghin, nel passo che abbiamo citato in precedenza e nel quale si afferma la priorità dell’atto, indica appunto che si deve individuare un “punto”, quello nel quale il cono-scere non ingloba l’assoluto, ma lo sfiora.

V’è un unico senso, a nostro giudizio, per intendere adeguatamente come l’assoluto possa lasciarsi “sfiorare”. A condizione che con questa espressione si intenda dire che in quel preciso punto, il punto dello “sfioramento”, la dualità di conoscere e assoluto viene meno. E solo in questo senso, va aggiunto, si giusti-fica l’uso dell’espressione “atto”: l’atto indica il togliersi della differenza (duali-tà), in modo tale che, in effetti, l’assoluto non viene toccato né sfiorato.

A noi sembra fondamentale l’avere introdotto il concetto di “atto”, inte-so come atto del togliersi della dualità. Tale atto indica precisamente, da un lato, la necessità del togliersi di quell’assoluto che venga inteso come una de-terminazione; da un altro lato, la necessità del togliersi dell’altro da esso che sia in relazione con esso.

L’assoluto, infatti, non è una determinazione; quindi, non è circoscritto da un limite, sì che — lo ripetiamo — non ha senso parlare di un suo venire

“toccato” o “sfiorato” dal conoscere, semplicemente perché ciò configurereb-be la duplice tesi della determinatezza dell’assoluto (circoscritto da un limite)

(42) F. Chiereghin, La “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., p. 34.

nonché della relazione con l’assoluto, determinatezza e relazione che l’assoluto, invece, non può non escludere.

E tuttavia, anche ammettendo — senza concederla — l’ipotesi che l’asso-luto sia una determinazione, non si potrà non rilevare che, se appunto “cono-scere” e “assoluto” sono due determinazioni, esse, proprio in ragione del fatto che si pongono ciascuna in relazione all’altra (sappiamo che ogni determina-zione non è autonoma e autosufficiente, ma si pone riferendosi alla differen-za), in effetti non possono non valere l’una come l’essenza dell’altra.

Ebbene, ciò ha una conseguenza formidabile, che vale bensì per il conoscere e l’assoluto, ma che domanda altresì di venire estesa ad ogni determinazione: pro-prio perché l’una determinazione (il conoscere, “A”) è l’essenza dell’altra (l’asso-luto, “non–A”), e viceversa, tra di esse non si instaura una relazione ordinaria, un costrutto che le inglobi come suoi termini, ma l’una è il riferirsi intrinseco all’altra.

L’atto del riferirsi, che caratterizza strutturalmente ogni determinazione (che è sé nel riferirsi ad altro), risulta così unico e medesimo, precisamente per la ragione che è identico per ciascuna, e in quest’unico e medesimo atto le de-terminazioni (tutte le dede-terminazioni, inclusi il conoscere e l’assoluto assun-to come determinaassun-to) si assun-tolgono, perché la loro consistenza è solo parvente.

Per riassumere il punto, che è decisivo e che è stato solo indicato preceden-temente, lo precisiamo con queste parole: se l’una determinazione c’è aven-do l’altra (la differenza da essa) come sua essenza, allora l’altra non è estrinse-ca, ma ha valore intrinseco e costitutivo dell’una.

Ciascuna determinazione, quindi, risulta in sé la negazione di sé, valendo come sé et non sé, dal momento che prevede come essenza l’altro da sé, ossia ciò che la nega.

Con questo approdo: ciascuna determinazione è una contraddizione e, dunque, è l’atto del contraddirsi, cioè l’atto del venire meno a sé stessa. Ciò che poco sopra abbiamo quindi indicato come “atto del riferirsi”, ora lo indi-chiamo come “atto del contraddirsi”, che è poi l’“atto del trascendersi (oltre-passarsi)” da parte di ogni determinato(43).

Che è come dire, cogliendo l’essenza ultima del discorso: nell’unità ideale dell’atto le determinazioni si tolgono, così che si toglie anche la determinatez-za, che ad esse è vincolata, e si impone come unica e vera realtà soltanto l’uni-tà, che poi altro non è che l’assoluto stesso(44). E va aggiunto: l’unità, ossia

l’as-(43) Il tema della contraddittorietà del determinato, che si intreccia con il tema del togliersi del fi-nito, troverà ampia trattazione nel corso del presente scritto.

(44) Più avanti, in particolare a muovere dal paragrafo 1.13, prenderemo in esame il togliersi dell’at-to nell’assoludell’at-to.

soluto, costituisce a rigore l’esito dell’atto del togliersi del determinato, là dove l’unità ideale dell’atto diventa unità reale, cioè la vera realtà(45).

Il discorso che abbiamo svolto, pertanto, ha preso avvio dall’insensa-ta riduzione dell’assoluto a determinazione, posdall’insensa-ta in relazione all’altra de-terminazione rappresentata dal conoscere, ed è proseguito fino a pervenire a questa conclusione: se si assume l’assoluto come determinazione, allo-ra esso non può non subire il “destino” che è proprio di ogni determina-zione, e cioè quello di risolversi nell’atto che lo spinge oltre sé stesso, verso quell’assoluto autentico che non può più venire considerato una determina-zione, precisamente per la ragione che costituisce quella vera unità (vera re-altà) nella quale ogni molteplicità, dunque ogni determinazione, non può non togliersi.

In sintesi: assumere l’assoluto come ciò che può venire “toccato” dal cono-scere — come si è visto a muovere dal passo di Chiereghin che abbiamo cita-to — significa, pertancita-to, ridurlo a qualcosa di determinacita-to, dal momencita-to che, solo se circoscritto da un limite, ha senso parlare di un suo subire un toccamen-to (sfioramentoccamen-to). E ridurre l’assolutoccamen-to a determinatoccamen-to comporta l’abbandonarlo alla sorte che appartiene ad ogni determinato: il suo venir meno a sé stesso, stante la sua intrinseca contraddittorietà.

Una volta che sia stata compiuta questa insensata riduzione, e solo dando-la acriticamente per assunta, risulta comprensibile svolgere il discorso secondo il quale si darebbe un’“apertura reciproca”, per usare il linguaggio di Heideg-ger, tra l’assoluto e il conoscere, i quali verrebbero disposti sul medesimo li-vello e verrebbero reciprocamente limitati (determinati).

Nel documento UNITÀ E UNIFICAZIONE (pagine 21-26)

Documenti correlati