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1. Cesare e la Britannia

Il primo generale romano ad invadere la Britannia fu Caio Giulio Cesare, il quale, nel corso delle sue campagne di conquista della Gallia, si avventurò, con diversi intenti politici e militari, al di là del Canale della Manica, dove trovò ad accoglierlo una fiera resistenza costituita in gran parte da tattiche irregolari. Le spedizioni di Cesare possono fungere quasi da paradigma per l'analisi della resistenza delle tribù britanniche alle armi romane, perchè presentano caratteristiche precise che, come vedremo, si ripeteranno anche durante epoche posteriori. I Britanni infatti, contando sul loro numero e sul loro valore guerriero, non disdegnavano la battaglia campale e, pur cercando di sfruttare al massimo la configurazione del terreno a loro favore, accettarono, di solito durante le prime fasi delle campagne militari, di confrontarsi con i Romani in campo aperto. Tale approccio, tuttavia, sia durante le campagne di Cesare sia, soprattutto, durante l'invasione di Claudio, mise in luce la superiorità schiacciante delle armi romane in un confronto di questo tipo e spinse i Britanni ad affidarsi a tattiche non ortodosse per cercare di contrastare l'avanzata delle legioni.

Furono proprio tali tattiche a permettere ai Britanni di conservare la loro libertà durante le invasioni cesariane, e fu grazie al loro impiego che, in alcune zone, la resistenza tenne impegnati i Romani per decenni prima che questi ottenessero la sottomissione delle tribù dell'isola.

Le motivazioni che spinsero Cesare ad invadere la Britannia sono diverse277: la fama e la

gloria personale che avrebbe ricavato dall'essere il primo generale romano a mettere piede su

un territorio considerato ai limiti del mondo allora conosciuto278; la volontà di conoscere e di

277Jullian, C., Histoire de la Gaule, Paris 1909, pp. 321 – 322.

278Cassio Dione, Storia Romana, XXXIX, 53; Borca, F. (2000), pp. 44 - 45; Polverini, L. (1996), pp. 325 –339;

Canfora, L. (2005), p. 122; Le Bohec, Y. (2001), p. 221 – 222 e 225; Meier, C. (2004), p. 288; Loreto, L. (1993), p. 246; Zecchini, G. (1987), pp. 253 – 259; Braund, D. (1996), pp. 41 – 48.

esplorare una nuova terra279; la possibilità di ottenere grandi ricchezze280, la necessità di

impedire ai Britanni di offrire aiuti ai Galli contro i Romani281. Benché in parte oscurato dai

primi due, l'ultimo punto, menzionato esplicitamente da Cesare nel De bello gallico in testa alle motivazioni che lo avevano spinto a prendere una simile decisione, acquista nuovo valore se osservato nell'ottica della controguerriglia. Senza nulla togliere all'importanza politica dello

sbarco in Britannia, che fruttò a Cesare una supplicatio di venti giorni da parte del Senato282,

appare evidente che Cesare intendeva privare i Galli della possibilità di ricevere l'appoggio di una potenza straniera, elemento che, come abbiamo visto in precedenza, si rivela fondamentale per la sopravvivenza stessa della lotta irregolare283. Tale ipotesi sembra

confermata dal fatto che Cesare non limitò alla sola Britannia le spedizioni finalizzate a tagliare le possibilità per i Galli di ricevere aiuti dall'estero, ma si comportò in maniera analoga anche in occasione delle sue spedizioni transrenane, la seconda delle quali fu

intrapresa proprio perchè i Germani auxilia contra se Treveris miserant284.

La prima spedizione in Britannia ebbe luogo nel 55 a.C. Più che un'invasione si trattò di una esplorazione in grande stile: Cesare scelse due legioni, la VII e la X, imbarcate su 80 navi, e

alcuni squadroni di cavalleria, al cui trasporto destinò 18 vascelli285; una forza esigua per

tentare la conquista dell'isola, ma sufficiente per esplorarla e ottenere l'importante risultato di impressionare l'opinione pubblica romana. Dopo aver cercato di ottenere informazioni dai

mercanti che frequentavano quei luoghi286 e aver inviato Gaio Voluseno a esplorare la costa287,

l'esercito salpò da Portus Itius288 a mezzanotte del 27 agosto289 e arrivò in vista delle bianche

scogliere di Dover alle 10 del mattino successivo. La spedizione, tuttavia, non era iniziata sotto i migliori auspici: le 18 navi che dovevano trasportare la cavalleria furono disperse da una violenta tempesta e Cesare restò praticamente senza truppe montate per tutta la durata

della spedizione290; in secondo luogo, i Britanni erano stati avvertiti dei piani di Cesare e

279Cesare, La guerra gallica, IV, 20, 2; Le Bohec, Y. (2001), p. 221.

280Svetonio, Vita di Cesare, XLVII, 1; Le Bohec, Y. (2001), p. 221; Canfora, L. (2005), p. 121; Webster, G.

(1980), p. 35.

281Cesare, La guerra gallica, IV, 20, 1; III, 9, 9; Todd, M. (1981), p. 15; Peddie, J. (1987), pp. 4 – 6. Sui legami

tra Galli e Britanni si veda: Cunliffe, B. (2004), pp. 2 – 11.

282Cesare, La guerra gallica, IV, 38, 5; Frere, S. (1967), p. 32; Todd, M. (1981), p. 20. 283Cfr.: Le Bohec, Y. (2001), p. 141.

284Cesare, La guerra gallica, VI, 9, 1; Salway, P. (1981), p. 38. 285Cesare, La guerra gallica, IV, 22.

286Cesare, La guerra gallica, IV, 20; Rice Holmes, Th. (1907), p. 308.

287Cesare, La guerra gallica, IV, 21; Goudineau, C.(1990), p. 406. La missione di Voluseno durò in tutto cinque

giorni, durante i quali egli non scese mai dalla nave e poté fornire solo informazioni superficiali, cfr. Sheldon, R. M. (2008), pp. 174 – 175; Frere, S. (1967), pp. 30 – 31; Todd, M. (1981), pp. 17 – 18.

288Boulogne, cfr.: Le Bohec, Y. (2001), p. 222; Rice Holmes, Th. (1907), p. 306. 289Le Bohec, Y. (2001), p. 224; il 26 secondo Frere, S. (1967), p. 30.

presidiavano con un esercito numeroso e agguerrito le scogliere, da cui, godendo del vantaggio della posizione elevata, potevano ostacolare con facilità qualsiasi tentativo di

sbarco291. Cesare restò all'ancora fino alle tre del pomeriggio quando, informato da Voluseno

sulle caratteristiche morfologiche della costa, decise di far sbarcare le truppe presso un luogo

più aperto e pianeggiante292, probabilmente tra Walmer e Deal293, distante sette miglia dal

punto in cui era ancorato294. Ordinò ai suoi legati di far muovere la flotta celermente, nel

tentativo di anticipare i Britanni. Questi, però, non si fecero sorprendere; e Cesare trovò ad aspettarlo un forte esercito, tra i cui ranghi spiccavano una numerosa cavalleria e i famosi carri da guerra tipici dei Britanni295.

Lo sbarco si rivelò subito assai difficile. Le navi romane, per evitare di arenarsi, si erano dovute fermare ad una certa distanza dalla spiaggia; e i legionari erano stati costretti a saltare giù dai vascelli, avanzando poi in equilibrio precario a causa dell'acqua alta e del peso delle armi e senza la possibilità di mantenere i ranghi compatti. I Britanni invece, grazie al loro addestramento, che rendeva sia loro che i loro cavalli esperti in combattimenti di questo genere, e grazie alla loro peritia loci, che consentiva un uso ottimale della conformazione del

terreno296, erano liberi di bersagliare i Romani con i loro dardi: “aut ex arido aut paulum in

aquam progressi omnibus membris expeditis, notissimis locis audacter tela conicerent et equos insuefactos incitarent”297.

Cesare cercò di risolvere il problema ordinando alle imbarcazioni più piccole di staccarsi dal resto della flotta e, utilizzando le macchine da lancio di cui erano dotate, di coprire l'avanzata della fanteria. La manovra ebbe pieno successo e i Britanni furono costretti a ripiegare; l'esempio dell'alfiere della X legione, che si slanciò contro i nemici, galvanizzò il resto dei legionari, che lo seguirono all'assalto delle posizioni nemiche. A quel punto iniziò il combattimento corpo a corpo, che fu molto duro perchè i Britanni, come Cesare non manca di sottolineare, “notis omnibus vadis” cercarono di trarne tutti i vantaggi possibili; e, mentre una parte delle loro forze continuava con il tiro di sbarramento contro la massa dei legionari, le loro truppe più veloci “ubi ex litore aliquos singulares ex navi egredientes conspexerant,

incitatis equis impeditos adoriebantur, plures paucos circumsistebant”298.

291Cesare, La guerra gallica,, IV, 23, 5.

292Cesare, La guerra gallica,, IV, 23, 6; Cassio Dione, Storia romana, XXXIX, 51.

293Rice Holmes, Th. (1907), p. 316; Frere, S. (1967), p. 31; Todd, M. (1981), p. 18; Salway, P. (1981), p. 28. 294Cesare, La guerra gallica, IV, 23, 6.

295Cesare, La guerra gallica, IV, 24. 296Braund, D. (1996), p. 61.

297Cesare, La guerra gallica, IV, 24, 3. 298 Cesare, La guerra gallica, IV, 26, 2 – 3.

I Britanni dunque, pur accettando lo scontro frontale con i temibili legionari, applicarono tattiche poco ortodosse, sfruttando il terreno contro i nemici, impedendo ai Romani di creare un fronte compatto e attaccando in forze i soldati isolati o divisi in piccoli gruppi. Cesare riuscì, servendosi ancora delle navi piccole, a far giungere i rinforzi nei punti in cui i suoi uomini erano in difficoltà. L'arrivo di queste truppe permise finalmente ai legionari di avanzare compatti e di raggiungere la spiaggia, dove “suis omnibus consecutis in hostes

impetum fecerunt atque eos in fugam dederunt”299. Solo l'assenza della cavalleria privò Cesare

di una vittoria totale300.

I Britanni, sconfitti in battaglia, chiesero la pace, implorando il perdono di Cesare301; ma,

quando seppero che le navi che trasportavano la cavalleria romana erano state distrutte da una tempesta, che la stessa flotta romana era stata gravemente danneggiata, che i Romani erano

pochi, senza navi e con poche vettovaglie, decisero di riprendere le armi302, affidandosi, dato

l'esito negativo dello scontro frontale, ad una strategia che, così come appare nelle pagine di Cesare, è chiaramente una cunctatio. Essi infatti volevano “frumento commeatuque nostros

prohibere et rem in hiemem producere”303 in modo da spossare i Romani sul lungo periodo,

evitando le battaglie campali e tagliando loro i rifornimenti fino al sopraggiungere dell'inverno, quando la penuria di viveri dovuta alla cattiva stagione avrebbe dato il colpo di grazie alle già provate truppe romane.

Cesare, prevedendo l'ostilità dei Britanni, cercò di correre ai ripari raccogliendo vettovaglie e

ricostruendo la flotta304; ma, così facendo, assecondava in buona parte il piano di guerra dei

Britanni. Questi, infatti, contavano sul fatto che l'esercito romano, per procurarsi i viveri, si sarebbe dovuto dividere e avventurare in zone sconosciute, dove sarebbe stato facile per loro organizzare imboscate. Infatti proprio contro una legione, la VII, la quale era stata inviata a

raccogliere il grano, i Britanni organizzarono un agguato in grande stile305. “Nam quod omni

ex reliquis partibus demesso frumento pars una erat reliqua, suspicati hostes huc nostros esse venturos noctu in silvis delituerant: tum dispersos depositis armis in metendo occupatos subito adorti paucis interfectis reliquos incertis ordinibus perturbaverant, simul equitatu atque essedis circumdederant”306.La descrizione che Cesare fa dell'evento è molto dettagliata.

299Cesare, La guerra gallica, IV, 26, 5.

300Cesare, La guerra gallica, IV, 26, 5: Hoc unum ad pristinam fortunam Caesari defuit. 301Cesare, La guerra gallica, IV, 27.

302Cesare, La guerra gallica, IV, 30; Cassio Dione, Storia romana, XXXIX, 52. 303Cesare, La guerra gallica, IV, 30, 2.

304Cesare, La guerra gallica, IV, 31.

305Probabilmente tra Martin Hill e Ringwould, si veda: Berresford Ellis, P. (1968), pp. 104 – 105. Si veda: Rice

Holmes, Th. (1907), p. 321 – 322;

I Britanni utilizzano un trucco tipico della guerriglia: l'esca307, con cui attirarono i Romani in

un luogo scelto appositamente, nel quale si erano precedentemente nascosti attendendo di assalire gli ignari nemici al momento opportuno. Il verbo delitesco, che abbiamo già incontrato, rende bene l'idea delle truppe occultate all'interno delle selve, che aspettano in silenzio che i Romani si rilassino, in modo da colpire nel modo più devastante possibile. L'effetto sorpresa è enfatizzato dal verbo adorior, che tratteggia bene l'impatto visivo e psicologico avuto dall'assalto dei Britanni, emersi praticamente dal nulla, sui legionari, ignari fino all'ultimo della loro presenza308. Solo con fatica e dopo aver subito la perdita dei

foraggiatori isolati, questi riuscirono a stringersi in formazione e a tentare una resistenza organizzata. Ancora una volta i Britanni si affidarono a truppe veloci e leggere, soprattutto carri da guerra e cavalleria, con cui applicarono tattiche elusive che miravano a scompaginare i ranghi dei legionari e a trasformare la battaglia in una serie di duelli singoli, tipici del loro

stile di combattimento309. I Romani restarono quasi paralizzati di fronte a tale tattica, nuova

per loro, e solo il provvidenziale arrivo di Cesare, alla testa dei rinforzi, evitò il disastro310. I

Britanni, dal canto loro, non tentarono di ingaggiare battaglia in condizioni di inferiorità, ma preferirono ritirarsi; e Cesare, saggiamente, evitò di lanciarsi al loro inseguimento su un terreno di cui non aveva conoscenza.

Probabilmente imbaldanziti dal successo e dal fatto che Cesare non aveva osato inseguirli, i Britanni inviarono messi ovunque, raccolsero una grande armata e decisero di attaccare il campo romano, fidando nella loro superiorità numerica e attirati dalla possibilità di sconfiggere i Romani una volta per tutte. In uno scontro frontale, con le legioni schierate, i barbari non avevano però alcuna speranza contro il disciplinato esercito romano: l'assalto fu

infatti respinto con facilità311; e Cesare, questa volta, lanciò le sue truppe, in particolare 30

cavalieri guidati da Commio, all'inseguimento dei nemici, ben sapendo che, come era accaduto in precedenza “celeritate periculum effugerent” e che quindi bisognava infliggere loro un duro colpo in termini di vite umane. L'inseguimento ebbe successo e i soldati devastarono case e villaggi in tutte le direzioni, ottenendo finalmente che i Britanni

307Sheehan, N. (2003), p. 440.

308Probabilmente i Romani non avevano esplorato a dovere le zone boschive circostanti: Rice Holmes, Th.

(1907), p. 321.

309Berresford Ellis, P. (1978), pp. 94 - 96.

310Cesare, La guerra gallica, IV, 33 – 34; Peddie, J. (1987), pp. 8 – 9.

311Rice Holmes, Th. (1907), p. 323; Le Bohec, Y. (2001), p. 225; Meier, C. (2004), p. 288; Berrsford Ellis, P.

implorassero la clemenza di Cesare312. Questi, imposto un alto numero di ostaggi, ultimò le

riparazioni della flotta e poté rientrare in Gallia313.

Si concludeva così la prima spedizione in Britannia.

2. La seconda spedizione in Britannia

La seconda spedizione di Cesare in Britannia, effettuata nel giugno del 54 a. C., vide la messa in campo di un grosso contingente militare composto da cinque legioni, 2000 cavalieri e 800

navi, da guerra e da carico314. I nemici, spaventati da quell'imponente spiegamento di forze,

non si schierarono per impedire lo sbarco dei Romani315, che ebbe luogo sulla stessa spiaggia

della volta precedente, ma preferirono ritirarsi sulle alture e adottare tattiche di diverso tipo316.

La mole dell'esercito romano e le esperienze dell'anno prima li avevano infatti resi cauti; ed

essi, dopo aver portato i propri beni e le proprie famiglie nei boschi più inaccessibili317,

attesero l'avanzata romana al riparo delle loro foreste/fortezze318.

Cesare, lasciato Quinto Atrio alla testa delle truppe di guardia alla flotta, costituite da dieci coorti di fanteria e trecento cavalieri, iniziò a mezzanotte una marcia notturna per intercettare il grosso delle forze nemiche. Le informazioni raccolte durante la campagna del 55 dovevano essere state ben elaborate dal generale romano, la cui conoscenza della zona costiera e dell'immediato entroterra appare ora profonda abbastanza da renderlo sicuro nell'affrontare una marcia notturna in territorio nemico. Dopo dodici miglia319 Romani e Britanni si

scontrarono; la cavalleria romana mise in fuga i nemici, i quali “se in silvas abdiderunt320

dove iniziarono a combattere nel modo a loro più congeniale. Cesare dice che essi “ex silvis

rari propugnabant”321 impedendo ai legionari di addentrarsi nella foresta.

Le foreste offrivano ai Britanni una doppia protezione, dovuta alla sinergia funzionale tra l'ambiente naturale e le opere che gli indigeni avevano a suo tempo costruito per incrementarne le potenzialità difensive. Queste erano costituite da fortificazioni ricavate da tronchi d'albero, che ostruivano le principali vie d'accesso ai boschi322. Al riparo di tali

312Cesare, La guerra gallica, IV, 35 - 36. 313Cesare, La guerra gallica, IV, 35 – 36. 314Cesare, La guerra gallica, V, 8.

315Avvenuto probabilmente tra Sandown e Sandwich: Rice Holmes, T. (1907), p. 335. 316Cesare, La guerra gallica, V, 8, 6; Le Bohec, Y. (2001), p. 227.

317Cassio Dione, Storia romana, XL, II, 1.

318Cassio Dione, Storia romana, XL, II, 2; Cesare, La guerra gallica, V, 9 e 21.

319Probabilmente presso il fiume Stour, presso l'odierna Canterbury: Rice Holmes, Th. (1907), p. 336. 320Cesare, La guerra gallica, V, 9, 4.

321Cesare, La guerra gallica, V, 9, 6.

322I boschi, difesi da trinceramenti e fossati, erano le “fortezze” sulle quali i Britanni basavano la difesa del

rudimentali ma efficaci fortificazioni, e nascosti dalle ombre della foresta, essi evitarono di raccogliersi in grossi gruppi e, combattendo alla spicciolata, tennero testa ai Romani fino a quando gli uomini della VII legione, formata la testudo, furono in grado di avanzare, costruire un terrapieno e distruggere le difese nemiche. I Britanni non si accanirono nella difesa delle loro posizioni; ma, applicando una difesa relativa, preferirono ritirarsi e, grazie alla loro superiore conoscenza dei luoghi, riuscirono ad allontanarsi senza che Cesare, privo della

peritia loci necessaria, si avventurasse al loro inseguimento323.

Il generale romano diede l'ordine di inseguimento solo la mattina seguente, dopo aver diviso l'esercito in tre colonne, formata ciascuna sia da fanti che da cavalieri. Si tratta di un accorgimento fondamentale che avremo occasione di incontrare di nuovo. Con l'esercito così suddiviso i Romani creavano una vera e propria rete in grado di intrappolare i nemici,

evitando, al contempo, il rischio di essere accerchiati324 a loro volta. Ogni colonna, provvista

di fanti e cavalieri, possedeva tutti i requisiti di potenza, velocità e flessibilità necessari per

essere in grado di affrontare con successo eventuali attacchi nemici325. Proprio quando le

retroguardie dei Britanni erano in vista, Cesare fu informato che, per la seconda volta, una tempesta aveva distrutto gran parte della flotta326.

Questo avvenimento diede ai Britanni un po' di respiro, il tempo necessario per mettere da parte le divergenze intertribali e affidare il comando della guerra ad un unico capo: la scelta cadde su Cassivellauno327, re del territorio attraversato dal fiume Tamigi328.

Egli imperniò subito la difesa del territorio secondo schemi non ortodossi; e la sua prima mossa fu un attacco a sorpresa contro la cavalleria romana: “Equites hostium essedarique

acriter proelio cum equitatu nostro in itinere conflixerunt, ita tamen ut nostri omnibus partibus superiores fuerint atque eos in silvas collesque conpulerint; sed conpluribus interfectis cupidius insecuti non nullos ex suis amiserunt”329.

Bigbury: si veda: Berresford Ellis, P. (1978), pp. 120 – 123; Frere, S. (1967), pp. 33 – 34; Todd, M. (1981), p. 21; Salway, P. (1981), p. 33. Accorgimenti simili erano stati presi anche dalla tribù dei Nervi: Cesare, La guerra

gallica, II, 17, 4.

323Cesare, La guerra gallica, V, 9, 8.

324Le stesse tattiche furono usate, in operazioni simili, anche da Agricola: Tacito, Agricola, XXV, 4 e da

Dolabella: Idem, Annali, IV, 24, 3.

325Frere, S. (1967), p. 34.

326Cesare, La guerra gallica, V, 10; Rice Holmes, Th. (1907), p. 338. 327Rice Holmes, Th. (1907), p. 339; Todd, M. (1981), p. 22.

328Cesare, La guerra gallica, V, 11, 8 - 9. 329Cesare, La guerra gallica, V, 15, 1.

Cassivellauno attaccò dunque la cavalleria romana con carri330 e cavalieri e, quando i nemici

riuscirono a respingere l'attacco e si gettarono all'inseguimento, i Britanni li attirarono sui loro colli e nei boschi, all'interno dei quali la battaglia assunse tutt'altro aspetto, causando ai

Romani forti perdite. Secondo Cassio Dione331, i danni inflitti dai Britanni ai Romani in tali

frangenti furono veramente gravi, al punto che Cesare fu costretto, momentaneamente, ad

interrompere le operazioni332. Nell'opera dello storico di Nicea, l'insuccesso romano non fu

dovuto all'indisciplina della cavalleria, ma venne deliberatamente causato dalla fuga simulata

dei Britanni, che ebbero successo nell'attirare i nemici in una trappola mortale333.

Probabilmente imbaldanzito da tali successi, Cassivellauno tentò allora un attacco su larga scala, applicando i canoni propri della guerra irregolare e sfruttando la conoscenza del territorio, l'effetto sorpresa e i punti deboli del nemico. I Britanni attaccarono infatti i Romani mentre questi erano impegnati nella costruzione dell'accampamento. Nascosti in attesa nelle foreste, essi “subito se ex silvis eiecerunt” e si gettarono contro i Romani “inprudentibus

nostris atque occupatis in munitione castrorum”334. Dalle parole di Cesare, che ricordano assai

da vicino l'imboscata subita l'anno prima dalla VII legione, si evince che l'effetto sorpresa fu completo. I Romani si posero sulla difensiva e, nonostante l'arrivo dei rinforzi, si combattè con accanimento per diverse ore. Cesare sottolinea come i suoi legionari, dotati di armamento

pesante “minus aptos esse ad huius generis hostem”335 il quale, anche quando metteva in

campo eserciti numerosi, non accettava mai lo scontro diretto, ma si affidava a tattiche

elusive, imperniate su velocità, uso del terreno336 e mobilità piuttosto che sulla semplice forza

d'urto. “Accedebat huc numquam conferti, sed pari magnisque intervallis proeliarentur

stationesque dispositas haberent”337; se i legionari volevano arrivare al corpo a corpo contro

tali nemici, dovevano necessariamente dividersi in gruppi più piccoli e cercare di intercettarli con l'aiuto della cavalleria; ma, mentre i primi non osarono allontanarsi dalle insegne, la seconda era messa in difficoltà dai carri da guerra. Utilizzando l'espediente della fuga simulata, i Britanni attiravano i cavalieri lontano dal resto dell'esercito e, dopo averli isolati, gli essedarii scendevano dal carro e combattevano a piedi in un “dispari proelio” che

330La presenza dei carri fa pensare alla possibilità che i Britanni scegliessero per le imboscate, in cui utilizzavano

tale strumento di guerra, luoghi con particolari caratteristiche, come ad esempio la presenza di sentieri nei boschi, tali da rendere possibile il loro dispiegamento.

331Cassio Dione, Storia romana, XL, II, 2; le perdite da parte romana sono messe in risalto anche da Orosio, Le

storie contro i pagani, VI, 9, 7.