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Le conseguenze delle dichiarazioni false o reticenti: la revisione in

Si ricordi come obiettivo della riforma del 2001 fosse quello di garantire la genuinità e l’attendibilità delle informazioni rese dal “pentito” ai fini della protezione del processo penale da inquinamenti esterni e dal fenomeno del “falso pentitismo”. Nel rispetto di questo intento, il legislatore disciplinò l’istituto della revisione in peius della sentenza di condanna che concedeva i benefici penitenziari, inteso come strumento successivo di reazione a dichiarazioni false o reticenti del collaboratore di giustizia. Della revisione in peius della sentenza di condanna tratta l’art. 16 septies d.l. n. 8/1991 il quale ammette la possibilità di revisionare una sentenza, seppur passata in giudicato, a seguito della verifica della inattendibilità del “pentito”. Durante il corso del procedimento che coinvolge il collaboratore, sono molti gli strumenti messi a punto dal legislatore con lo scopo di vagliare la genuinità e l’attendibilità di chi decida di collaborare con la giustizia, sia nella fase precedente, che in quella del giudizio. Il legislatore, consapevole del possibile fallimento di questi strumenti, ne ha “ideati” altri in grado di operare nella fase addirittura successiva al giudizio, in

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maniera tale da poter svolgere una selezione efficace dei “pentiti”, seppur tardivamente. Così come il legislatore è disposto a prevedere un trattamento sanzionatorio di favore per chi decida di collaborare con la giustizia, rinunciando ad esercitare parte della sua potestà punitiva, allo stesso modo egli predispone delle tecniche idonee a trattare più severamente chi si è avvalso di misure trattamentali di favore in virtù di un comportamento scorretto quale è quello consistente nel rendere dichiarazioni false o reticenti. L’art. 16- septies ha previsto, in questi casi, oltre che la revisione della sentenza di condanna, anche la restituzione nei termini per l’impugnazione, e l’aggravante della calunnia.

Il collaboratore sa che, qualora scoperto il suo tradimento nei confronti dell’accordo pattuito con lo Stato, perderebbe in automatico tutti i benefici concessigli in virtù dell’accordo medesimo. Infatti, il trattamento sanzionatorio aggravato conseguente alla revisione in peius funge da contrappeso alle previsioni di premialità processuale180. Quello della revisione in peius della sentenza di condanna è l’ultimo momento in cui poter appurare l’attendibilità del collaboratore. Si tratta di una sorta di garanzia ultima di chiusura.

a)Volendo fare un cenno alla categoria dogmatica di riferimento, possiamo affermare con certezza che l’art. 16-septies d.l.n. 8/1991 rientra nella più generale e controversa categoria della revisione. La revisione della sentenza è un mezzo di impugnazione straordinario in grado di “travolgere” il giudicato e ha ad oggetto necessariamente una sentenza di condanna; la legge 134 del 2003 ritiene che sia oggetto di revisione anche una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti. Competente ai fini del giudizio di revisione è la Corte d’Appello, che deve necessariamente appartenere ad un distretto diverso rispetto a quello che ha svolto il giudizio irrevocabile. Quest’ultima previsione

180 D. Manzione , Una normativa “d’emergenza” per la lotta alla criminalità

organizzata e la trasparenza e il buon andamento dell’attività amministrativa (d.l. 152/1991 e l. 203/1991): uno sguardo d’insieme, in Legisl. pen., 1992, p. 853.

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ha come scopo quello di evitare influenze ambientali e, al contempo, quello di garantire una certa serenità nel giudizio. La revisione “tradizionale” 181 è prevista all’art. 630 c.p.p., che la ammette in presenza di una delle seguenti situazioni:

 Fatti incompatibili con quelli accertati da altra sentenza: il conflitto tra giudicati penali.

 Revoca di una sentenza definitiva che ha risolto una questione pregiudiziale all’esistenza del reato.

 Nuove prove che determinano il proscioglimento.

 Condanna pronunciata in conseguenza di un fatto previsto dalla legge come reato182.

In tutti questi casi la revisione della sentenza comporterà un miglioramento del trattamento penitenziario del soggetto precedentemente condannato, il quale, a seguito del giudizio di revisione verrà, infatti, prosciolto. Si tratta di ipotesi di c.d. revisione

in melius o in bonampartem alle quali seguiranno anche la restituzione

delle somme pagate in esecuzione della condanna per le pene pecuniarie, per le misure di sicurezza patrimoniali, per le spese processuali e di mantenimento in carcere e per il risarcimento dei danni a favore della parte civile, oltre che la restituzione dei beni confiscati. b)La revisione di cui all’art. 16-septies è, al contrario, una revisione in peius che opera quando “i benefici previsti per i collaboratori di giustizia sono stati applicati per effetto di dichiarazioni false o reticenti” o quando, entro dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza, chi abbia beneficiato di questi vantaggi, commette un delitto per cui è previsto l’arresto in flagranza obbligatorio, sintomo del

181 Da distinguere dalla nuova ipotesi di revisione a seguito di condanna dello Stato

italiano pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

182 In questo caso la revisione può essere richiesta solo se viene dimostrato che la

sentenza di condanna è stata pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di altro fatto previsto dalla legge come reato. È ovvio che ai fini della revisione la sentenza che accerta la falsità dovrà essere passata in giudicato.

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reinserimento del collaboratore nel circuito delinquenziale cui apparteneva. La scelta del legislatore è stata quella di ammettere il giudizio di revisione solo nel caso di sentenza di condanna, ossia solo a seguito di una sentenza che abbia applicato una condanna ingiusta, come statuito dagli art. 629 ss. c.p.p. .

L’istituto della revisione non sarebbe perciò impiegabile nel caso in cui la responsabilità del reo fosse stata negata con sentenza di assoluzione passata in giudicato. È possibile concludere statuendo che il nostro legislatore ha ammesso il ricorso alla sola revisione in bonam partem escludendo quella revisione idonea a determinare un peggioramento delle condizioni del reo. Si tratta di una soluzione da alcuni fortemente criticata dal momento che non vi sarebbe ragione logica per preferire una assoluzione sbagliata ad una condanna sbagliata essendo, in entrambi i casi, le sentenze il frutto di errori giudiziari183 che il buon senso vuole vengano sempre corretti. A ciò si aggiungano il senso di pericolo in cui verserebbe la società, impaurita dalla presenza di malfattori che, in quanto giudicati non colpevoli, non potrebbero più essere condannati184, il trattamento disparitario che si verrebbe ad instaurare tra i condannati, in evidente contrasto con l’art. 3 Cost. 185. C’è chi ritiene che riaprendo un giudizio conclusosi con sentenza irrevocabile di condanna ingiusta, non si violerebbe il principio del ne bis in idem per il fatto che il nuovo giudizio mirerebbe al raggiungimento di un risultato diverso e migliore, nonostante siano gli stessi i soggetti coinvolti e l’oggetto del procedimento186. La diversità di trattamento è giustificata alla luce del diverso valore sociale e morale che assume una condanna ingiusta rispetto ad una

183 R.A. Ruggiero, L’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia

nella chiamata in correità, cit., pp. 284-285.

184 A. Ravizza, voce revisione (codice di procedura penale) , in Dig. it. , vol. XX, II,

Utet, 1913, p. 127.

185 V.G.Gemma, Revisione delle sentenze penali e principio costituzionale di

eguaglianza, in Riv. it. dir.proc.pen. , 1983, p. 64.

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ingiusta assoluzione. È più giusto riparare ad un errore giudiziario che ha comportato la condanna di un innocente, che non ad un errore che abbia portato a non condannare un colpevole. Pare impensabile ammettere revisioni di sentenze irrevocabili di assoluzione e lo stesso art. 16 septies d.l. n. 8/1991 non desta perplessità, trattandosi, anche in questo caso di sentenze di condanna. È vero, però, che la revisione della sentenza in questione porterebbe, in fin dei conti, ad un peggioramento delle condizioni del condannato, dal momento che la revisione di cui si tratta avrà sì ad oggetto una sentenza di condanna, ma avrà come conseguenza anche l’obbligo di ricalcolare la pena senza tenere conto delle attenuanti speciali precedentemente considerate. Scopo della previsione è quello di permettere allo Stato di mantenere il controllo nel rapporto con il “pentito”, anche a costo di stravolgere il giudicato. La nuova sentenza non andrà a modificare il contenuto sostanziale della precedente, nel senso che considererà responsabile lo stesso soggetto ritenuto tale nella decisione precedente, semplicemente andrà a ricalcolare il quatum di pena alla luce del fatto che il collaboratore che aveva goduto del trattamento premiale, in realtà ha reso dichiarazioni false o reticenti, tradendo il “contratto” stipulato con lo Stato. Si procede con la rivalutazione delle condizioni che hanno legittimato l’applicazione della disciplina premiale alla luce di una condotta tenuta dopo il delitto.

La dottrina ha ritenuto questa norma compatibile con il nostro sistema, nonostante esso sia un sistema che rifiuta la revisione in malampartem, proprio per il fatto che ad essere coinvolta sarebbe non la responsabilità del reo bensì la quantificazione della pena che egli deve scontare. Se il nostro ordinamento arriva, dunque, a negare le ipotesi di revisione in peius in senso sostanziale, ammette quelle in senso processuale, ossia quelle che si limitano a considerare circostanze successive all’accertamento dei fatti, ai fini del giudizio sulla immutabilità delle condizioni che avevano legittimato l’applicazione

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della normativa premiale187. Questa conclusione è condivisa, ad esempio, da E. Jannelli, il quale ritiene essa non violi alcuna parte del dettato costituzionale188.

L’istituto della revisione viene descritto da alcuni autori in questi termini: "più che di una forma di impugnazione sui generis, di una speciale modalità di promovimento di una particolare azione penale, connotata da una sorta di obbligatorietà, analoga a quella che caratterizza la condotta del p.m. ai sensi dell'art. 50 c.p.p. Proprio il fatto che essa non è una vera e propria impugnazione, ma, in un certo senso, una procedura cui si dà inizio per correggere un errore (di valutazione, ma fondato su di un falso presupposto di fatto) le conferisce carattere di vincolatività nei confronti dell'organo istituzionalmente preposto alla sua attivazione "189

c)L’attuale art. 16 septies d.l. n. 8/1991 trova un antesignanostorico nella legge n. 304 del 1982. Si ricordi che il legislatore redasse questa norma per far fronte al fenomeno del terrorismo, prevedendo sconti di pena a chi avesse maturato una scelta dissociativa consistente nell’aver reso note agli inquirenti tutte le informazioni in suo possesso. Questa norma venne introdotta in un’epoca in cui erano continue le aggressioni al sistema costituzionale, con evidente destabilizzazione dell’ordine sociale. Per far fronte a questo pericolo, il legislatore ritenne necessaria una “rimodulazione contra reum del giudicato penale come deterrente da contrapporre a disposizioni marcatamente premiali” 190 L’art. 10 della predetta norma individuava quali presupposti per la revisione della sentenza, l’aver reso agli inquirenti “dichiarazioni false o reticenti”. Se la falsità delle informazioni rese

187 R.A. Ruggiero, L’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia

nella chiamata in correità, cit., p. 288.

188 E. Jannelli, La revisione, in Aa. Vv., Giurisprudenza sistematica di diritto

processuale penale, diretta da M. Chiavario- E. Marzaduri, Utet, 2005, p. 661-662.

189M. Fumo, Delazione collaborativa, pentimento e trattamento penitenziario, cit. p.

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fosse stata conosciuta dagli inquirenti prima del passaggio in giudicato della sentenza, si sarebbe optato per la rinnovazione del giudizio. La peculiarità della norma in questione consisteva nella possibilità di revisionare non solo le sentenze di condanna, ma anche le sentenze di proscioglimento che venivano emesse a seguito dell’applicazione delle cause di non punibilità191. Seppur la legge del 1982 differiva sotto questo punto di vista, non differiva in relazione alla logica dell’istituto. Anche la legge del 1982, infatti, aveva come ratio quella di ripensare al trattamento di favore concesso ingiustamente. Qualche anno dopo, il legislatore previde, nella l. 34 del 1987 al comma 5 che, coloro che si fossero dissociati dal terrorismo e avessero goduto di commutazione o diminuzioni di pena, avrebbero dovuto rinunciarvi laddove avessero commesso altri delitti “di terrorismo o di eversione costituzionale” o a seguito di condotte assolutamente incompatibili con quella dissociativa. La legge di cui si tratta non fa mai menzione al termine “revisione” ed inoltre, mentre la prima norma analizzata era destinata a chi avesse collaborato con gli inquirenti, la seconda era destinata a chi si fosse limitato a dissociarsi dal gruppo criminale di appartenenza. Infine, il d.l. n. 152 del 1991conv. in l. 203 del 1991 al comma terzo dell’art. 8 prevedeva il medesimo affetto, seppur con riferimento, non solo ai reati di matrice terroristica, bensì anche a quelli mafiosi o più in generale, di criminalità organizzata. Il d.l. 152/1991 precisava inoltre che, durante il corso del giudizio di revisione, si potesse disporre la sospensione di tutte le misure alternative alla detenzione e di quelle cautelari.

d)Venendo alla disciplina attuale, si tratta di analizzare in maniera dettagliata quanto previsto ex art. 16-septies d.l.n. 8/1991, regolante l’istituto della revisione in peius. Esso recita “Il procuratore generale presso la corte d'appello nel cui distretto la sentenza è stata pronunciata

191 Oggi, a seguito di condotte collaborative non si potrà applicare una causa di non

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deve richiedere la revisione della sentenza quando le circostanze attenuanti che il codice penale o le disposizioni speciali prevedono in materia di collaborazione relativa ai delitti di cui all'articolo 9, comma 2, sono state applicate per effetto di dichiarazioni false o reticenti, ovvero quando chi ha beneficiato delle circostanze attenuanti predette commette, entro dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza, un delitto per il quale l'arresto in flagranza è obbligatorio”

Se i presupposti vengono accertati, il giudice competente procederà con la revisione della sentenza di condanna fissando la nuova entità della pena. Medio tempore potrà disporre l’applicazione delle misure cautelari e, come previsto anche nei precedenti normativi, se della reticenza o della falsità si venisse a conoscenza prima del passaggio in giudicato della sentenza, sarebbe possibile procedere con l’impugnazione ordinaria. Laddove un’impugnazione ordinaria fosse già stata proposta, il giudice che deciderà su questa dovrà tenere in considerazione anche la circostanza delle dichiarazioni false o reticenti, oltre che l’eventuale commissione di un altro reato. Di tali vicende deve essere informato anche il tribunale di sorveglianza che decide, se ve ne sono i presupposti, per la loro revoca.

È possibile confermare che i presupposti rimangono:

 L’accertamento della falsità o reticenza delle dichiarazioni del “pentito” che abbia goduto dei benefici premiali previsti.

 L’accertamento dell’applicazione delle attenuanti speciali proprio in virtù di quelle precise dichiarazioni poi scoperte false o reticenti.

 Intenzionalità nella comunicazione agli inquirenti di informazioni false 192.

192 È importante dimostrare che il collaboratore abbia agito in mala fede

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Volendo procedere ad una analisi dettagliata dei presupposti, in relazione alle dichiarazioni reticenti vi sono dei dubbi interpretativi in merito al concetto stesso di reticenza. Bisognerebbe interrogarsi sul fatto che le dichiarazioni rese dal collaboratore siano il frutto di una dimenticanza oppure siano il frutto di una omissione volontaria. Già alcuni esponenti della dottrina si erano interrogati su cosa si dovesse intendere per dichiarazioni reticenti in considerazione del riferimento che ne faceva la legge del 1982 n. 304 ed erano giunti, facendo leva sul modo in cui veniva interpretato l’art. 372 c.p., riguardante il reato di falsa testimonianza , alla seguente conclusione: la punizione si applica anche a chi taccia ciò che sa sui fatti oggetto di esame e non solo a chi affermi il falso o neghi il vero. Presupposto per considerare una dichiarazione reticente è che su quel determinato fatto ci sia stata una richiesta specifica da parte di chi svolge l’esame. Si può ritenere che lo spunto offerto dall’art. 372 c.p. possa essere legittimamente esteso anche all’ambito qui analizzato. Una volta compreso cosa si intenda per dichiarazione reticente, si può affermare con certezza che, in relazione alle dichiarazioni contenute nel verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, le dichiarazioni possono considerarsi reticenti solo se il “pentito” non ne dia informazione, nonostante vi sia stata una specifica domanda da parte degli inquirenti193. È possibile venire a conoscenza del comportamento reticente per mezzo delle domande espressamente rivolte ai collaboratori dal momento che il verbale illustrativo viene documentato secondo le forme descritte nell’art. 141- bis c.p.p. . Questa documentazione manca invece con riferimento alla informazioni rese nei successivi interrogatori. Per questi, a meno che non si tratti di soggetto detenuto, ed in questo caso

193Si ricordi infatti che vi è differenza tra dichiarazioni spontanee e dichiarazioni

sollecitate. In relazione a queste ultime il collaboratore è tenuto a dire tutto ciò che sa, in relazione alle prime, si limiterà a comunicare i fatti di maggiore allarme sociale o di maggiore gravità in sua conoscenza.

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si applicherà l’art. 141-bis c.p.p. , si ricorrerà alla documentazione mediante verbalizzazione integrale, la quale molto spesso non viene svolta con precisione. Il problema non si porrebbe neppure per le dichiarazioni rese nella fase dibattimentale, per le quali, applicandosi l’art. 510 c.p.p., è prevista la documentazione integrale delle domande e delle risposte, oltre che il ricorso alla stenotipia.

Le dichiarazioni false o reticenti possono essere state rese anche in procedimenti diversi da quello in cui le attenuanti furono concesse purchè risulti che le dichiarazioni rese negli altri procedimenti contribuirono alla concessione delle attenuanti speciali al collaboratore. La reticenza o la falsità delle dichiarazioni possono risultato da qualsiasi elemento, anche dalle dichiarazioni rese successivamente dal collaboratore come imputato o come teste assistito ex art. 197-bis c.p.p. . La possibilità di utilizzare, ai fini del procedimento di revisione, le dichiarazioni del testimone assistito pare contraddire il comma 5 dell’art. 197-bis c.p.p. , in virtù del quale le dichiarazioni del “testimone assistito” non possono essere utilizzate contro di lui nel procedimento a suo carico e nel procedimento di revisione della sentenza di condanna. In realtà si tratta di un “falso problema” poiché la revisione cui si riferisce l’art. 197-bis è quella prevista dal codice di rito, i cui presupposti sono totalmente differenti da quelli descritti nell’art. 16-septies, dal momento che in quest’ultimo caso le nuove prove non servono per dimostrare che il condannato andava prosciolto, ma a peggiorarne la posizione. Dunque, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni del teste assistito prevista ex art. 197-bis comma 5, opererà solo nel caso di revisione richiesta dal collaboratore per ottenere il proscioglimento 194 . Il difetto di coordinamento con il codice di rito da una parte della dottrina denunciato, dunque, non vi sarebbe.

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Oltre all’aver reso dichiarazioni false o reticenti, l’altra condotta che legittima il ricorso a questo mezzo di impugnazione straordinario consiste nella commissione di un delitto per il quale la legge prevede l’arresto in flagranza obbligatorio, entro dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna. La dottrina ha ritenuto questa previsione inadeguata per il fatto che il comportamento adottato post- delictum non dovrebbe influenzare il calcolo della pena svolto antecedentemente, quando cioè non era possibile sapere se ed in che misura il collaboratore si era effettivamente pentito ma era possibile tenere in considerazione il solo fatto che egli aveva redatto in tempo in verbale illustrativo195. Si ritiene infatti che, con riferimento ai collaboratori, il premio vada concesso solo perché egli ha fornito notizie importanti agli inquirenti. Sarebbe però, assurdo, come sottolineano altri autori, disconoscere anche il valore deterrente e specialpreventivo che sottende l’istituto della revisione in peius196. La nuova ipotesi di revisione in peius descritta dal legislatore si pone non tanto nella direzione della sanzione pubblica conseguente all’aver reso una collaborazione infedele, quanto piuttosto nella direzione di una misura volta a punire condotte caratterizzate da un forte disvalore e allarme sociale197.

Ai fini della revisione della sentenza di condanna, è necessario che la sentenza che accerta la reticenza, la falsità o il nuovo delitto, sia passata in giudicato, presupposto che in passato non era necessario. In realtà riguardo a questo presupposto, non vi è certezza, essendo molteplici le interpretazioni che sono state fatte del testo della norma. Se da una parte, il codice di rito all’art. 630 lett. d c.p.p. prevede, con

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