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UNITÀ E UNIFICAZIONE

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UNITÀ E UNIFICAZIONE

1.1. Vero e falso

Per svolgere un’indagine teoretico–critica della Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, prendiamo avvio dal punto che introduce direttamente al tema fondamentale e cioè alla questione di come intendere la “verità filosofica”(1).

Hegel precisa, inizialmente, che tale concetto non può venire adeguata- mente espresso in una Prefazione. Ordinariamente, egli prosegue, si è porta- ti a pensare che la verità filosofica, poiché la filosofia “è essenzialmente nell’elemento dell’universalità la quale chiude in sé il particolare”(2), sia reperibile “nel fine e nei resultati ultimi”(3), poiché in questi si trova espressa “la cosa stessa proprio nella sua perfetta essenza”(4).

Di conseguenza, si tende a pensare che “Rispetto a questa essenza lo svilup-po dell’indagine dovrebbe propriamente costituire l’inessenziale”(5). Di contro, e lo si vedrà, Hegel non farà sua questa prospettiva e dichiarerà che il fine non può venire assunto a prescindere dal processo che ad esso conduce. Questo aspetto, tuttavia, verrà preso in esame più avanti.

(1) G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807), in Sämtliche Werke, dritte Auflage der Ju- biläumsausgabe, Bd. 2, hrsg. von H. Glockner, Frommann–Holzboog, Stuttgart–Bad Cannstatt 1964;

trad. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, Vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1976, sec. rist. del- la sec. ediz. [1960], p. 1.

(2) Ibidem.

(3) Ibidem.

(4) Ibidem.

(5) Ibidem.

(2)

Il primo punto che egli discute espressamente riguarda invece l’errore che, a suo giudizio, consiste nel contrapporre il vero e il falso, intesi in senso rigido:

Quanto più rigidamente l’opinione concepisce il vero e il falso come enti- tà contrapposte, tanto più poi, in rapporto a un diverso sistema filosofico, si aspetta unicamente o approvazione o riprovazione, e soltanto o l’una o l’altra sa vedere in una presa di posizione rispetto a quel diverso sistema stesso. Non tanto l’opinione riesce a farsi un concetto della diversità dei sistemi filosofici, quanto piuttosto nella diversità scorge più la contraddizione che non il pro- gressivo sviluppo della verità.(6)

Così Cicero traduce il punto cruciale: “Il fatto è che l’opinione, scorgendo nella diversità unicamente la contraddizione, è incapace di concepire la diver- sità fra sistemi filosofici come lo sviluppo progressivo della verità”(7).

Hegel intende, dunque, criticare quella concezione che fa del vero e del falso due entità contrapposte. Se si procede in base a questa concezione, egli dice, si fanno valere giudizi rigidi, per i quali un enunciato o un sistema di enunciati sarà aut vero aut falso, in una logica bivalente che dà luogo ad un’al- ternativa, cioè ad una relazione disgiuntiva esclusiva, che impone come vero solo uno dei suoi due corni, escludendo che possa esservi una terza possibili- tà (tertium non datur).

Inoltre, nel valutare un sistema filosofico, diverso da quello con cui si va- luta, si perviene ad una soltanto delle due opzioni: lo si approva o lo si rifiuta, senza mezzi termini. Questo modo di procedere, che è caratteristico dell’opi- nione, cioè della doxa, non riesce a concepire la diversità, perché nella diversi- tà di sistemi, o di enunciati, vede l’antitesi, fino alla contraddizione, nel senso che, di due sistemi diversi, si opina che uno debba risultare vero e l’altro fal- so, giacché il loro rapporto viene inteso, appunto, come un rapporto di con- traddittorietà.

A questo proposito, e per introdurre la riflessione critica, ricordiamo che la contraddizione deve venire distinta, secondo quanto indicato dallo stesso Aristotele, dalla contrarietà. Nella Metafisica, lo Stagirita svolge un’analisi del concetto di opposizione e rileva che “contrari” sono quei termini che ammet- tono termini intermedi (ad esempio, il bianco e il nero, che ammettono una gradazione di grigi), laddove “contraddittori” sono quelli che non li ammet- tono (ad esempio, bianco/non bianco).

(6) Ivi, p. 2.

(7) G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito; trad. it. di V. Cicero, Rusconi, Milano 1995, p. 51.

(3)

Ciò che ne consegue è che i contraddittori danno luogo ad un’alternativa che divide in due sezioni quello che potrebbe venire definito il campo del re- ale, dal momento che una qualunque determinazione cade necessariamente o nell’uno o nell’altro dei due campi(8).

L’alternativa, come detto, è una relazione disgiuntiva esclusiva (aut, aut) e la conciliazione dei termini è impossibile. Tale conciliazione costituisce non altro che una contraddizione, poiché si configura come la conciliazione di in- conciliabili.

Seguendo l’indicazione aristotelica, ci si dovrebbe chiedere se “vero” e “fal- so” configurino due termini contrari o contraddittori. La risposta, accettando il pensiero di Hegel, non può che essere questa: si tratta di due termini con- trari. Per quale ragione, allora, tra di essi dovrebbe instaurarsi un rapporto di contraddittorietà?

Forse, proprio questo intende affermare Hegel: precisamente in ragione del fatto che vero e falso sono contrari, tra di essi non si deve pensare una ri- gida alternativa, la cui sintesi non porterebbe che alla conciliazione di incon- ciliabili, dunque alla contraddizione.

Che è come dire: li si deve pensare come contrari perché, così intesi, essi ammettono sfumature intermedie o, nei termini hegeliani, la verità non viene più considerata come un’entità statica e rigida, bensì come dinamica e dutti- le, tale cioè da inglobare il falso e trascenderlo, riducendolo a suo momento (come Hegel dirà successivamente)(9).

La verità, insomma, va pensata come qualcosa che evolve e che, nel suo evolvere, può assumere forme anche diverse tra di loro, che solo una conce- zione non filosofica contrapporrebbe in modo rigido. Come esemplificazio- ne, Hegel fa riferimento al bocciolo che si trasforma allorché fiorisce, in modo tale che, se si usasse un sistema di valutazione rigido, si finirebbe con l’affer- mare che la prima forma (il bocciolo) è “confutata” dalla seconda (il fiore), laddove la seconda è la trasformazione, e dunque l’inveramento, della prima.

Lo stesso discorso, del resto, può venire fatto per il fiore e il frutto.

Ma attenzione. Hegel sostiene che le due forme sono “reciprocamente in- compatibili”(10), ovverosia non possono coesistere nel medesimo tempo, ma sono non di meno dotate di “fluida natura [che] ne fa momenti dell’unità or- ganica, nella quale esse non solo non si respingono, ma sono anzi necessa-

(8) Cfr. Aristotele, Metafisica, X, 7, 1057 a 18–32; trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano 1978., p. 430.

(9) Ci sembra importante avvertire il lettore che tale tematica verrà ripresa e approfondita nel Ca- pitolo Terzo, a partire dal paragrafo 3.3.

(10) G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito; trad. it. di E. De Negri, cit., p. 2.

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rie l’una non meno dell’altra; e questa eguale necessità costituisce ora la vita dell’intiero”(11).

In effetti, per Aristotele vero e falso, essendo appunto contrari, sono l’uno la negazione dell’altro. Se non che, la questione concerne proprio il concetto di “negazione”. Se il vero, per essere vero, deve negare il falso, e se la negazio- ne, per essere determinata(12), deve disporsi sul suo “negato” (negazione di nul- la, infatti, configura una negazione–nulla(13)), allora la posizione del falso di- venta essenziale alla posizione del vero. Il falso entra così nella costituzione del vero, come suo momento, anche se Hegel dirà come un momento “tolto”(14).

(11) Ibidem; così traduce Garelli: “La loro [delle forme] natura fluida ne fa però, nel contempo, mo- menti dell’unità organica, in cui non soltanto esse non sono in contrasto, ma l’una non è meno indi- spensabile dell’altra: ed è solamente questa pari necessità a costituire la vita del tutto” (G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, a cura di G. Garelli, Piccola Biblioteca Einaudi NS, Torino 2008, p. 4).

(12) Scrive F. Chiereghin: “La negazione, invece, se agisce effettivamente come tale, è negazione de- terminata di qualcosa di determinato e dà per risultato un contenuto positivo” (La “Fenomenologia del- lo spirito” di Hegel, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994, p. 46). Precisa J. Hyppolite: “la negazione è sempre una negazione determinata. Ora, se è vero che ogni posizione determinata è una negazione (om- nis affirmatio est negatio), non è men vero che ogni negazione determinata è una certa posizione” (Genèse et structure de la «Phénoménologie de l’Esprit» de Hegel, Éditions Montaigne, Paris 1946; trad. it. di G.A. De Toni, Genesi e struttura della «Fenomenologia dello spirito» di Hegel, La Nuova Italia Editrice, Firenze 19772, p. 20). Rileviamo, per inciso, che agli studi di Hyppolite e di Chiereghin, che verranno citati a più ripre- se nel presente lavoro, si affiancano anche altri importanti lavori sulla Fenomenologia dello Spirito, dei quali non sempre ci occuperemo. Tra i lavori importanti, ma non rilevanti per i temi da noi affrontati, menzio- niamo: J.–P. Labarrière, La Phénoménologie de l’esprit de Hegel. Introduction à une lecture, Éditions Au- bier–Montaigne, Paris 1979; A. Philonenko, Lecture de la «Phénoménologie» de Hegel. Préface–Introduc- tion, Vrin, Paris 1993; J. Russon, Reading Hegel’s Phenomenology, Indiana University Press, Bloomington 2004; W. Marx, Hegels Phenomenologie des Geistes, V. Klostermann, III ed., Stuttgart 2006; K.R. West- phal (ed.), The Blackwell’s Guide to Hegel’s Phenomenology of Spirit, Wiley–Blackwell, Chichester 2009; L.

Siep, Hegel’s Phenomenology of Spirit, Cambridge University Press, Cambridge 2014.

(13) Il tema verrà ripreso nel Capitolo Secondo (paragrafi 2.9 e 2.20) e nel Capitolo Terzo (in par- ticolare, nel paragrafo 3.19).

(14) La funzione costitutiva del vero da parte del falso troverà espressione ed esplicitazione anche nell’assunzione del vero come sintesi del processo e del suo risultato, così che nessuna tappa è più vera (o più falsa) di un’altra, ma tutte si sostengono a vicenda. Scrive, a questo proposito, G. Garelli: “‘vero’

infatti non può dirsi di questo o di quel momento singolo dell’intero processo, bensì può dirsi solamen- te del processo nella sua totalità, del quale i singoli momenti non sono che momenti, ossia unilatera- lità” («Lo spirito dell’inquietudine», in G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, a cura di G. Ga- relli, cit., p. XXXVIII). Si potrebbe aggiungere che la funzione costitutiva indicata sta a fondamento della concezione per la quale la filosofia è, essenzialmente, scienza, ossia sistema scientifico, cioè un’uni- tà articolata, nella quale la differenza, e dunque anche quella differenza dal vero che è rappresentata dal falso, gioca un ruolo fondamentale: “La scienza, del cui Sistema qui si tratta, è l’intero del sapere più alto ed autentico. Questo sapere è la filosofia. Scienza è qui intesa nello stesso significato che nel con- cetto fichtiano di ‘dottrina della scienza’. Questa dottrina non si preoccupa delle scienze […], ma del- la scienza, cioè dell’autodispiegamento della filosofia in quanto sapere assoluto” (M. Heidegger, He- gels Phänomenologie des Geistes, in Id., Gesamtausgabe, V. Klostermann, Frankfurt am Main 1980; trad.

it. di S. Caianiello, La fenomenologia dello spirito di Hegel, a cura di E. Mazzarella, Guida Editori, Na- poli, 1988, p. 38).

(5)

Si potrebbe, dunque, riassumere il discorso svolto in questi termini: se vero e falso fossero contraddittori, non solo sarebbero inconciliabili, ma altresì sa- rebbe precluso il passaggio dall’uno all’altro, perché o si pone l’uno oppure si pone l’altro; vero e falso non si pongono mai insieme. Di contro, se vengono pensati come contrari, ancorché l’uno sia la negazione dell’altro, essi possono venire conciliati, tant’è che, per Hegel, il falso entra, come “tolto”, nella co- stituzione del vero.

Questo poggiare del vero sul falso costituisce, a nostro giudizio, il primo e fondamentale tema con il quale ci si imbatte leggendo la Prefazione e su di esso si dovrà attentamente riflettere, giacché non può essere accettata in for- ma acritica l’interpretazione fornita da Hegel: come è possibile, ci si deve do- mandare, che il vero necessiti del falso per essere? E ancora: come potrà essere considerato un vero autentico quello che necessita del suo contrario?

La risposta, che possiamo azzardare in prima battuta, ci sembra la seguente:

se il vero è assunto in forma determinata, cioè come una qualunque altra deter- minazione, allora non potrà porsi che contrapponendosi alla propria differen- za: dunque, al falso. Ma la domanda è: il vero è una determinazione come tut- te le altre oppure non può venire determinato, per il suo valere quale assoluto?

In effetti, come emergerà dal prosieguo del lavoro, Hegel considera certa- mente il vero come assoluto (“l’Assoluto solo è vero, o il Vero solo è assolu- to”, scrive nell’Introduzione alla Fenomenologia(15)), ma non per questo evita di determinarlo.

A nostro giudizio, fare dell’assoluto un determinato costituisce un proble- ma teoretico di prima grandezza, che non potrà non impegnarci in una atten- ta riflessione da condurre lungo l’intero sviluppo del presente scritto(16).

1.2. Unità e unificazione

Vedremo più avanti il significato dello Auf–heben, cioè del tollere (e del “tol- to”)(17), che è anche un “conservare” (“conservato”). Per ora ci accontentiamo

(15) G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito; trad. it. di E. De Negri, cit., p. 67.

(16) Potremmo dire che il nostro intento, nei confronti dell’opera di Hegel, viene mirabilmente ri- assunto, in poche parole, da Otto Pöggeler: “Chi accoglie l’idea della fenomenologia per trasformar- la in modo creativo, fa proprio ciò che si deve fare di fronte all’opera hegeliana, perché un’opera vuole agire, influire in modo vivente” (O. Pöggeler, Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes, Alber, Frei- burg–München 1973; trad. it. a cura di A. De Cieri, Hegel. L’idea di una fenomenologia dello spirito, Gui- da Editori, Napoli 1986, p. 195).

(17) Si potrebbe fare riferimento all’espressione latina Agnus Dei qui tollis peccata mundi, nella qua- le quel “togli i peccati” va inteso nel senso che ne toglie il peso, senza, però, produrre l’oblio di ciò che

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di rilevare che, già da queste prime battute, si va delineando la concezione he- geliana, secondo la quale la verità deve venire pensata in forma dinamica, così che di essa deve venire colta l’esposizione, ossia il suo estrinsecarsi, che è poi il suo divenire, fatto di forme che si succedono.

Tali forme, se considerate in un’ottica angusta, risultano essere l’una in op- posizione all’altra; se, invece, vengono considerate alla luce dell’intero, allo- ra risultano collegate (relate) fra di esse e parimenti essenziali, perché costitu- iscono i momenti in cui l’intero, ossia la verità pensata da Hegel come “unità organica”, si articola e si esprime (manifesta).

Una nuova domanda, che il testo di questa Prefazione ci suggerisce, è la seguente: nel dichiarare che il vero e il falso non possono venire rigidamente contrapposti — e che l’uno tende a capovolgersi nell’altro — nonché nel far valere l’intero come sintesi di determinazioni diverse, finanche opposte, He- gel intende forse sostenere il primato della contraddizione, in modo tale che di fatto finisce per assumere la verità come la contraddizione stessa?

Non sarà inutile ricordare che l’hegelismo cosiddetto “di sinistra”, cioè quel filone di pensiero che prende avvio dagli scritti di Marx ed Engels e si conclude con il programma del materialismo dialettico esposto in varia guisa e da molteplici marxisti, valorizza proprio la contraddizione e intende la dia- lettica nel senso che essa non farebbe che esprimere il dinamismo insito nel- la contraddizione(18).

La realtà, per questa concezione, sarebbe contraddittoria così come la ma- teria, che della realtà costituirebbe l’essenza ultima (la determinante in ultima istanza), e precisamente per questa ragione realtà e materia sarebbero in con- tinuo divenire. La contraddizione, infatti, non è uno status, ma una condizio- ne instabile e per questo tende a superarsi.

Se non che, il superamento della contraddizione viene pensato, dalla pro- spettiva indicata, come un procedere orizzontale, le cui tappe sono costituite dalle singole determinazioni, le quali sono appunto in continua trasformazio- ne. In tal modo, non si perviene ad un superamento della contraddizione, ma quest’ultima permane la verità ultima della realtà, di ogni realtà: della realtà materiale, cioè della natura, come della realtà economica e sociale.

è accaduto, cioè senza l’oblio del passato (Cfr. R. Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, il Mulino, Bologna 2014, e–book p. 236).

(18) Ci sembra di poter dire che la valorizzazione della contraddizione, fino al punto di considerar- la l’essenza stessa della verità, costituisca una posizione che possa essere fatta propria da poeti o scrittori (è noto il famoso enunciato di Walt Whitman, “Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono va- sto, contengo moltitudini”, tratto da Canto di me) piuttosto che da autentici filosofi. Le ragioni di que- sto nostro convincimento emergeranno nel prosieguo del lavoro.

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Come vedremo, in effetti Hegel considera la contraddizione non come la verità(19), ma come qualcosa di inevitabile(20): il pensiero intellettivo si impiglia in contraddizioni nelle quali rimane invischiato; di contro, la ragione supe- ra le contraddizioni e approda all’unità dello spirito assoluto, il quale non di meno è un’unità determinata, così che è da chiedersi — e noi ce lo chiedere- mo — se la contraddizione in esso sia stata effettivamente superata.

Per procedere pazientemente, e senza saltare i passaggi necessari ad un’ade- guata comprensione della tematica, torniamo al concetto principale che emer- ge in queste prime pagine della Prefazione: il concetto di “verità” come “uni- tà organica”.

La cosa fondamentale, che deve venire notata, è che Hegel parla di “unità”

(Einheit). Se non che, tale unità non viene intesa come un’unità compatta, e per questo effettiva (autentica), ma come un’unità articolata, che appunto vie- ne definita “organica” (organischen). A nostro avviso, sarebbe stato più corret- to definirla “unificazione” (Vereinigung)(21), stante il fatto che si tratta, appun- to, di una sintesi, cioè di una relazione.

La differenza tra unità e unificazione costituisce un tema cruciale anche in questa Prefazione. Se, infatti, l’unità non è in sé divisibile, perché è semplice, ossia elementare, di contro l’unificazione, valendo come una relazione, si co- stituisce come un costrutto mono–diadico, formato cioè di due termini estremi e di un nesso che li vincola (congiunge).

A nostro giudizio, tale costrutto configura la conciliazione di inconciliabili.

In esso, infatti, si postula, da un certo punto di vista, l’indipendenza dei termi- ni, che devono presentare, ciascuno, una propria identità — diversa da quel- la dell’altro —, e per questa ragione ogni termine è in sé assumibile e in sé co- dificabile (“A” non è “non–A”); da un altro punto di vista, invece, si postula

(19) “Ciò che muove il mondo in generale è la contraddizione, ed è ridicolo dire che la contraddi- zione non può essere pensata. Quest’affermazione è giusta solo in quanto non ci si può accontentare del- la contraddizione e la contraddizione supera se stessa mediante se stessa” [G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830), in Sämtliche Werke, dritte Auflage der Jubiläum- sausgabe, Bd. 6, hrsg. von H. Glockner, Frommann–Holzboog, Stuttgart–Bad Cannstatt 1968; trad. it.

di V. Verra, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Parte Prima, La scienza della logica, Utet, Torino 1981, p. 321].

(20) Il tema della “inevitabilità”, e della differenza che sussiste tra “inevitabile” e “innegabile”, verrà espressamente affrontato nei paragrafi 1.12, 1.15 e 1.16 e troverà ampio spazio nella presente trattazione.

(21) Così scrive De Negri: “Per indicare questa [l’unità], lo Hegel usa Einheit; mentre per indicare l’universalità che supera la scissione e la Einheit, preferisce più spesso Einigkeit (traducibile in modo ap- prossimativo come unione) e Vereinigung, unificazione. Quest’ultima nel suo valore supremo è l’assolu- to o idea” (E. De Negri, Interpretazione di Hegel, Sansoni, Firenze 19733, p. 47). L’unificazione è l’idea stessa proprio perché l’intero viene concepito come una sintesi. Precisamente su questo punto insisterà la nostra indagine, che verrà condotta, in particolare, nel Capitolo Terzo.

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la dipendenza reciproca dei termini stessi, dal momento che, essendo essi in re- lazione, dipendono l’uno dall’altro e, inoltre, si determinano l’uno in funzio- ne dell’altro e l’uno come funzione dell’altro (“A” in tanto si pone in quanto si differenzia da “non–A”, così che “A” senza “non–A” non può stare o, detto altrimenti, l’uno dipende interamente dall’altro)(22).

Torneremo su questo tema, perché è fondamentale, e indicheremo, inol- tre, come deve venire inteso il concetto di relazione, se si intende trascendere l’universo formale che lo assume come un costrutto mono–diadico.

Qui ci accontentiamo di rilevare che, se l’intero (la verità) viene inteso come sintesi, od anche come insieme, allora esso non costituisce un effettivo superamento della contraddizione, stante che l’intero così concepito viene ri- solto nella coesistenza di opposti.

Eppure, come abbiamo già visto, lo stesso Hegel afferma che “l’Assoluto solo è vero”. L’unità espressa dall’assoluto — questo è il punto che, come si evincerà dalla trattazione, a noi interessa mettere bene in luce — non può ve- nire confusa con l’unificazione, la quale, essendo una relazione intesa come co- strutto, mantiene in sé quella conciliazione di inconciliabili che è la contrad- dizione stessa(23).

Per essere ancora più chiari, aggiungiamo che l’intero non può venire assun- to come un insieme per una ragione ulteriore: come indica il suo stesso etimo,

“intero” è da integrum e significa “l’intatto” e “l’intangibile”, ossia ciò che non può in alcun modo venire alterato. Se non che, se l’intero fosse un insieme di ele- menti, allora su di esso si sarebbe già esercitata l’attività dell’analizzare, così che esso sarebbe stato necessariamente alterato e trasformato in “composto”(24).

Da un lato, dunque, l’attività dell’analizzare avrebbe dovuto richiedere, come propria condizione legittimante e originaria, non altro che l’intero: solo l’intero, infatti, può valere come il prerequisito dell’analisi, cioè come la condi- zione a parte ante del suo costituirsi.

(22) Così esprime il concetto Heidegger: “Qualcosa e altro: così il qualcosa diventa l’uno dell’altro e l’altro dell’uno. La differenza è condizionata unilateralmente da ogni lato” (M. Heidegger, Hegel, V.

Klostermann, Frankfurt am Main 1993; ed. it. a cura di G. Moretti, trad. it. di C. Gianni, Hegel, Ema- nuela Zandonai Editore, Rovereto (Tn) 2010, p. 20).

(23) Ci sembra quanto mai interessante rilevare come anche Emanuele Severino, che pure intende andare oltre la contraddizione facendo valere l’aristotelico principio di non contraddizione e attribuen- do allo stesso Hegel il rispetto del medesimo principio, poiché poi risolve l’intero nella sintesi e parla di struttura originaria, finisca per ricadere in quella contraddizione, che invece intendeva superare. Per un approfondimento, si rinvia ad A. Stella, Il concetto di «relazione» nell’opera di Severino. A partire da «La struttura originaria», Guerini e Associati, Milano 2018 e Id., «Metafisica originaria» in Severino.

Precisazioni preliminari e approfondimenti tematici, Guerini e Associati, Milano 2019.

(24) Riprenderemo il tema nel paragrafo 2.20 del Capitolo Secondo.

(9)

Dall’altro, solo il composto, cioè l’insieme, costituisce ciò su cui l’analisi può effettivamente esercitarsi, perché solo il composto può venire analizzato senza venire alterato.

Ma il composto non può costituire il prerequisito dell’analisi, bensì solo il suo presupposto. Quest’ultimo, inoltre, presenta la seguente caratteristica: pre- tende di valere come ciò che precede l’analisi, ma in effetti ne costituisce il ri- sultato, dal momento che si ottiene mediante l’attività del riunificare gli ele- menti ottenuti con l’analisi stessa.

La caratteristica del presupposto, insomma, è l’antilogia, così che lo si deve necessariamente distinguere dal “prerequisito”, che vale invece come effettiva condizione dell’analisi. Con questa inevitabile conseguenza: se l’intero è il pre- requisito, allora non può valere quale presupposto.

In sintesi e per ricapitolare: l’insieme (il composto) è il presupposto dell’a- nalisi, perché costituisce l’oggetto su cui essa può esercitarsi, senza alterarlo.

Se non che, il presupposto è tale perché, a sua volta, presuppone l’analisi che lo presuppone: l’insieme, infatti, presuppone un’analisi compiuta e obliata.

L’insieme, quindi, è presupposto di presupposto, all’infinito, od anche il circolo vizioso del presupporre.

Allorché Hegel intende l’intero come l’insieme delle forme che la verità ha assunto nel suo dispiegarsi, dà per scontato non solo il fatto che la verità si dispieghi — ancora, infatti, non ha offerto alcuna ragione che legittimi que- sta sua affermazione —, ma anche il fatto che valgano come verità le figure di questo dispiegarsi, nessuna esclusa, così che ci si viene a trovare in una molti- plicazione della verità e nella sua riduzione a determinazione.

Se, infatti, la verità è un insieme di elementi, essi stessi veri, allora la veri- tà risulta molteplice e determinata, perché sono determinati tanto gli elemen- ti quanto l’insieme che di essi si costituisce.

Ebbene, il primo punto che deve venire sottolineato con forza è precisa- mente questo: si sceglie di identificare la verità con l’unificazione, e non con l’unità, per la ragione che nell’unità — la quale, se è autentica, non può non valere quale esito dell’ablatio alteritatis — il determinato viene meno.

Va aggiunto, inoltre, che, con il venir meno del determinato, viene meno anche la contrapposizione di determinato e indeterminato, nella quale anche l’indeterminato viene, di fatto, determinato, stante il suo valere come “termi- ne” in relazione.

Hegel pretende, quindi, di conciliare due aspetti che, a nostro giudizio, sono inconciliabili: l’assolutezza et la determinatezza della verità. Precisamente per que- sta ragione sceglie di assumere come verità ultima l’unificazione e non l’unità.

(10)

Poiché il punto indicato riveste un ruolo centrale nell’intera produzione hegeliana, vincolando il tema della determinazione dell’assoluto al tema del- la differenza tra unità e unificazione, su di esso torneremo a più riprese, come abbiamo anticipato alla fine del paragrafo precedente.

1.3. L’intero

Il tema dell’unità, e della differenza con l’unificazione, torna non a caso a proporsi proprio allorché Hegel definisce l’intero, cioè la cosa stessa:

Infatti, la cosa stessa non è esaurita nel suo fine (die Sache ist nicht in ihrem Zwecke erschöpft) bensì nella sua attuazione (sondern in ihrer Ausführung); né il resultato è l’Intiero effettuale (noch ist das Resultat das wirkliche Ganze); anzi questo è il resultato con il suo divenire (sondern es zusammen mit seinem Wer- den); per sé il fine è l’universale non vitale così come la tendenza è il mero slan- cio ancor privo della sua effettualità; e il nudo resultato è la morta spoglia che ha lasciato dietro di sé la tendenza. — Similmente, la diversità è piuttosto il li- mite della cosa; essa è là dove la cosa cessa, o è ciò che questa non è.(25)

L’intero, quindi, è la sintesi rappresentata dal processo e dal suo risultato, nel senso che, qualora il processo venisse assunto a prescindere (separatamente) dal suo risultato, risulterebbe un “tendere” che, però, non si realizza, cioè uno

“slancio ancor privo della sua effettualità”; altrettanto, se il risultato (il fine) venisse assunto a prescindere (separatamente) dal processo che lo pone, risul- terebbe una mera astrazione, un universale che non è effettivamente tale,una

morta spoglia che ha lasciato dietro di sé la tendenza”.

Così riassume il tema Mendola:

L’idea secondo la quale la verità non è solo il risultato di un processo, ma è questo stesso processo, implica la critica a tutte quelle concezioni che pensano

(25) G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito; trad. it. di E. De Negri, cit., p. 3; Cicero così tradu- ce: “La Cosa, infatti, non si esaurisce nel suo fine, bensì nella sua attuazione; e il Tutto reale non è costitu- ito soltanto dal risultato, ma da questo insieme al divenire che l’ha prodotto. Preso a se stante, il fine è l’u- niversale senza vita, così come la tendenza è il mero impulso cui manca ancora la realtà; e il nudo risultato è il cadavere che s’è lasciato dietro la tendenza. Analogamente, la diversità è piuttosto il limite della Cosa;

essa è dove la Cosa cessa di essere, ovvero è ciò che questa non è” (pp. 51–53). E Garelli, a sua volta, così tra- duce il punto qualificante: “Infatti la cosa non si esaurisce nel suo scopo, ma si attua nel suo svolgimento; e il risultato non è il tutto nella sua realtà effettiva, bensì il tutto è costituito dal risultato insieme con il suo divenire” (G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, a cura di G. Garelli, cit., pp. 4–5).

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la conoscenza semplicemente come uno strumento. Per poter delineare in po- sitivo la “sua” teoria della conoscenza, Hegel mostra perciò l’interna contrad- dittorietà di tutte quelle posizioni che tengono separati la conoscenza dall’as- soluto stesso, come se da una parte esistesse l’assoluto e dall’altra la scala per potervi accedere.(26)

Anche Valentini sottolinea quest’ultimo aspetto:

Hegel si serve del termine, tipico di lui, di “cosa stessa (die Sache selbst)” e di Assoluto per indicare ciò che comunemente si intende per verità, il sicuro ac- certamento di un oggetto. Il presupposto di questa impostazione del proble- ma è che tra il conoscere e l’Assoluto, ossia che tra il conoscere e il suo oggetto, vi sia una linea di divisione, una sorta di intercapedine che rende problema- tico il contatto.(27)

Il passo di Hegel, e i passi di Mendola e di Valentini ad esso collegati, me- ritano un’attenta riflessione. Il primo aspetto sul quale si deve riflettere è quel- lo concernente il senso dell’intero.

Abbiamo già detto che si deve tenere ben presente la differenza che sussi- ste tra l’intero e l’insieme, cioè il composto. Nella misura in cui Hegel definisce

“l’Intiero effettuale” come il risultato et il processo del suo risultare, egli ridu- ce l’intero a sintesi, giacché non lo fa valere come l’autentica unità, ma come un’unificazione, dunque come una relazione, secondo quanto da noi messo in evidenza già nel secondo paragrafo.

Non di meno, egli aggiunge, nel passo citato, una postilla estremamente si- gnificativa: “la diversità è piuttosto il limite della cosa; essa è là dove la cosa ces- sa, o è ciò che questa non è”.Sela diversità è il limite della cosa, allora ciò signi- fica che ogni de–terminazione, proprio in quanto de–limitata, è tale in quanto è posta da un limite, il quale coincide con la differenza dalla cosa stessa.

Che le cose stiano effettivamente così, lo si può comprendere anche svol- gendo questo ragionamento. Il limite ha una caratteristica fondamentale: pre- senta due facce, che sono tra di loro indisgiungibili. Una faccia che guarda verso ciò che viene limitato (che potremmo codificare con la lettera “A”) e una fac- cia che guarda verso ciò che limita (che potremmo codificare con l’espressione

(26) G. Mendola, «La Fenomenologia dello spirito», in L. Illetterati, P. Giuspoli, G. Mendola, Hegel, Carocci Editore, Roma 2010, p. 75.

(27) F. Valentini, Introduzione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2012, p. 18.

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“non–A”). Ebbene, ciò che emerge è che senza la differenza (“non–A”), l’identi- tà (“A”) non si porrebbe e questo status merita di venire attentamente pensato.

Se si esamina il dato (la determinazione) dal punto di vista percettivo–sen- sibile, allora la differenza risulta essere posta estrinsecamente rispetto all’identi- tà, così che identità e differenza vengono a costituire i due termini di una rela- zione. Ma lo stesso Hegel parla di differenza come limite dell’identità, in modo tale che la differenza, anche se viene colta dal punto di vista della rappresenta- zione, non può venire posta estrinsecamente, giacché costituisce, per così dire, l’ultima propaggine dell’identità(28), quel limite che appartiene ad entrambe.

Che cosa comporta questo? Che, anche dal punto di vista percettivo–sen- sibile, identità e differenza non possono venire effettivamente separate. Se i sensi rilevano ogni cosa come diversa da ogni altra, ciò è reso possibile dal- la segmentazione, che è una funzione cognitiva del nostro intelletto e che ren- de discreto il flusso continuo della percezione, facendo sì che le singole iden- tità dei percetti risultino le une come distinte dalle altre. Tale flusso, si deve altresì aggiungere, è pervaso anche da altre funzioni cognitive superiori come, ad esempio, dal processo della “categorizzazione del percetto”, che si fonda sul processo logico della deduzione.

Volendo essere più precisi su questo punto, che è molto significativo per comprendere come la dialettica di identità/differenza sia essenziale anche per la configurazione delle forme più basali dell’esperienza, diremo che la prima funzione cognitiva è proprio la funzione identificante/differenziante, che con- sente di applicare la categoria di identità al percetto, in modo tale che il cam- po percettivo viene sezionato in una molteplicità di percetti, ciascuno identi- co a sé stesso e per questo diverso da ogni altro. Identità e differenza, dunque, sono categorie trascendentali, come direbbe Kant, perché non derivano dall’e- sperienza, ma la rendono possibile.

Successivamente all’applicazione della categoria trascendentale dell’identi- tà, a ciascun percetto viene assegnato un codice, ossia un nome, e questo pro- cesso di categorizzazione comporta l’applicazione di una categoria empirica al percetto stesso: si sussume, cioè, la cosa percepita sotto una categoria, svolgen- do appunto un processo di tipo deduttivo.

Più precisamente, per inscrivere un percetto in una categoria empirica si mette in atto un sillogismo, la cui premessa maggiore recita: “Tutti gli ogget-

(28) Il tema dell’“identità” è fondamentale. Lo si incontrerà a più riprese nel presente Capitolo (in particolare, collegato al tema dell’“immediatezza”, nei paragrafi 1.18, 1.19 e 1.20), ma verrà trattato anche nel paragrafo 2.9 del Capitolo Secondo, nel quale si cercherà di riassumere l’intero discorso su questo tema per introdurre l’altro tema fondamentale e cioè quello della “coessenzialità”.

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ti α presentano le caratteristiche x, y e z”; la premessa minore recita: “l’ogget- to qui davanti a me presenta le caratteristiche x, y e z”; di qui la conclusione:

“ergo, l’oggetto qui davanti a me è un oggetto α”.

Chi studia la percezione da un punto di vista scientifico, oggi parla di ciclo percettivo–inferenziale, proprio per sottolineare che i processi cognitivi di or- dine inferiore, come la sensazione e la percezione, si pongono solo se integra- ti da processi cognitivi di ordine superiore, quali la categorizzazione e il ragio- namento (inferenza).

Questo ci aiuta a comprendere che il livello sensibile, che decreta la distan- za tra identità e differenza, deve venire superato dal livello concettuale, che in- vece le vincola inscindibilmente, come lo stesso Hegel rileva ponendo il limi- te quale medio tra di esse.

Se non che, è proprio sul tipo di vincolo che si deve riflettere. Il vincolo che ap- pare, e che risulta ai sensi, è tale da mantenere la differenza come estrinseca all’i- dentità. Anche se il limite viene descritto come la frangia più estrema dell’identi- tà, là dove l’identità si toglie nella differenza, non di meno, se si esaminano le cose (determinazioni) in quanto collocate a livello sensibile o, che è lo stesso, descritte dalla rappresentazione, allora si dirà che l’unico modo per determinare “A” è con- trapporlo a “non–A”, ma con l’accortezza di disporre l’uno fuori dell’altro.

Il discorso svolto da Hegel indica nel limite il luogo in cui identità e dif- ferenza cessano di contrapporsi; il limite, non di meno, vale ancora come un nesso tra termini, ancorché espresso nella forma più sottile, una forma linea- re, un contorno, e tale da valere contemporaneamente sia per l’identità sia per la differenza.

Tuttavia, ciò che permane è la relazione come estrinseca ai termini, relazio- ne che vale come medio tra di essi. Tale descrizione appartiene al livello della sensibilità, che è poi il livello della rappresentazione, così che la formula che la essenzializza sarà questa: “A è non non–A”, secondo quanto prescrive il prin- cipio di non contraddizione.

Il punto sul quale si deve insistere è, però, il seguente: se “non–A” è essen- ziale al porsi di “A”, come è possibile disporre la differenza come estrinseca?

Concettualmente, la differenza risulta intrinseca e costitutiva dell’identità, giac- ché, senza “non–A”, “A” non si porrebbe affatto.

Ciò significa che “A”, a rigore, non è autonomo e autosufficiente, così che ci si deve chiedere come possa venire codificato come “A”. In effetti, si potreb- be applicare la codifica, rappresentata dalla lettera “A”, ad una realtà se, e solo se, questa realtà fosse in sé e per sé sussistente, ossia solo in quanto fosse vera- mente autonoma e autosufficiente.

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Se, invece, questa realtà non basta a sé stessa, cioè non è sé stessa senza il ri- ferimento alla differenza — e ciò accade ad ogni identità determinata —, allo- ra tale riferimento rende inconclusa l’identità, così che non la si può veramente codificare, dal momento che non la si può veramente identificare.

In questo caso, la formula dovrebbe essere questa: “A è non–A”, formu- la che evidenzia come ciascuna identità sia la negazione di sé stessa, precisa- mente per la ragione che trova nel suo altro la propria essenza, cioè il proprio fondamento.

La stessa relazione, che vede “A” e “non–A” come termini, risulta basarsi, pertanto, sulla ipostatizzazione di qualcosa che, invece, non è ipostatizzabile.

Se, infatti, “A” è “A” per il suo riferirsi ad altro, allora non lo si potrà assume- re come uno status, ma dovrà venire considerato come un atto: “A” è l’atto del riferirsi ad altro e ciò vale per ogni identità determinata.

Quella relazione, che era stata assunta come un costrutto, si rivela così un atto: l’atto del riferirsi, che impone ad ogni determinazione di andare oltre la propria parvente immediatezza, cioè oltre la propria parvente autonomia (au- tosufficienza). Atto che, del resto, può venire inteso anche come il negarsi del- la determinazione, proprio per il fatto che l’identità determinata poggia sul- la differenza.

Poiché, inoltre, tale atto è unico, cioè è il medesimo per ogni determina- zione, si potrebbe dire che nell’unità dell’atto, che coincide con la sua unicità, viene meno la molteplicità delle determinazioni. L’unità dell’atto, peraltro, è espressione del suo valere quale ablatio alteritatis e, dunque, del suo risolver- si nell’unità autentica(29).

Detto con altre parole: se due realtà risultano co–essenziali, allora in effetti si tratta di due sezioni astratte di un’unica realtà, giacché ciascuna sezione tro- va solo nell’altra la propria essenza, così che non può sussistere privata di essa.

Se ne deve concludere pertanto che, se sussiste, è solo per la ragione che è uno con essa(30), nel senso che solo l’unità è veramente.

(29) L’atto, come vedremo, è tale nel suo compiersi nell’unità, che costituisce la sua destinazione.

(30) Il tema della “coessenzialità” trova ampia eco anche in Severino, il quale la interpreta in senso relazionale, cioè fa di due coessenziali i termini di una relazione, affermando che essi sono astratti se se- parati, ma sono concreti se relati (che Severino definisce “distinti”). Abbiamo svolto le nostre obiezioni a tale interpretazione della coessenzialità in vari lavori. In particolare, oltre ai lavori citati nella nota 23, rimandiamo ad A. Stella e G. Ianulardo, «Reciprocal determination and the unity of distinct deter- minations in The Primal Structure of Emanuele Severino», Eternity & Contradiction. Journal of Funda- mental Ontology, II, 3, 2020, pp. 52–70.

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1.4. Processo e risultato

Siamo così giunti al punto concernente il rapporto tra il processo e il suo ri- sultato. Ebbene, quanto abbiamo detto ha come conseguenza che, se il pro- cesso non può stare senza il risultato e viceversa, allora non si tratta di due real- tà distinte (processo et risultato), ma di un’unica realtà, che solo astrattamente viene suddivisa in due sezioni, del tutto astratte.

Se, inoltre, le sezioni (parti) sono astratte, allora la loro sintesi non potrà di certo produrre il concreto, ossia l’intero: come intero non può non valere sol- tanto l’unità, nella quale la dualità degli astratti è venuta meno e che, più ra- dicalmente, costituisce il fondamento sul quale pretende di esercitarsi l’attivi- tà astraente (analitica).

Di contro, Hegel fa della sintesi (unificazione) degli astratti l’intero, così che ciò che egli definisce “intero” a noi sembra un “composto”, cioè l’esito della ri- unificazione degli elementi ottenuti da un’analisi preliminare, ancorché obliata.

Un’analisi, come abbiamo detto, che presume di potersi esercitare sull’in- tero, ma che, a rigore, può esercitarsi solo sul composto. Non può esercitarsi sull’intero, perché l’intero verrebbe totalmente alterato dall’analisi, perdendo il tratto che essenzialmente lo connota: la sua interezza, appunto. Può bensì esercitarsi solo sul composto, proprio perché non lo altera.

Tuttavia, essa si viene a trovare in quello status che abbiamo indicato in precedenza (paragrafo 1.2): essa presuppone quel composto che, a sua volta, presuppone l’analisi, in un circolo che non può non risultare vizioso.

Se non si coglie che l’intero è un’unità compatta, e non articolata al suo interno, si perde di vista che l’intero è l’assoluto stesso. Quest’ultimo, del resto, è tale perché nega sia ogni relazione estrinseca sia ogni relazione intrinseca, pro- prio per la ragione che è “sciolto” da vincoli, da legami.

Non si comprende, pertanto, come si possa parlare di “conoscenza dell’as- soluto”, dal momento che con questa formula si riduce l’assoluto ad oggetto del conoscere e, di conseguenza, si pretende di determinarlo, ossia di assimilarlo ad una qualunque identità determinata, la quale, ormai lo sappiamo, è sé solo in quanto prevede come propria essenza l’altro da sé, ossia solo in quanto nega sé stessa e si contraddice.

Il tema della conoscenza dell’assoluto dischiude il tema del conoscere in quanto tale e, pertanto, ripropone il tema della “verità”. Come giustamente afferma Valentini, la verità non può venire intesa come il “sicuro accertamen- to di un oggetto”, cioè in senso corrispondentista: come adaequatio rei et intel- lectus.

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Se la verità fosse una “conoscenza vera” e se quest’ultima si risolvesse nell’accordo tra l’esperienza e la rappresentazione che l’uomo si forma di essa nella sua testa, allora si dovrebbe individuare un livello, che non può esse- re quello della res né quello dell’intellectus, nel quale si disponga l’adaequatio, cioè la loro corrispondenza.

Se non che, non soltanto questo terzo livello, distinto da quello in cui si di- spone la res e da quello in cui si dispone l’intellectus, non può venire configu- rato, per lo meno se ci si ferma alla prospettiva delineata dal conoscere ordi- nario, ma altresì è da rilevare che la corrispondenza mantiene la dualità tra res et intellectus, in modo tale che non potrà mai valere quale loro autentica uni- tà, nella quale la dualità venga meno effettivamente.

Conoscere qualcosa, dunque, non può non significare superare la diffe- renza tra conoscere e conosciuto: fino a che tale differenza permane, e perma- ne quindi la relazione intesa come costrutto, la conoscenza non sarà mai effet- tiva. Lo ammette lo stesso Hegel, che scrive: “invece di indugiare in essa [la cosa da conoscere] e di obliarsi in essa, un tale sapere si attacca sempre a qual- cosa di diverso, e resta presso di sé, anziché essere presso di essa e abbando- narsi ad essa”(31).

Se il conoscere si abbandonasse totalmente alla cosa, allora sarebbe uno con essa, sì che la conoscenza cesserebbe di valere come una relazione e divente- rebbe la trasparenza a sé della cosa. Con questa precisazione, di straordinario valore: allorché la cosa si risolvesse nel proprio sapersi, ossia diventasse effetti- vamente trasparente a sé stessa, in quel preciso istante essa cesserebbe di esse- re una mera determinazione, cioè emergerebbe oltre lo status che la include nell’universo empirico–formale.

Il punto di arrivo del discorso svolto è il seguente: se la conoscenza come re- lazione è inintelligibile, altrettanto è inintelligibile la relazione tra determina- zioni, giacché la relazione domanda di venire colta come intrinseca alla determi- nazione e vale come l’atto del suo trascendersi.

In tal modo, l’intero è l’assoluto, ossia l’unità del sapere e dell’essere, un’u- nità che non può venire determinata, senza riproporre la dualità e la relazio- ne, assolutizzando così l’universo empirico–formale, che invece è intrinseca- mente relativo.

Se non che, Hegel intende determinare l’intero e per questa ragione lo in-

(31) G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito; trad. it. di E. De Negri, cit., pp. 3–4; nella traduzio- ne di Cicero: “Invece di occuparsi della Cosa, infatti, esso la scavalca continuamente; invece di concen- trarsi e di obliarsi in essa, un tale sapere si aggrappa sempre a qualcos’altro e rimane presso di sé piutto- sto che essere nella Cosa e abbandonarsi a essa” (p. 53).

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terpreta come sintesi (relazione): solo sulla determinatezza dei termini che co- stituiscono la sintesi, infatti, è possibile far poggiare la determinatezza della sintesi stessa. Togliere i termini, come accade nell’autentica unità, non può non significare il venir meno della determinatezza dell’unità.

1.5. La verità come assoluto

Hegel — riprendiamo il discorso sintetizzando quanto è stato detto — inten- de la verità non come unità, ma come unificazione, cioè come sintesi. Per sot- tolineare questo aspetto, che è cruciale, egli così scrive:

La vera figura nella quale la verità esiste, può essere soltanto il sistema scienti- fico di essa (Die wahre Gestalt, in welcher die Wahrheit existiert, kann allein das wissenschafdiche System derselben sein). Collaborare a che la filosofia si avvicini alla forma della scienza, — alla meta raggiunta la quale sia in grado di depor- re il nome di amore del sapere per essere vero sapere (dem Ziele, ihren Namen der Liebe zum Wissen ablegen zu können und wirkliches Wissen zu sein), — ecco ciò ch’io mi son proposto.(32)

Hyppolite offre un’interpretazione molto radicale del passo citato, nel sen- so che esplicita quello che in esso non è totalmente esplicitato:

La filosofia non è né una logica–organon che tratti dello strumento del sape- re prima del sapere, né un amore della verità che non sia il possesso della veri- tà. La filosofia è scienza, e proprio scienza dell’Assoluto come vuole Schelling.

Anziché fermarsi alla riflessione, al sapere il sapere, bisogna penetrare diretta- mente e immediatamente nell’oggetto da conoscere, lo si chiami Natura, Uni- verso, o Ragione assoluta.(33)

Cerchiamo di interpretare Hyppolite, per poi risalire a Hegel. Hyppolite dice che la filosofia non può venire ridotta ad uno studio dello strumento con cui si conosce: la critica è rivolta a Kant, il quale intende cogliere la ragione nei suoi limiti per poter poi stabilire ciò che con la ragione può venire colto.

(32) Ivi, p. 4; nella traduzione di Garelli: “La vera figura in cui la verità ha esistenza non può che es- serne il sistema scientifico. Contribuire a far sì che la filosofia si avvicini alla forma della scienza — per raggiungere quella meta in cui essa può dismettere il suo nome di amore del sapere, per essere sapere ef- fettivo — è quanto mi sono proposto” (trad. cit., p. 5).

(33) J. Hyppolite, Genesi e struttura della «Fenomenologia dello spirito» di Hegel, cit., p. 9.

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Non si può non comprendere — sempre secondo Hyppolite — che è in- sensato pretendere di cogliere i limiti del conoscere, giacché li si può cogliere solo conoscendo. Quindi, non si dà una fase propedeutica alla filosofia: la fi- losofia ingloba in sé anche la propria presunta “introduzione” e ha come suo obiettivo fondamentale — questo lo stesso Hegel lo sostiene a più riprese — quello di possedere la verità. In questo senso, la filosofia è il sapere che diven- ta vero sapere quando l’oggetto saputo è la stessa verità.

Da questo punto di vista, Hyppolite segue l’affermazione di Hegel, nella quale si dice che la filosofia deve cessare di essere amore del sapere, per diven- tare effettivo sapere. E la filosofia diventa effettivo sapere quando sa la verità, ossia quando penetra “direttamente e immediatamente nell’oggetto” rappre- sentato dalla verità stessa.

Abbiamo già iniziato a discutere il progetto di determinare la verità, cioè l’assoluto. Rileviamo che, nel passo che stiamo esaminando, viene aggiunta una precisazione che rende palese la problematicità del progetto: quando pos- siede la verità, la filosofia è “scienza dell’Assoluto”.

La domanda che ci si pone è la seguente: cosa intendono Hegel e Hyppo- lite con l’espressione “assoluto”? Chiereghin ci aiuta a rispondere alla doman- da, svolgendo un ragionamento che giudichiamo molto importante. Egli scrive:

La dimostrazione che questa pretesa [il discorso sul metodo del conoscere]

è solo una “vuota apparenza del sapere” [espressione hegeliana che compa- re nell’Introduzione alla Fenomenologia, p. 68 dell’edizione citata di De Ne- gri] viene condotta da Hegel mediante l’analisi delle conseguenze implicite nel considerare il conoscere uno “strumento”, mediante il quale sarebbe pos- sibile impadronirsi dell’oggetto o dell’assoluto stesso. La comparsa del termi- ne “assoluto” in tale contesto non deve essere caricata di nessuna enfasi teo- logistica. Essa indica, alla lettera, il carattere proprio di qualcosa che sussiste indipendentemente dal rapporto ad altro e che è quindi sciolto–da (ab–solutus) qualunque vincolo che lo renderebbe immediatamente “relativo–a” e quindi non più assoluto. Così Hegel può parlare indifferentemente di “assoluto” o di

“cosa” [espressione hegeliana che compare ancora nella Introduzione alla Fe- nomenologia, p. 68] dal momento che anche una “cosa”, qualora si concepi- sca una netta linea di divisione che la separi dal conoscere, non merita meno, rispetto a quest’ultimo, la qualifica di “assoluta”, in quanto è concepita come esistente indipendentemente da esso e quindi in relazione solo a se stessa. Ora una concezione strumentale del conoscere si trova immediatamente di fron- te a un’alternativa, la quale, comunque risolta, si rivela disastrosa per il cono-

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scere stesso. Se il conoscere come strumento si comporta attivamente verso la cosa, allora vien fatto di pensare che, “anziché lasciarla com’essa è, vi imprima una forma e inizi un’alterazione” [espressione hegeliana dell’Introduzione, p.

65]. Se invece si comporta passivamente, come un mezzo attraverso cui giun- ge fino a noi il raggio di luce della verità, anche in questo modo non ricevia- mo “quest’ultima com’essa è in sé, anzi com’essa è in e mediante tale mezzo”

[espressione hegeliana dell’Introduzione, p. 66].(34)

L’assoluto, dunque, non può non venire inteso come ciò che è indipenden- te da ogni rapporto ad altro, ossia come ciò che è sciolto da ogni vincolo. Ri- leviamo che qui Chiereghin, che pure offre questa chiara definizione di “as- soluto”, perfettamente in linea con l’etimo della parola stessa, non di meno intende riferirsi ad un’unica relazione, alla quale l’assoluto deve sottrarsi: quel- la con il conoscere.

A noi sembra, invece, che, proprio in base a quanto lo stesso Chiereghin afferma, l’assoluto, o la cosa intesa come assoluta (si tratta del medesimo as- soluto, che non può non essere uno), debba sottrarsi ad ogni possibile relazio- ne, dunque anche ad ogni relazione che possa vincolarlo ad una qualche de- terminazione.

Diciamo questo per la ragione che un’identità de–terminata è un’identi- tà posta da un limite (si veda il paragrafo 1.3), quel limite che vincola l’identi- tà determinata (“A”) alla sua differenza (“non–A”). Poiché l’assoluto è sciolto da ogni vincolo, esso configura bensì un’identità, ma non può venire pensato come un’identità determinata. Altrimenti detto: o l’identità dell’assoluto viene considerata non un’identità determinata oppure non è all’assoluto che ci si in- tende riferire.

Si continua a usare l’espressione “identità”, per indicare che l’assoluto è sé stesso, ossia è l’assoluto, ma ciò non perché si distingua da “qualcosa”, non per- ché si distingua da ciò che è determinato, cioè da ciò che è relativo: in questo caso, infatti, si indicherebbe non l’assoluto, ma l’indeterminato, laddove l’as- soluto non si distingue da altro perché è autonomo e autosufficiente.

Non di meno, va aggiunto che l’indeterminato risulta determinato an- ch’esso, determinato come indeterminato, stante il fatto che si pone in con- trapposizione al determinato, dunque come termine della relazione che ingloba tanto il determinato quanto l’indeterminato, sì che si finisce per determinare anche ciò che viene definito “indeterminato”.

(34) F. Chiereghin, La “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994, p. 32.

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Di contro, se l’assoluto viene colto nel suo vero essere, allora esso non può vincolarsi ad alcuna determinazione, dunque non può contrapporsi: se si con- trapponesse, cesserebbe eo ipso di valere come assoluto.

Il punto è di estrema rilevanza speculativa: l’assoluto non può non porsi oltre la contrapposizione di determinato/indeterminato e ciò per la ragione che, se è veramente assoluto, è inoggettivabile, dunque è indeterminabile, dunque è insemantizzabile. Ogni sua determinazione, infatti, comporterebbe la nega- zione della sua assolutezza, perché finirebbe per riferirlo ad altro da sé, con- traddittoriamente(35).

Per inciso, facciamo notare che all’obiezione che potrebbe venire rivolta a quanto abbiamo affermato, e cioè che l’assoluto viene dichiarato insemantiz- zabile (inoggettivabile), ma viene poi usata la parola “assoluto” per dichiarar- lo tale, rispondiamo dicendo che, in tal modo, si configura bensì una contrad- dizione, ma una contraddizione solo formale.

Di contro, nell’affermare che l’assoluto può venire determinato, cioè che è semantizzabile (oggettivabile), si configura una contraddizione strutturale, perché si nega quell’assolutezza della verità, che invece non può non venire ri- conosciuta come la sua stessa essenza.

Non si evita, dunque, la contraddizione, ma ciò accade per il limite intrin- seco del linguaggio, che pretende di dire anche ciò che richiede come proprio fondamento perché emergente oltre di esso.

Tornando, quindi, alla pretesa di dire l’assoluto, notiamo che ci si trova di fronte ad un’alternativa.

Aut si in–tende effettivamente l’assoluto, ma allora si deve essere consape- voli che esso è insemantizzabile, così che la stessa parola “assoluto” contrad- dice il significato che ad essa si vorrebbe attribuire. Non si può non rilevare, a questo proposito, che l’intenzione di indicare l’assoluto muove dal presup- posto di porsi fuori da esso e di riferirsi estrinsecamente ad esso. Orbene, tale presupposto, a rigore, viene negato dallo stesso assoluto, se è veramente asso- luto, così che, se si intende veramente l’assoluto, allora si deve riconoscere che solo l’assoluto è veramente, così che l’intenzione di esso non potrà non perder- si in esso.

Aut si pre–tende di determinarlo, ma allora non si può non riconoscere che, in questo modo, lo si nega nella forma più radicale. Se viene determina-

(35) Valentini scrive: “L’assoluto è dunque già pienamente presso di noi” (F. Valentini, Introdu- zione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., p. 33). Cosa si intende con questa espressione? Che l’assoluto è fungente e operante nell’universo dei determinati, senza essere fattualmente presente in esso, oppure che entra in rapporto con la coscienza del soggetto?

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to, infatti, l’assoluto viene posto dall’altro da esso, così che non può non ne- garsi come assoluto.

Del resto, va altresì rilevato che il “pre–tendere” è la negazione stessa dell’“in–tendere”, dal momento che nel primo si opina di essere già arrivati (negando così la tensione) a ciò che nel secondo vale, invece, come meta ver- so cui ci si orienta (si tende).

Chiereghin, per indicare il modo mediante il quale l’alternativa sopra indi- cata può venire sciolta, fa riferimento ad un nuovo passo di Hegel, che com- pare nell’Introduzione alla Fenomenologia, allorché egli parla della “paura di cadere in errore”(36). Dopo avere affermato che non si comprende perché

“in questa diffidenza non si debba insinuare una diffidenza e non s’abbia a temere che una tale paura di errare non sia già essa stessa l’errore”(37), Hegel spiega la ragione dell’insensatezza di tale paura:

In effetto quella paura presuppone come verità qualcosa, anzi molto, e ne fa base delle sue apprensioni e delle loro conseguenze; del che, a sua volta, si deve ricercare se sia verità. Una tale paura presuppone, cioè, rappresentazioni del conoscere, inteso come strumento e mezzo; presuppone anche una differen- za di noi stessi da questo conoscere; ma, sopra tutto, presuppone che l’Assoluto se ne stia da una parte e il conoscere dall’altra, per sé e separato dall’Assoluto, pur essendo qualcosa di reale; ovverosia presuppone che il conoscere, il qua- le fuori dell’Assoluto è indubbiamente anche fuori della verità, sia poi tutta- via veridico.(38)

1.6. Conoscere e assoluto

La questione è chiara: se tra conoscere e verità, cioè tra conoscere e assoluto, si pone una distanza, come potrà il conoscere essere vero?

Hegel risponde — lo vedremo — dicendo che il conoscere è la verità stes- sa dell’assoluto, nel senso che l’automovimento del concetto, il quale passa dall’in sé al per sé per tornare all’in sé e per sé, costituisce l’essenza dell’assoluto stesso. In tal modo, egli ritiene di poter determinare l’assoluto, senza negarlo. Esprime-

(36) G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito; trad. it. di E. De Negri, cit., p. 66.

(37) Ivi, p. 67; così traduce Garelli: “non si vede perché non si debba ammettere anche, all’inver- so, una sfiducia in questa sfiducia, e non ci si debba preoccupare che questa paura di errare non sia già l’errore stesso” (p. 58).

(38) Ibidem; così traduce Garelli il punto cruciale: “ossia, perciò, che il conoscere — il quale, in quanto esterno all’assoluto, è anche esterno alla verità — sia comunque veritiero” (pp. 58–59).

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remo la nostra critica a tale posizione quando la prenderemo in esame con la dovuta attenzione e la descriveremo nei suoi aspetti più significativi.

Per ora, ci rifacciamo alla posizione di Chiereghin, il quale offre questa so- luzione al problema indicato:

il conoscere si produce originariamente e principalmente nel punto in cui esso

“tocca” la cosa o nel punto in cui la cosa “tocca” il mezzo per attraversarlo. In quel punto il conoscere cessa di essere uno strumento, così come la cosa cessa di essere separata da esso, ma, pur diversi per essenza, s’identificano nell’unità di un unico e medesimo atto.(39)

Il passo è fondamentale e merita la massima considerazione. Chiereghin afferma che la relazione, che ordinariamente viene pensata come sussistente tra il conoscere e la verità (assoluto), decreta non soltanto il loro vincolo, ma soprattutto la loro distanza.

Si conoscerà veramente, pertanto, solo quando la distanza dalla verità verrà meno, dunque quando si toglierà la relazione stessa. Non a caso, egli parla di un

“punto” nel quale il conoscere e la cosa si toccano, ossia diventano un medesimo.

Ebbene, questo punto, in cui si realizza l’unità tra il conoscere e la cosa — si badi: l’unità, non l’unificazione, che mantiene ancora la dualità (e vale come relazione) — è l’atto in cui conoscere e cosa s’identificano, ancorché diversi.

Concordiamo in pieno con la visione di Chiereghin. Ci permettiamo di aggiungere che l’atto, che realizza l’unità tra diversi e che viene indicato come

“unico e medesimo”, non può non essere l’atto del loro togliersi in quanto di- versi, affinché si configuri effettivamente il loro trascendersi nell’unità.

L’unità, insomma, ci pare tale se, e solo se, la diversità viene meno, così che, venendo meno la differenza, vengono meno anche le identità determina- te rappresentate dal “conoscere” e dalla “verità”.

Che è come dire: nella misura in cui la verità viene assunta come termine in relazione al conoscere, in quella relazione che appunto li vincola decretan- do però anche la loro differenza, essa non può che essere una verità determi- nata, dunque una verità condizionata dall’altro da sé, dunque condizionata dalla non–verità.

Allo stesso modo, nella misura in cui l’assoluto viene assunto come termi- ne in relazione, esso viene negato nella sua assolutezza, così che, se di verità e di assoluto si vuole veramente parlare, allora si dovrà intendere precisamente quell’unità in cui la differenza viene meno e la dualità scompare.

(39) F. Chiereghin, La “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., p. 33.

(23)

Il fatto è che una tale unità non può in alcun modo essere determinata, perché sono venuti meno i termini. Questi ultimi sono i “portatori di deter- minatezza”: soltanto se essi vengono conservati, come nell’unificazione, allo- ra la determinatezza permane, ma la conseguenza è che l’unità non è effettiva poiché la differenza non si è effettivamente tolta.

Se la differenza viene meno, e viene meno veramente, allora non si realizza l’unificazione, che è ancora una relazione, ma l’unità autentica, la quale però cessa di mantenere il tratto della determinatezza. Il problema sorge perché Hegel — e anche Chiereghin — pretende di conciliare assolutezza e determina- tezza, cioè pretende di conciliare gli inconciliabili.

Tanto Hegel quanto Chiereghin, insomma, non accettano il togliersi del conoscere nell’assoluto, cioè nell’autentica verità, e non riconoscono che que- sta è l’unica possibilità che viene offerta al conoscere per essere vero: essere uno con l’assoluto, ossia perdersi in esso.

Di contro, essi recuperano la dualità, nonostante lo stesso Chiereghin ab- bia parlato dell’atto in cui la dualità viene meno: “nell’unità di un unico e me- desimo atto”.

In particolare, Chiereghin svolge un argomento che prende avvio da un’af- fermazione di Hegel, e scrive: “Per questo Hegel può affermare che nessuna astuzia sarebbe in grado di farci avvicinare l’assoluto senza introdurvi alcun mutamento, se l’assoluto stesso ‘in sé e per sé non fosse e non volesse essere già presso di noi’”(40).

A noi sembra che nel passo di Hegel, fatto proprio da Chiereghin (se l’as- soluto “in sé e per sé non fosse e non volesse essere già presso di noi”(41)), ven- ga espressa la negazione più radicale dell’assoluto, per lo meno se inteso come irrelato e non inscrivibile in alcun rapporto, secondo la definizione datane dal- lo stesso Chiereghin. Il quale così procede:

“Essere presso di noi” significa: nulla potrebbe modificare o essere modificato da qualcosa, e quindi avere una relazione positiva con altro da sé, se non pos- sedesse già in sé la capacità di attuare tale relazione; riferita al conoscere, tale capacità suppone preformata in noi la possibilità di “toccare” la cosa e altret- tanto nella cosa la capacità di essere accolta dal conoscere. L’identità di en- trambe queste possibilità è già interamente il modo in cui l’assoluto è attivo e presente in noi. Come si può vedere, già a questo livello iniziale della distru-

(40) Ivi, p. 34; il passo di Hegel, che abbiamo scritto tra apici, compare nell’Introduzione alla Fe- nomenologia, a p. 66 dell’edizione di De Negri.

(41) G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito; trad. it. di E. De Negri, cit., p. 66.

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