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Profili processuali della disciplina del collaboratore di giustizia

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di laurea in Giurisprudenza

“PROFILI PROCESSUALI DELLA DISCIPLINA DEL

COLLABORATORE DI GIUSTIZIA”

Il Candidato

Il Relatore

Giulia Marino

Prof. Enrico Marzaduri

(2)

I

Indice

INTRODUZIONE ... 1 CAPITOLO I PREMIO E COLLABORAZIONE PROCESSUALE: EVOLUZIONE DELLA LEGISLAZIONE PREMIALE SPECIALE FINO ALLA LEGGE N. 45/2001 ... 4 1.1 Prima della legislazione premiale ... 4 1.2 La legislazione premiale speciale: dalla premialita’ nella lotta contro il terrorismo, alle proposte di Giovanni Falcone ... 7 1.3 Aspetti critici della premialita’ ... 21 1.4 Perfezionamento della legislazione premiale e applicazione della disciplina ai reati di stampo mafioso ... 23 1.5 I momenti della disciplina ... 25 1.6 Critiche al sistema normativo delineatosi e obiettivi di riforma: dal D.L 8/1991 alla L. 45/2001 ... 30 CAPITOLO II IL CONTRIBUTO PROCESSUALE DEL

COLLABORATORE DI GIUSTIZIA ... 38 2.1 La chiamata in correità come strumento di collaborazione

processuale ... 38 2.2 La presunta inattendibilità delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia nel caso di chiamata in correità: art. 192 comma 3 c.p.p. ... 43 2.3 Applicabilità della regola di giudizio ex art. 192 comma 3 c.p.p. alla fase cautelare e al teste assistito. ... 51 2.4 Il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione ... 57

2.4.1 Oggetto del verbale illustrativo dei contenuti della

collaborazione... 60 2.4.2 Il profilo soggettivo del verbale illustrativo ... 63 2.4.3 Natura e utilizzazione processuale del verbale illustrativo

65

2.5 Sorte delle dichiarazioni tardive ... 69 2.6 Sorte delle dichiarazioni irripetibili ... 79

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II 2.7 Critiche al sistema delineato dall’art. 16 quater comma 9 d.l. n. 8/1991 ... 81 2.8 Il contraddittorio come strumento di controllo vs diritto al silenzio dell’imputato ... 82 2.9 Vesti processuali del collaboratore di giustizia: imputato di

procedimento connesso ex art. 12 comma 1 lett. C; imputato di procedimento connesso ex art. 12 comma 1 lett. A, imputato di

procedimento collegato ex art. 371 comma 2 lett. B, testimone assistito. 87 2.9.1 L’esame dell’imputato ... 88 2.9.2 L’esame di persone imputate in procedimenti connessi ... 89 2.9.3 Esame di imputati collegati o connessi teleologicamente (art. 12, lett. C e art.371 comma 2 lett. B) ... 90 2.9.4 Testimonianza assistita ... 91 CAPITOLO III IL SISTEMA DI PROTEZIONE DEI

COLLABORATORI DI GIUSTIZIA ALLA LUCE DELLA LEGGE N. 45 DEL 2001. ... 94 3.1 La disciplina del sistema di protezione nella normativa antecedente alla l. 45/2001. ... 94 3.2 Cause del fallimento del sistema di protezione delineato dal d.l. 8/1991. ... 103 3.3 Il nuovo sistema di protezione alla luce della L. n. 45 del 2001. .... 106 3.4 Il procedimento di ammissione alla protezione ... 109 3.5 I presupposti per l’applicabilità delle speciali misure: la nuova collaborazione. ... 112 3.6 Le speciali misure e il programma di protezione. ... 116 3.7 La revoca delle misure di protezione. ... 123 CAPITOLO IV PROFILI PROCESSUALI DEL TRATTAMENTO PENITENZIARIO DEL COLLABORATORE DI GIUSTIZIA ... 126 4.1 La disciplina dei benefici penitenziari prima e dopo la l. n.

45/2001 ... 126 4.2 La separazione del momento tutorio dal momento premiale .... 129 4.3 La revoca dei benefici penitenziari ... 132 4.4 La revoca della custodia cautelare in carcere ... 133

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III

4.5 La disciplina dei colloqui investigativi ... 135

4.6 L’esame a distanza ... 142

4.7 Le conseguenze delle dichiarazioni false o reticenti: la revisione in peius della sentenza di condanna ... 144

CONCLUSIONI ... 156

BIBLIOGRAFIA ... 161

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INTRODUZIONE

La presente dissertazione si propone di analizzare nelle sue molteplici sfaccettature le questioni inerenti la figura del collaboratore di giustizia. Figura di spicco all’interno del processo penale data la molteplicità delle informazioni che esso è in grado di fornire agli inquirenti ai fini della repressione di reati particolarmente gravi, quali quelli di criminalità organizzata, e ai fini della conoscenza di dinamiche interne concernenti le organizzazioni criminali cui il “pentito” apparteneva. Il fenomeno del “pentitismo” è un fenomeno relativamente nuovo che ha cominciato a radicarsi nel nostro Paese a seguito dell’impegno del legislatore volto a corrispondere ai collaboratori dei c.d. “premi” consistenti in sconti di pena e trattamenti penitenziari più miti, in cambio delle informazioni ricevute dal “pentito”. Tra il “pentito” e lo Stato si viene ad instaurare un rapporto sinallagmatico in virtù del quale il primo si obbliga a dare tutte le informazioni in suo possesso ai fini della repressione di reati di cui è a conoscenza e il secondo si obbliga a proteggerlo da eventuali vendette dell’organizzazione di appartenenza e a concedergli misure penitenziarie di favore. Uno strumento importante ai fini collaborativi è stata la chiamata di correo, inteso come strumento processuale idoneo a svelare informazioni riservate, cui, senza l’apporto conoscitivo di chi in prima persona aveva partecipato a quegli eventi, gli inquirenti non avrebbero mai potuto accedere.

Questo lavoro mira a fornire un quadro complessivo delle problematiche sul tema attraverso la suddivisione in quattro capitoli. Nel primo capitolo intitolato “Premio e collaborazione processuale: evoluzione normativa della legislazione premiale speciale fino alla L. 45/2001” vengono evidenziate le varie tappe dell’evoluzione legislativa premiale speciale. Partendo dalla descrizione delle norme contenute nel codice penale e inerenti il “pentimento operoso”,

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passando per le prime leggi speciali in materia di lotta al terrorismo, e per le intuizioni di Giovanni Falcone, si giunge a trattare delle leggi premiali speciali in materia di lotta alla criminalità organizzata, fino a descrivere le principali novità apportare in materia di collaborazione processuale dalla legge n. 45 del 2001 recante "Modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonchè disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza".

Il capitolo secondo, intitolato “Il contributo processuale del collaboratore di giustizia” affronta la questione prettamente processuale della valutazione delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia e della loro presunta inattendibilità. Iniziando dall’analisi dell’istituto della chiamata in correità, inteso come strumento processuale privilegiato ai fini del recepimento di informazioni essenziali di cui è a conoscenza il collaboratore, si giunge a trattare degli strumenti introdotti dal legislatore al fine di garantire l’attendibilità del correo e la genuinità delle sue dichiarazioni. In particolare ci si sofferma sull’analisi dell’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p. il quale impone la ricerca di elementi di riscontro esterni alle dichiarazioni dell’imputato ai fini del vaglio della sua attendibilità, per poi soffermarsi sull’analisi dell’istituto del “verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione”, introdotto con la legge 45 del 2001 e avente la stessa ratio dell’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p. , seppur utilizzato in un momento processuale differente, ossia quello immediatamente successivo alla manifestazione della volontà di collaborare con la giustizia e dunque antecedente alla valutazione delle dichiarazioni. Infine, ci si sofferma sul destino delle dichiarazioni tardive e irripetibili rese dal “pentito” e sulle vesti processuali che esso può assumere nel corso del processo in cui maturi la scelta collaborativa.

Nel terzo capitolo, intitolato “Il sistema di protezione del collaboratore di giustizia alla luce della l. n. 45 del 2001” si affronta la tematica della

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protezione del pentito, soffermandosi sulle lacune e critiche al precedente sistema di protezione delineato dal d.l. n. 8/1991 convertito in legge n. 82 del 1991, fino a trattare delle novità introdotte dalla riforma del 2001. La scelta collaborativa è, infatti, una scelta molto coraggiosa alla quale possono seguire reazioni dure da parte dei gruppi criminali di appartenenza del “pentito”, si parla in tal senso di vendette c.d. “trasversali”, che coinvolgono non solo chi collabora, ma anche la sua famiglia. Ci si concentra sulla nuova procedura di ammissione e sulle nuove misure che il legislatore del 2001 ha inaugurato ossia le speciali misure di protezione, come alternativa al programma speciale di protezione di cui fino a quel momento molto spesso si abusava, e che ovviamente presuppone che le dichiarazioni del reo siano ritenute attendibili.

Il capitolo quarto, infine, è incentrato sull’analisi dell’ultimo dei “momenti” che interessano la disciplina del collaboratore di giustizia, quello penitenziario. Ci si concentra sul momento prettamente esecutivo della pena, con particolare attenzione rivolta, oltre che all’art. 16-nonies d.l. 8/1991 riguardante i benefici penitenziari e la possibilità di goderne anticipatamente, anche alla questione delle dichiarazioni false e reticenti rese dal collaboratore di giustizia, la cui disciplina è descritta all’art. 16-septies d.l. n. 8/1991 e che ha come diretta conseguenza la revisione in peius della sentenza di condanna che abbia concesso i benefici penitenziari e il ricalcolo del quantum di pena a carico del “pentito”. La revisione viene vista come l’ultimo strumento posto a disposizione delle autorità competenti per vagliare la genuinità delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia, con l’evidente scopo di difendere il processo da dichiarazioni mendaci dello stesso. Quello della genuinità delle dichiarazioni del c.d. “pentito” e dell’allontanamento di fonti di inquinamento dal processo è il filo conduttore della legge n. 45 del 2001 e motivo di ulteriore regolamentazione della disciplina dei colloqui investigativi.

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CAPITOLO I

PREMIO E COLLABORAZIONE

PROCESSUALE:EVOLUZIONE DELLA

LEGISLAZIONE PREMIALE SPECIALE FINO

ALLA LEGGE N. 45/2001

SOMMARIO: 1.1 Prima della legislazione premiale speciale- 1.2. La legislazione premiale speciale: dalla premialità nella lotta contro il terrorismo, alle proposte di Giovanni Falcone.- 1.3. Aspetti critici della premialità.- 1.4. Perfezionamento della legislazione speciale e applicazione della disciplina ai reati di reati di stampo mafioso.- 1.5. I momenti della disciplina.- 1.6. Critiche al sistema normativo delineatosi e obiettivi di riforma.

1.1 Prima della legislazione premiale

La fine degli anni 60 fu un periodo in cui nuove forme di criminalità presero il sopravvento nel nostro Paese generando un forte senso di pericolo nella collettività e un senso di sfiducia verso le istituzioni. Nel corso di tale periodo si riscontrò l’importanza del lavoro svolto da magistrati e investigatori impegnati attivamente ai fini della repressione di questa nuova tipologia di reati.

Si trattava per lo più di realtà macrocriminali caratterizzate da fatti di terrorismo e di sequestri di persona con scopo di estorsione, che imposero al legislatore di elaborare nuove norme capaci di reprimere il fenomeno in questione. Ci si trovava, infatti, di fronte ad un fenomeno nuovo in quanto non riferibile alla delinquenza individuale, bensì a quella organizzata, avendosi a che fare con un tipo di criminalità che comportava importanti conseguenze a livello investigativo,processuale e sanzionatorio.

Sul piano investigativo fu importante la creazione di appositi organismi investigativi specializzati, sul piano processuale l’avvento dei cosiddetti “processi-inchiesta” o maxi-processi, sul piano sanzionatorio, infine, rilevò la previsione di sanzioni aggravate per chi

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commetteva reati di criminalità organizzata, aggravate rispetto alle sanzioni previste per quegli stessi fatti, se realizzati individualmente. Ci si rese ben presto conto dell’importanza della dissoluzione del vincolo associativo ai fini della lotta alla criminalità organizzata. In sostanza, la disgregazione dei gruppi criminali in questione poteva avvenire solo attraverso la rottura del vincolo associativo. La scelta del legislatore di intervenire e di avvalersi del bagaglio informativo del collaboratore fu una scelta quasi “fisiologica” 1cui fu costretto data la particolare situazione critica in cui si trovava il nostro Paese.

Sarebbe stato possibile ottenere tale effetto solo a patto di riconoscere a quei soggetti, cosiddetti “pentiti”2, una serie di “premi”. Di tali premi si è occupato il legislatore speciale già dalla fine degli anni 70.

Scopo della collaborazione processuale sarebbe stato quello di informare le autorità competenti, autorità di polizia o autorità giudiziaria,di tutte le proprie conoscenze ai fini della ricostruzione di fatti,della cattura dei loro autori, oltre che per evitare il verificarsi di ulteriori reati.

La nozione di premialità si è diffusa assai dopo l’introduzione,nel nostro ordinamento, di fattispecie ad essa riconducibili. Si decide di dare una definizione unitaria al concetto di premialità con lo scopo di “reductio ad unum” di una legislazione per molti versi eterogenea. Il concetto di premialità è un concetto che apparentemente non sembra trovare spazio nell’ambito di un diritto come quello penale basato sull’imprescindibile principio del “nullam crimen sine poena”3. E’ il diritto penale sostanziale a descrivere le prime ipotesi di “premialità”. Ci si riferisce a quegli articoli del codice penale che

1C. Ruga Riva, Il premio per la collaborazione processuale, Giuffrè, 2002, p. 17 2 Il termine in questione è utilizzato impropriamente in quanto carico di connotazione

morale non riferibile a tutte le ipotesi di collaborazione potendo il collaboratore intervenire per soli motivi utilitaristici.

3 R.A Ruggiero, l’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nella

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definiscono il concetto di “pentimento operoso”. Stiamo parlando dei seguenti articoli del codice penale del 1930 :

- art. 56 co. 4 e 62 co. 1 n.6 c.p., i quali prevedono sconti di pena per coloro che,avendo già posto in essere una condotta penalmente rilevante, ne abbiano poi impedito la realizzazione o abbiano risarcito il danno.

- art. 385 co. 4 c.p. , il quale prevede una diminuzione di pena per chi, dopo essere evaso, si costituisca spontaneamente in carcere.

- artt. 455,458,463,641 c.p. che prevedono la non punibilità per chi:

1. ritratta le sue dichiarazioni, dopo aver detto il falso.

2. impedisce la fabbricazione o la circolazione di monete che egli stesso abbia contribuito a falsificare.

3. Adempie,prima della condanna, all’ obbligazione contratta ma non onorata commettendo insolvenza fraudolenta.

- artt. 304-308c.p. , i quali prevedono la non punibilità per chi,avendo inizialmente aderito ad una associazione diretta al compimento di delitti contro la personalità dello Stato, ne impedisca poi la realizzazione.

Si tratta di norme che prevedono ipotesi di ravvedimento del reo,nelle quali il postfatto svolge una funzione di reintegrazione che legittima l’applicazione dell’esimente o dell’attenuante in quanto il comportamento successivo del reo recupera, seppur tardivamente, il

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valore del bene giuridico coinvolto. Si parla di effetto di neutralizzazione della condotta del reo. Del tutto irrilevante risulta poi il fatto che il reo si sia realmente pentito di quanto fatto avendo questo potuto agire anche ai fini del solo ottenimento del “premio”.

Le prime fattispecie penali premiali di carattere sostanziale furono accolte con entusiasmo poiché ritenute rispettose del principio di tassatività. Infatti, “la condotta inversa rispetto a quella oggetto di reato,che costituisce il presupposto per beneficiare dello sconto di pena, garantisce la tenuta del principio di tassatività”.4

Tali norme rappresentano un importante punto di partenza per la futura attività del legislatore speciale.

1.2 La legislazione premiale speciale: dalla premialita’

nella lotta contro il terrorismo, alle proposte di

Giovanni Falcone

La prima legge ad applicare il principio del pentimento operoso ai fatti di criminalità organizzata fu la l. 497/1974 che modificò l’art. 630 c.p. La legge in questione elevò le pene previste per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione (art.630 c.p.) e introdusse un’attenuante speciale a favore dell’autore o concorrente nel reato che si fosse adoperato per consentire alla vittima del reato il recupero della libertà, senza il pagamento di alcun riscatto. La legge non precisa cosa si intenda per dissociazione, nonostante essa ne faccia espresso riferimento. Il delitto in questione non presuppone necessariamente la presenza di un’associazione a delinquere, potendo trovare applicazione anche nei confronti di colui il quale commetta il reato di sequestro estorsivo individualmente, come conferma la Corte di Cassazione5. La

4 R.A Ruggiero, L’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nella

chiamata in correità,cit., pp. 18-19.

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condotta collaborativa consisterà, innanzitutto, nell’aiuto concreto che verrà dato alla vittima del reato per riacquistare la libertà, senza per ciò pagare alcun prezzo, nell’evitare che il reato possa essere portato a conseguenze ulteriori, ed infine, nel prestare indicazioni alle autorità competenti ai fini dell’individuazione e della cattura dei concorrenti6. L’idea per cui la diffusione del concetto di premialità avrebbe portato a successi in ambito processuale ai fini della repressione di reati particolarmente gravi si affermò anche nell’ambito di reati di matrice terroristica. Con l’estensione della disciplina premiale ai reati terroristici si voleva colmare la lacuna che si realizzava quando risultava impossibile ritenere integrate le fattispecie sostanziali, in quanto i terroristi avevano reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri militanti7. Tale comportamento, infatti, non rientrava per la giurisprudenza nell’ambito di applicazione dell’art 62 n. 6. c.p. e ciò portò il legislatore a prevedere un’ ipotesi autonoma di attenuazione della risposta sanzionatoria o addirittura l’impunità per coloro che, rispettivamente:

 Si fossero adoperati per evitare di portare il reato a conseguenze ulteriori.

 Si fossero impegnati a prestare aiuto concreto all’autorità giudiziaria o di polizia per la raccolta di prove decisive ai fini dell’individuazione o della cattura dei correi.

 Avessero impedito l’evento e fornito elementi di prova determinanti per ricostruire il fatto o per individuare altri concorrenti.

Questo era quanto esplicitamente previsto negli artt. 4 e 5 del d.l. 15 dicembre 1979, n.625 conv. nella l. 6 febbraio 1980, n.15.(nelle quali trova espressione quello che fu definito “l'indirizzo legislativo

6 M. Fumo, Delazione collaborativa, pentimento e trattamento sanzionatorio, Simone,

2001, p.59.

7 P. Giordano, Profili premiali della risposta punitiva dello stato. In Cass. Pen. , 1997,

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improntato a favore del terrorista ravveduto”8) concernente “misure

urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica” e che attengono per lo più alla sfera del diritto penale sostanziale.

Diametralmente opposta era la risposta punitiva per i c.d. terroristi “irriducibili” per i quali l’ordinamento prevedeva pene più alte, nuove fattispecie penali,cattura obbligatoria e divieto di libertà provvisoria, nonchè aumento dei termini di custodia preventiva. Soffermandosi sulla norma in questione, si possono analizzare i commenti di autorevoli esponenti della dottrina. Commentando l’art. 1 della legge antiterrorismo che stabilisce aggravamenti di pena per tutti i reati commessi con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, De Francesco ritiene che “la finalità di terrorismo non implichi sempre la finalità eversiva dell’ordine democratico”. Se è vero, infatti, che il fine terroristico è spesso “strumentale rispetto al fine ultimo”, che è costituito “dall’auspicata realizzazione di determinati programmi politici”, è anche vero, però, che non è necessario che un tale rapporto si realizzi costantemente. Può accadere, infatti, che allo scopo di spargere il terrore nella collettività non si accompagni sempre il fine “ultimo” di sovvertire l’ordine costituzionale; così come, per converso, chi agisce con questa finalità eversiva può anche considerare non essenziale al raggiungimento dell’obiettivo finale lo spargimento del terrore nella collettività”9. Egli , inoltre, ritiene critica l’applicazione dell’aggravante a qualsiasi reato, purchè commesso con finalità di eversione o di terrorismo, ciò significherebbe punire severamente anche comportamenti poco significativi ai fini del raggiungimento della finalità indicata dalla norma.

8 G. Chelazzi, La dissociazione dal terrorismo, Giuffrè, 1981, p. 6.

9 G. De Francesco, commento alla legge n. 15/1980, in Legislazione Penale, 1981, p.

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Con riferimento agli articoli 4 e 5, rileva il commento di Tullio Padovani. Se nell’articolo 1 si descrive l’aggravante per chi commette reati per fini eversivi o terroristici, negli articoli suddetti il legislatore si preoccupa di analizzare la posizione dei “terroristi pentiti” con la speciale previsione di circostanze attenuanti speciali. Il riferimento è ai soli delitti e non a tutti i reati, e al solo concorrente, con esclusione dell’autore individuale di un delitto terroristico.Secondo Padovani il fatto che l'art. 4 della legge n. 15/1980 non si riferisca a tutti i reati "commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico", ma ai soli delitti "risulta ben poco plausibile, pur se di scarsa rilevanza pratica"; infatti secondo l'autore "appare assurdo che il concorrente in una contravvenzione a scopo terroristico non possa fruire dell'attenuante... Al minor disvalore giuridico-penale implicito in un reato contravvenzionale, dovrebbe invero far riscontro non già un trattamento aprioristicamente deteriore rispetto ai delitti, ma, semmai, un regime di maggior favore". È di parere diverso Chelazzi, il quale ritiene che "l'esclusione delle contravvenzioni dall'ambito di applicabilità dell'attenuante appare giustificata per ragioni concernenti proprio questa categoria di reati (i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione)” 10. La circostanza di cui all’art. 4 si

prospetta in due ipotesi alternative: quando il concorrente si dissoci dagli altri e si adoperi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori; quando aiuti “concretamente l’autorità di polizia e l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti”. Padovani precisa come il “dissociarsi” si riferisca soltanto alla prima ipotesi, intendendo la volontà di sciogliere il legame con il gruppo di appartenenza. Non potendone invece beneficiare chi si sia “ dissociato” perché spinto dall’inopportunità politica contingente di spingere l’azione collettiva verso una direzione. Non è presupposto necessario per la concessione

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dell’attenuante che la dissociazione abbia effettivamente permesso di evitare le conseguenze ulteriori, essendo sufficiente “l’essersi adoperato per”. È ovvio che, laddove il fatto criminoso si sia già completamente realizzato, l’attenuante potrà essere concessa solo nella seconda delle ipotesi prevista dall’art. 4 (ossia avendo prestato un aiuto concreto all’Autorità di polizia o all’Autorità Giudiziaria). Il legislatore non richiede che vi sia un rapporto diretto tra il concorrente e gli inquirenti potendo le informazione giungere anche in modo anonimo. Si sottolinea, inoltre come l’applicazione dell’attenuante speciale escluda l’applicazione dell’art. 62 n. 6 c.p., trovandosi, rispetto a quest’ultima, in rapporto di specialità ed inoltre come escluda anche l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 1 .11

L’art. 5 introduce, addirittura, una causa speciale di non punibilità per chi abbia impedito volontariamente l’evento o abbia posto in essere una collaborazione qualificata.

Procedendo con l’analisi degli aspetti più processualpenalistici della norma in questione, rileva il commento di Enrico Marzaduri all’art. 8 del decreto. Egli sottolinea come il legislatore abbia fatto della custodia preventiva “terreno privilegiato per la lotta contro quelle forme di delinquenza che hanno reso drammaticamente precario il quadro dell’ordine pubblico nel nostro Paese”. La peculiarità consiste nel fatto che per definire lo spazio da concedere ad una misura cautelare, sono stati abbandonati i criteri del titolo di reato e dei livelli edittali, attribuendo,invece, rilevanza all’elemento soggettivo della finalità di terrorismo o di eversione. Egli sottolinea un punto critico ossia, “il magistrato si trova “costretto” a disporre la carcerazione dell’imputato anche quando si procede per un delitto sì aggravato ai sensi dell’art. 1, ma punibile con la sola pena pecuniaria”. Egli conclude, dunque, per un giudizio di incostituzionalità della norma

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commentata in quanto lesiva dell’art. 27 comma 2 Cost. che sancisce il divieto di trattamento peggiore dell’imputato rispetto al condannato. Si presume la pericolosità dell’imputato e per tale ragione lo si sottopone a custodia preventiva. Presunzione che potrebbe essere superata constatando il grado di offensività del reato commesso in concreto. Di tale distinzione, però, l’art. 8 non fa menzione. Riguardo alla libertà provvisoria, fino al 1979 del tutto vietata, oggi la legge di conversione del decreto ha ristretto questo divieto e la libertà provvisoria non può essere concessa solo quando per i delitti commessi con finalità di eversione o di terrorismo è prevista una pena detentiva superiore nel massimo a quattro anni. Anche in relazione al divieto di concessione della libertà provvisoria sorgono dei dubbi di legittimità costituzionale, contrastando con il divieto di restrizione della libertà personale se non nei casi di assoluta pericolosità dell’imputato. “Se potrebbe forse anche essere accettata una normativa che si limitasse a prescrivere inderogabilmente la cattura di chi è imputato di un delitto commesso per finalità di terrorismo o di eversione (…), viceversa, una disposizione che, come quella qui esaminata riconduce ai medesimi presupposti anche l’impossibilità di concedere la libertà provvisoria, appare ben poco compatibile con la gerarchia dei valori espressa dalla Costituzione12”. Da non tralasciare l’importanza delle eccezioni contenute nel comma 3 dell’art. 8. La prima permette di concedere la libertà provvisoria a chi si trovi “ in condizioni di salute particolarmente gravi, che non consentono le cure necessarie nello stato di detenzione”. L’accertamento di tale status precluderebbe qualunque altra considerazione circa la possibilità di compiere altri reati, ritenendosi che un soggetto così gravemente malato non possa ritenersi pericoloso. Altra eccezione si ha quando sarà possibile l’applicazione di una pena che rientra nei limiti della causa di estinzione della pena.

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L’art. 10 prevede, inoltre, per questi reati, un prolungamento dei termini massimi di custodia preventiva pari ad un terzo rispetto a quelli previsti all’art. 272 c.p.p. “L’art. 10 , nella parte in cui prolunga i termini di carcerazione preventiva per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, si saldi con un regime che già viene a prescrive l’obbligatorietà della cattura per ognuno dei delitti così aggravati” , così facendo si rischia di ampliare oltremodo i termini di custodia preventiva quasi anticipando la sentenza di condanna e dunque mostrano una “burocratica indifferenza per i valori costituzionali”. Procedendosi all’analisi dell’art. 11 del presente decreto, è possibile riscontrare che i termini massimi di custodia di cui tratta l’articolo 10 si applicano anche ai procedimenti in corso al momento dell’entrata in vigore del decreto. Trattandosi di norma non sostanziale ma processuale, troverebbe piena applicazione il principio “tempus regit actum” e dunque la norma sarebbe immediatamente applicabile senza l’osservanza delle regole di garanzia dell’imputato riguardanti la successione nel tempo. Questo sembrerebbe cozzare, con quanto previsto nell’art. 25 comma 2 Cost. in virtù della quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, regola che dovrebbe valere anche per le norme processuali, soprattutto se concernono la libertà personale13.

Fu notevole l’impatto di questa legge sulla lotta al terrorismo e , proprio prendendo atto degli enormi passi avanti fatti in tal senso, il legislatore decise di mettersi nuovamente a lavoro estendendo la possibilità di scelte premiali per chi si fosse ravveduto.

Decisivo passo avanti fu realizzato con la l. 304/1982recante “Misure per la difesa dell'ordinamento costituzionale” e volgarmente chiamata “legge per i pentiti” . Di tale legge si analizzeranno gli articoli più rilevanti :

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- l’art. 3 accentuò maggiormente gli effetti della circostanza attenuante della “collaborazione attiva” prevedendo che la pena dell’ergastolo fosse sostituita con quella della reclusione da 10 a 12 anni e che le altre pene fossero diminuite della metà non potendo, in ogni caso, superare i 10 anni ed infine,nel caso di collaborazione particolarmente rilevante, l’art 3 prevedeva la ulteriore riduzione di un terzo di pena.

- l’art. 2 inserì l’attenuante della dissociazione da applicare a coloro che rendevano piena confessione dei reati commessi e che si adoperavano per eliminare o attenuare le conseguenze dannose del reato o per impedirne la commissione di altri,prima della condanna definitiva.

- l’art. 2 previde che la pena dell’ergastolo fosse sostituita con quella della reclusione da 15 a 20 anni per chi decideva di “dissociarsi” e che le altre pene,sempre in tale evenienza, venissero ridotte di un terzo non potendo comunque superare i 15 anni.

- l’art. 7 consentì ai terroristi pentiti o dissociati di poter usufruire della sospensione condizionale della pena anche oltre i limiti di pena consentiti.

- l’art. 8 consentì ai terroristi in questione,ossia pentiti o dissociati, di poter godere del beneficio della liberazione condizionale a patto di aver già scontato metà della pena inflitta e anche se la rimanente parte di pena da infliggere superasse i 5 anni e il pentito non avesse ancora risarcito il danno14.

- l’art. 9 descriveva l’ipotesi di revoca della misura se il terrorista pentito si fosse macchiato successivamente di altro grave delitto.

14 Uno degli aspetti più criticati della legislazione premiale fu quello di associare la

collaborazione alla immediata scarcerazione. La legge 45/2001 ha reciso in via definitiva questo automatismo.

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- gli artt. 9 e 10 prevedevano la possibilità,su richiesta del procuratore generale presso la Corte di Cassazione o presso la Corte d’Appello competente o su richiesta del Ministro della Giustizia,di revisionare la sentenza o di revocare i benefici concessi con conseguente applicazione di una pena più grave quando si accertava che i predetti benefici erano stati concessi a seguito di dichiarazioni false o reticenti.

- rileva infine l’art. 12, il quale stabiliva come presupposto per l’applicazione delle circostanze attenuanti e degli altri benefici che la collaborazione o la dissociazione giungessero entro un certo periodo di tempo.

La ratio della norma consiste nel fatto che lo Stato intendeva incentivare tutti i possibili fenomeni di effettiva dissociazione all'interno delle organizzazioni operanti nel campo del terrorismo e dell'eversione politica, anche a costo di rinunciare parzialmente all'esercizio del proprio potere punitivo. La voluntas del legislatore era quella "di evitare che il beneficio sia unicamente ricollegato ad un comportamento soggettivo e morale qual è quello che consiste nel rendere dichiarazioni ammissive complete. Per contro, si è voluto ancorare detto beneficio anche ad un elemento oggettivo ed utilitaristico, richiedendo a chi collabora un comportamento che sia anche nei fatti antagonista rispetto all'attività delinquenziale del gruppo cui il reo aveva appartenuto. Così da ottenere, in definitiva, un atteggiamento sintomatico di un autentico ravvedimento"15.

L’ultimo provvedimento destinato ai condannati per fatti di terrorismo fu la L.34/1987 che incise sul concetto di dissociazione, spiegando, all’art. 1, che ci si riferiva a quel comportamento che integrava le seguenti condotte:

- ammissione delle attività effettivamente svolte

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- comportamenti oggettivamente e univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo

- ripudio della violenza come metodo di lotta politica.

Anche la legge n. 34/1987, come la 304/1982, non è più suscettibile di applicazione poiché la sua efficacia è stata circoscritta "ai delitti che sono stati commessi, o la cui permanenza è cessata, entro il 31 dicembre 1983". Questa legge, inoltre, dettò norme di chiusura a favore dei giovani che si erano dissociati dall’associazione criminale terroristica di appartenenza. La norma fu prevista ai fini del loro recupero e del loro reinserimento sociale.

La normativa appena descritta riuscì a far raggiungere importanti traguardi ma,al contempo, fu oggetto di aspre critiche da parte della dottrina la quale lamentava il grado di efficacia di queste previsioni trattandosi di previsioni assolutamente indulgenti nei confronti di chi si era pur sempre macchiato di delitti particolarmente efferati. È possibile notare che i traguardi furono però compensati da “vendette trasversali” nei confronti dei pentiti, tra questi ricordiamo, ad esempio, la vendetta operata nei confronti del fratello di Patrizio Peci16che fu sequestrato, torturato e trucidato in una discarica mentre il tutto veniva filmato dagli aguzzini. Le polemiche si accentuarono allorquando si decise di estendere queste disposizioni all’ambito dei reati di stampo mafioso. Fino a quel momento dunque la normativa premiale non era ancora stata estesa ai delitti commessi dalle organizzazioni criminali di stampo mafioso in quanto forte era il timore che questa estensione potesse risultare funzionale più alla risoluzione dei conflitti interni alle organizzazioni criminali in questione che non alla dissoluzione dei rapporti e dei vincoli di omertà esistenti. Furono il ripetersi di gravissimi fatti di sangue e alcune risultanze processuali a spingere il legislatore ad estendere la normativa premiale anche a tali fattispecie,

16 Ex terrorista italiano appartenente alle Brigate Rosse, tra le quali militava con il

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con la convinzione che,grazie alle collaborazioni “premiate” da benefici penali e penitenziari, potesse reprimersi il fenomeno mafioso. Un impulso importante in tal senso fu dato dal magistrato Giovanni Falcone il quale aveva già da tempo compreso i fattori che avevano portato ad un rigetto nei confronti del fenomeno delle collaborazioni mafiose tra cui la non appropriata professionalità con cui venivano esaminate le dichiarazioni dei pentiti, il senso di ripudio verso i delatori e la tendenza ad un coinvolgimento emozionale. Era solo cogliendo l’aspetto storico di tale scelta collaborativa,ossia l’abbandono della tradizionale omertà mafiosa, che si poteva superare la reazione di iniziale rigetto.

La reazione di rifiuto nei confronti delle collaborazioni mafiose doveva essere superata dalla presa di coscienza dell’importanza del bagaglio informativo dei “pentiti” ai fini della lotta alla criminalità e,in particolare, ai fini della conoscenza degli aspetti interni e organizzativi delle cosche mafiose, presupposto imprescindibile per la loro “distruzione” 17.

Secondo Falcone, inoltre, la scelta collaborativa dei mafiosi comportava come diretta conseguenza una corrispondente scelta coraggiosa da parte dello Stato. Si trattava di una sorta di accordo sinallagmatico basato sul principio del “do ut des”. Il corrispettivo della coraggiosa scelta di collaborare consisteva nell’altrettanto coraggiosa scelta dello Stato di elargire un trattamento penale e penitenziario di favore al “pentito”. In assenza di tali premi nessun esponente di organizzazioni criminali avrebbe mai deciso di collaborare poiché, come affermava lo stesso Falcone, “gli effetti delle

17 In tal senso rilevano le dichiarazioni del primo pentito storico, Tommaso Buscetta,

grazie al quale si ottennero informazioni relative alla struttura interna di Cosa Nostra fino a quel momento inimmaginabili. "Ero entrato e rimango con lo spirito di

quando io ero entrato. Ma dagli anni '70 in poi questa associazione, cosiddetta Cosa Nostra, ha sovvertito l'ideale, poco pulito per la gente che vive dentro alla legge, ma tanto bello per noi che vivevamo in questa associazione, cominciando con delle cose che non erano più consoni all'ideale della Cosa Nostra; con delle violenze che non appartenevano più a quegli ideali. Io non condivido più quella struttura a cui io appartenevo. Quindi non sono un pentito"

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rappresaglie sono immediati”. Gli effetti delle rappresaglie potevano essere scongiurati solo mediante l’introduzione di particolari norme di tutela per sé e per i proprio familiari. La protezione doveva essere disposta da parte di una apposita commissione composta da magistrati del Pubblico Ministero e da membri delle forze dell’ordine . Competente a richiedere il provvedimento era il pubblico ministero ma, nei casi urgenti, le forze dell’ordine o il presidente della commissione potevano applicare misure temporanee. I collaboratori detenuti dovevano,secondo il progetto di Falcone,essere ristretti in apposite strutture penitenziarie ed inoltre egli sollecitava la stipulazione di convenzioni internazionali ai fini del trasferimento all’estero di collaboratori e dei loro familiari. Tale progetto doveva evitare di lasciare scoperti margini di arbitrio che potessero influire sui meccanismi di acquisizione delle prove.

Egli stesso infatti affermò in maniera emblematica: “è accettabile che per la collaborazione prestata, Contorno abbia dovuto perdere trentacinque parenti e Buscetta dieci? Mi auguro che la legge votata il 16 marzo 1991 ponga rimedio alle carenze dello Stato riguardo alla protezione dei pentiti”18.

Il punto più delicato era rappresentato dal valore probatorio da affidare alle dichiarazioni dei c.d. “pentiti”. Falcone escludeva che tali dichiarazioni potessero svolgere il solo ruolo di “spunto di indagine”19 con conseguente inutilizzabilità di queste per la decisione finale, ma escludeva allo stesso modo di poter affidare a queste dichiarazioni un valore probatorio tale da poter utilizzare queste dichiarazioni a seguito di un limitato e superficiale vaglio critico. Anzi, tale vaglio critico ,proprio per il fatto che si trattava di dichiarazioni provenienti da soggetti non disinteressati, doveva essere svolto in maniera assolutamente oculata, saggia e serena.

18G. Falcone, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, 1992, p. 62.

19 Ciò sarebbe risultato in contrasto con il principio del libero convincimento del

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Quello delineato da Giovanni Falcone venne definito “metodo Falcone”, una “filosofia d’indagine” che si basava sull’attenzione esasperata verso i documenti finanziari, emblematiche in tal senso le su parole riferite ai reati di traffico di stupefacenti: “La droga può anche non lasciare tracce, il denaro le lascia sicuramente”.

“le dichiarazioni dei c.d. pentiti, di per sé non indispensabili o decisive,costituiscono … utilissimo e diretto riscontro dei risultati raggiunti per altra via, offrono lo spunto per ulteriori approfondimenti istruttorie, a loro volta,traggono conferma della loro attendibilità proprio dalle altre risultanze probatorie acquisite.”

Questo era il pensiero di Falcone, il quale, propone dunque il ricorso ad un particolare metodo investigativo, conoscitivo e valutativo che voleva che la valutazione si svolgesse con professionalità e attenzione. Egli riteneva che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia potessero avere importante valore probatorio solo alla luce di riscontri esterni20 e che potessero fungere da spunto investigativo per ulteriori indagini.

Si parla di una sorta di “circolarità degli elementi probatori”, circolarità che comporta il dovere di una valutazione che coinvolga gli altri elementi di riscontro21, impedendone una valutazione frantumata. Falcone nulla dice sulla tempistica delle dichiarazioni ma non escludeva che il collaboratore potesse dire tutto ciò di cui era a conoscenza sin dall’inizio.

La stagione dei grandi «pentiti» nell’ambito dei reati di mafia fu inaugurata da Tommaso Buscetta, che il 18 luglio 1984 decise di collaborare con Giovanni Falcone, già impegnato nella colossale istruttoria del Maxiprocesso. Ci vollero 45 giorni affinchè il "boss dei

due mondi", come lo aveva soprannominato la stampa, dichiarasse

20 Ciò è confermato dall’attuale art. 192 co. 3 e co. 4 c.p.p.

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tutto quello che sapeva su Cosa Nostra. Questa testimonianza fu talmente importante, che Falcone, anni dopo, dichiarò:

“Prima di lui, non avevo - non avevamo - che un'idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa Nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare coi gesti”.22

Prima di Tommaso Buscetta, rilevò la figura di Leonardo Vitale. Nato e cresciuto nell’ambiente di Cosa Nostra, dopo anni di “arruolamento”, decise di collaborare con la giustizia presentandosi nella questura di Palermo e autoaccusandosi di due omicidi, un tentato omicidio, estorsione e altri reati minori, spinto da una crisi religiosa e intento ad iniziare una nuova vita. Fece nomi quali quelli di Totò Riina e Vito Ciancimino e addirittura descrisse il rito di iniziazione per accedere a Cosa Nostra. A seguito delle sue dichiarazioni furono arrestate quaranta persone. La peculiarità di questa vicenda consiste nel fatto che il suddetto pentito, dopo essere stato arrestato, fu sottoposto a delle perizie psichiatriche che lo dichiararono seminfermo di mente e affetto da schizofrenia e per questo motivo fu rinchiuso in un manicomio nella provincia di Messina. Quello di Leonardo Vitale fu considerato un autentico pentimento e per questo motivo lo stesso Falcone rese omaggio al suo coraggio e alla sua conversione durante il maxiprocesso di Palermo del 1986.

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1.3 Aspetti critici della premialita’

Il premio conseguente alla collaborazione è uno dei temi su cui la dottrina risulta tendenzialmente omogenea nell’esprimere un giudizio negativo. La premialità processuale si risolverebbe infatti in un’inaccettabile violazione del principio di proporzionalità tra responsabilità personale e gravità del reato, questione (di principio) che però, parte della dottrina ritiene superabile alla luce di obiettivi superiori. La pena può avere infatti uno scopo diverso dalla “sola riaffermazione dei valori violati e dalla compensazione delle colpe, deve essere o deve poter essere disapplicata tutte le volte in cui la sua esecuzione appare inutile rispetto alle finalità dell’intervento” 23. Sarebbe possibile, dunque, bilanciare l’esigenza di punire con obiettivi diversi da quelli tradizionali, e il problema sarebbe, a questo punto, quello di individuare le cause che potrebbero giustificare tale tipo di intervento il quale, in sostanza, si tradurrebbe in una rinuncia alla risposta sanzionatoria.

Altro rischio consiste nella strumentalizzazione di alcuni istituti prettamente difensivi quali l’esame dell’imputato o l’interrogatorio i quali,essendo luoghi privilegiati ai fini della confessione o della chiamata di correo, verrebbero sollecitati anche a rischio di snaturarli. Il vero problema della premialità processuale sarebbe,però, quello di condizionare il comportamento processuale dell’imputato al quale viene promessa un’attenuante o addirittura l’impunità. Il premio per la collaborazione mal si concilia con il diritto al silenzio riconosciuto al soggetto sottoposto alle indagini. In passato, infatti, la confessione si estorceva con la tortura, ora , con la promessa di compensi allettanti24. Le lusinghe degli inquirenti potrebbero essere tali da influire sulla

23 C. Ruga Riva,Il premio per la collaborazione processuale, cit. , p. 364.

24T. Padovani, La soave inquisizione:osservazioni e rilievi a proposito delle nuove

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libertà di autodeterminazione25. Si ricordi come l’art 64 co. 2 c.p.p. escluda, in sede di interrogatorio, il ricorso a metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione e come l’eventuale consenso del soggetto in questione risulterebbe assolutamente irrilevante.

Il problema si pone non tanto nei confronti di chi, liberamente, decida di collaborare, bensì nei confronti di chi non maturi tale scelta. Egli si troverebbe pregiudicato poiché ad una attenuazione della pena per chi scelga di collaborare si contrapporrebbe un trattamento diametralmente opposto (ossia un inasprimento della pena) per chi eserciti il sacrosanto diritto al silenzio. Tale inasprimento e tale attenuazione sarebbero legittimati dall’art 133 co. 2 c.p. in virtù del quale il comportamento del reo può fungere da parametro ai fini della quantificazione della pena da applicare. Il solo silenzio dunque potrebbe legittimare l’applicazione della misura cautelare nonostante il legislatore escluda che l’esistenza dell’esigenza cautelare possa essere dedotta dal rifiuto opposto dalla persona sottoposta alle indagini o dall’imputato di rendere dichiarazioni.

Ulteriore critica al meccanismo premiale consiste nel fatto che esso sembrerebbe deformare il ruolo del giudice. Egli, infatti, perderebbe la sua imparzialità sia assecondando che opponendosi alla strategia del pubblico ministero.

Pare che con queste contraddizioni si debba continuare a convivere data la tendenza del legislatore non solo a mantenere ma addirittura ad incrementare le ipotesi di premialità processuale all’interno del nostro ordinamento. 26

25“Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interrogata,

metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti.” Art. 64 c. 2 c.p.p.

26 R.A Ruggiero, L’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nella

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1.4 Perfezionamento della legislazione premiale e

applicazione della disciplina ai reati di stampo

mafioso

Verso la fine degli anni 80, a seguito di clamorosi fatti di sangue, furono redatti i primi occasionali testi di legge che sollecitavano la collaborazione e che prevedevano prime arcaiche forme di tutela e di protezione. Tra questi meritano di essere ricordati:

- Art. 1 quinquies commi 2 e 6 D.L 6/9/1982 n. 629 introdotto dall’art 2 L. 15/11/1988 n. 486. Esso riconosceva il potere di visita degli istituti penitenziari, il potere di convocazione e la facoltà di procedere a colloqui personali con detenuti e internati27 all’alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa. L’ufficio in questione fu introdotta a seguito della strage di via Carini a Palermo ,in cui persero la vita il generale Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’ agente di scorta Donato Russo.

- Art. 1 c. 3 D.L 629/1982. Esso assicurava la tutela dell’incolumità fisica ai collaboratori di giustizia e ai loro congiunti quando si fossero trovati in una situazione di “grave pericolo per effetto della collaborazione nella lotta contro la Mafia o per precedenti dichiarazioni rese nel corso di indagini di polizia o di procedimenti penali,riguardanti fatti riferibili a organizzazioni e attività criminose di stampo mafioso”. Tale tutela veniva assicurata attraverso l’adozione di misure di protezione.

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Solo nel quadriennio 1990-1994 il legislatore si propose di mettere a punto una prima normativa completa in materia di collaborazione processuale inerente i reati di criminalità organizzata che tenesse conto delle lacune delle precedenti normative in materia terroristica nonché dei problemi connessi alla gestione dei pentiti e alla attendibilità delle loro dichiarazioni. Si imponeva infatti la necessità di arricchire il quadro normativo esistente con delle nuove norme capaci di creare un sistema di protezione dei collaboratori e dei loro familiari organico ed efficiente in alternativa al vecchio sistema basato sull’iniziativa dell’Alto Commissario.

Ci riferiamo alle previsioni contenute nel D.L 15/1/1991 n.8 avente ad oggetto “nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia”. Tale decreto, dal punto di vista soggettivo, si estende agli imputati o condannati ex art. 380 c.p.p. 28 che abbiano reso dichiarazioni o che abbiano collaborato. Nei confronti di tali soggetti si potevano adottare misure ordinarie oppure uno speciale programma di protezione e la competenza spettava ad una apposita Commissione centrale di protezione istituita presso il Ministero dell’Interno. Quest’ultimo soggetto,inoltre,avrebbe potuto autorizzare , di concerto con il Ministro della Giustizia, il cambio di generalità dei soggetti sottoposti a protezione. Infine, le misure di protezione sarebbero state attuate dal servizio centrale di protezione.

Il D.L n. 152/1991convertito in L.12 luglio 1991 n. 203 sancì la comparsa in sede esecutiva del collaboratore di giustizia introducendo attenuanti per chi si fosse dissociato dalle organizzazioni mafiose. Per l’imputato di stampo mafioso che adottava comportamenti collaborativi aiutando concretamente la polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per l’individuazione e la cattura dei rei,erano delineati, così come già previsto per i terroristi, particolari

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attenuanti che sostituivano l’ergastolo con la reclusione da dodici a venti anni e che riducevano la pena da un terzo alla metà. Al contempo, per chi rilasciava dichiarazioni false o reticenti era prevista la revoca dei benefici concessi e la facoltà di sospensione delle misure alternative alla detenzione previamente riconosciute al collaboratore. Un accenno merita anche il D.L n. 306/1992 convertito in Legge 356/1992. Esso introdusse norme integrative con riferimento ai programmi di protezione e alla concessione di benefici penitenziari. Prevedeva, in particolare, per i detenuti di grande criminalità che si presumeva intrattenessero rapporti con i complici ancora in libertà, un trattamento penitenziario particolarmente rigoroso con conseguente facoltà di sospensione delle ordinarie regole di trattamento 29. Vietò la concessione di benefici ai detenuti per fatti di mafia o di grande criminalità che non prestavano collaborazione 30e, al contrario, ampliò i benefici penitenziari a favore di coloro che si trovavano sottoposti a programma di collaborazione in virtù della collaborazione prestata. Tali benefici potevano essere concessi anche in deroga ai limiti temporali previsti ordinariamente e tra questi benefici compariva anche la riammissione in libertà. 31 Fra le principali novità vi fu la possibilità,per il personale di polizia giudiziaria e per il procuratore nazionale antimafia,di intrattenere colloqui investigativi riservati con il detenuto collaboratore ai fini della acquisizione di notizie utili 32.

1.5 I momenti della disciplina

“Per collaboratore di giustizia si intende solitamente chi, dopo aver fatto parte di una organizzazione criminale, decide di dissociarsene e di

29 art. 19 D.L 306/1992 che ha introdotto l’attuale art. 41 bis legge 354/1975. 30art. 4bis legge 354/1975.

31vedi art 13 in rel. Artt. 13 bis e 13 ter D.L. 8/1991. 32vedi art. 16 in rel. Art. 18bis L. 354/1975.

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“collaborare” con l’Autorità Giudiziaria o di polizia fornendo a essa notizie sulla struttura e sui reati riferibili alla organizzazione stessa o a organizzazioni dello stesso tipo ”33. Le informazioni possedute dal collaboratore sono informazioni essenziali ai fini della frantumazione del gruppo criminale in quanto provenienti da chi,a quel gruppo criminale, ha preso parte.

Di lì la necessità di introdurre nel nostro ordinamento quello che è stato definito come ”regime del doppio binario” . Si tratta di un regime che descrive un atteggiamento differente fra collaboratori e i c.d. “irriducibili”, così definiti poiché perseveravano nelle condotte riconducibili alle organizzazioni di appartenenza.

I momenti della disciplina premiale sono quattro. Rileva , innanzitutto, il momento sanzionatorio, ossia il momento caratterizzato da promessa di consistenti diminuzioni di pena per chi collabora e si dissocia dalle organizzazioni di appartenenza. Per conseguire la finalità di disgregazione è, inoltre, richiesta anche la promessa di benefici penitenziari quali la imminente uscita dall’istituto carcerario con conseguente speranza di reinserimento sociale del “pentito”. Solo a tali condizioni il reo sarà indotto a rendere dichiarazioni accusatorie verso i correi, a maggior ragione se si tratta di condannato a pena definitiva. Collaborare significa esporre a rischi sé e la propria famiglia a causa delle forti reazioni che potrebbero provenire dalle organizzazioni di appartenenza. Per tale motivo il legislatore non può limitarsi a descrivere il solo momento penale e penitenziario, dovendo necessariamente prevedere anche un adeguato sistema di protezione dalle “vendette trasversali” o dirette degli attuali membri delle organizzazioni criminali. E’ questo il cosiddetto momento tutorio. La quadratura del cerchio si può avere solo con un doveroso riferimento al momento processuale. Trattandosi di dichiarazioni non disinteressate sarà necessaria una valutazione premurosa della loro

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attendibilità e genuinità. Saranno essenziali a tal fine norme processuali speciali che descrivano modi di acquisizione, utilizzazione e valutazione delle dichiarazioni accusatorie.

Riguardo al primo dei citati momenti, ossia quello sanzionatorio, il codice penale e le leggi speciali prevedono aggravamenti o diminuzioni di pena a seconda della condotta collaborativa o meno dell’autore del fatto criminoso. Gli aggravamenti si possono ottenere mediante l’introduzione di circostanze speciali e ad effetto speciale e mediante la tipizzazione di autonome fattispecie criminali. Le circostanze speciali e ad effetto speciale sono previste: a)per i reati di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale e consistono in un aumento della pena pari alla metà34; b)per i delitti previsti ex art. 416 bis c.p. ossia commessi avvalendosi delle condizioni intimidatrici da parte delle organizzazioni mafiose o al fine di agevolare le stesse, ed in tali casi è previsto l’aumento da un terzo alla metà 35 ;c) per i reati commessi per fini discriminatori o di odio razziale, religioso o etnico o per agevolare altre organizzazioni che perseguono questo scopo, ed in quest’ultimo caso è previsto un aumento di pena fino alla metà36. La peculiarità consiste nel fatto che, in presenza di tali circostanze, si applicherà l’art 69 c.p. in virtù del quale è posto il divieto di comparazione tra circostanze aggravanti e attenuanti.

Passando alle autonome ipotesi di reato, esse sono caratterizzate da un innalzamento del quantum di pena edittale rispetto alla sanzione prevista per il medesimo reato che si realizzi “ordinariamente” ossia senza la presenza di quello specifico movente. Si pensi all’art. 289 bis c.p. e all’art. 630 bis c.p. relativi ai reati di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, di rapina o di estorsione, si pensi, ancora, al reato di attentato a scopo terroristico o eversivo.

34 Vedi art 1 D.L 15/12/1979 N. 625 conv. Nella l. 1980 n. 15. 35 Vedi art. 7 D.L 152/1991 conv in l. 203/1991.

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In tali casi, per il solo fine che le caratterizza,tali fattispecie si distinguono dalla associazione per delinquere ordinaria e meritano un trattamento penale più rigoroso.

Un trattamento meno severo rispetto a quello ordinario meritano, invece, gli autori dei reati di terrorismo, sequestro di persona, mafia, contrabbando e traffico di stupefacenti che si dissocino e decidano di collaborare con le Autorità competenti. A favore di tali soggetti sono previste circostanze attenuanti che comportano rilevanti diminuzioni di pena. Presupposto ai fini dell’applicazione di tali attenuanti è l’aver tenuto una condotta collaborativa37.

Gli sconti di pena non sembrarono, da soli, in grado di promuovere la collaborazione e quasi obbligato fu dunque il passaggio al secondo momento, quello penitenziario. Punto di riferimento essenziale sarà la L. 354/1975 che, all’art. 4 bis, prevede restrizioni per chi continua a mantenere il vincolo di omertà e benefici per l’imputato o l’internato che tiene condotte collaborative. Le restrizioni consistono nell’impossibilità di beneficiare dei permessi-premio, dell’ assegnazione del lavoro all’esterno e delle misure alternative alla detenzione e nella sottoposizione al regime del 41 bis previsto dalla legge n. 354/1975 recante “divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti”. Il divieto riguardava i condannati e gli internati per delitti di stampo mafioso 38e i condannati e internati per qualunque delitto doloso ancora in collegamento con la realtà criminale mafiosa ed infine i condannati e internati per delitti di grande criminalità non

37L. D’Ambrosio, Testimoni e collaboratori di giustizia, cit., pp. 30-31. 38 Per delitti di tipo mafioso(art. 51 co. 3 bis c.p.p.) si intendono i delitti di

associazione di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.), di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.), di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (art. 74 t.u. approvato con D.P.R. 9/10/1990, n. 309) o al contrabbando (art. 291 quater D.P.R. 23/1/1973 n. 43) nonché tutti i “delitti commessi avvalendosi delle condizioni” intimidatrici discendenti da associazioni di tipo mafioso ovvero commessi “al fine di agevolare l’attività delle medesime associazioni” (art. 7 D.L 13/5/1991 n. 152, conv. Con modif. in L 12/7/1991 n. 203).

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mafiosa39 nei confronti dei quali fosse stata accertata la pericolosità sociale.

Inoltre, l’art 275co. 3 c.p.p. vieta di disporre di “misure cautelari diverse dalla custodia in carcere per gli imputati di delitti di tipo mafioso” e per gli imputati per fatti di grande criminalità che risultino in contatto con i complici ancora liberi.

Contrariamente, per coloro che manifestavano la volontà di collaborare ,era prevista la custodia in locali differenziati, la revoca della custodia in carcere e la sua eventuale sostituzione con un’altra misura meno afflittiva. Da non tralasciare, inoltre, l’importanza assunta dall’art. 41 bis L. 354/1975 il quale, al suo secondo comma, prevede la possibilità di sospensione del trattamento penitenziario nei confronti del detenuto per reati di criminalità organizzata nei cui confronti sia stato accertato un attuale collegamento con la associazione criminale di appartenenza e fino a che tale collegamento non sia reciso in maniera definitiva. Attraverso questo isolamento forzato il detenuto si troverà nell’impossibilità di esercitare il suo potere al di fuori del carcere e sarà indotto a collaborare con la Giustizia. Tale misura potrà essere adottata senza mai vanificare la finalità rieducativa della pena ed il senso di umanità40. Del momento processuale e tutorio si tratterà nei prossimi capitoli.

39 Per delitti di grande criminalità si intendono i delitti per finalità di terrorismo o di

eversione (art. 1 D.L 15/12/1979 n. 625, con. Con modif. nella L. 6/2/1980 n. 15)i delitti di omicidio volontario (art. 575 c.p.) ,rapina ed estorsione aggravata (artt. 603 co. 3 e 629 co. 2 c.p.)i delitti di produzione o traffico illecito di ingenti quantità di droga (artt. 73 e 80 co. 2 t.u. cit.) ,delitti contro la libertà sessuale e la libertà individuale (artt. Da 609 bis a 609 octies c.p.; da 600 a 602 c.p.)

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1.6 Critiche al sistema normativo delineatosi e obiettivi

di riforma:dal D.L 8/1991 alla L. 45/2001

Grazie al sistema normativo di cui si è parlato in precedenza è stato possibile conseguire risultati importanti nella lotta al crimine organizzato nell’assoluta garanzia della incolumità dei collaboratori. Il contesto in cui tale sistema normativo operò fu un contesto particolare trattandosi di un periodo in cui gli inquirenti erano “disposti a tutto” pur di ottenere informazioni utili ai fini della conoscenza interna e organizzativa delle associazioni criminali e ciò portò alla naturale conseguenza per cui non tutte le regole vennero applicate in maniera corretta. Da lì l’esigenza di superare tale stato definito “emergenziale” 41e di un lavoro di riforma idoneo a perseguire obiettivi tra i quali, più importante, quello di “separare i profili tutori della collaborazione e gli aspetti premiali”. In sostanza, fino a quel momento si subordinava la concessione delle misure penitenziarie alternative esclusivamente alla titolarità dello speciale programma di protezione e ciò aveva “determinato una netta impennata del ricorso a tale forma di tutela straordinaria non sempre corrispondente alle effettive misure di sicurezza”42.

In sostanza, chi voleva godere del beneficio penitenziario doveva necessariamente risultare già titolare dello speciale programma di protezione il quale, così facendo, perse il carattere di specialità e divenne prassi ordinaria. Prassi che comportò un appesantimento del sistema ed un conseguente problema di gestione dei collaboratori. A tale sovraccarico si volle far fronte con una nuova riforma il cui intento era quello di ricorrere allo speciale programma di protezione solo quando la collaborazione avesse assunto uno “spessore” tale da mettere in condizioni di totale pericolo il dichiarante,ricorrendo, in tutti gli altri casi, in cui il rischio era inferiore, alle misure ordinarie di

41 E’ il periodo immediatamente successivo alle stragi di Capaci e di via D’Amelio 42 L. D’Ambrosio,Testimoni e collaboratori di giustizia, cit. , p. 64.

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protezione e, così facendo, svincolando l’attività giurisdizionale dall’ottenimento di un mero atto amministrativo.

Altra esigenza era quella di “disciplinare in maniera certa e dettagliata la fuoriuscita del collaboratore dal sistema di protezione” a seguito di eventuali violazioni di obblighi comportamentali, tematica non affrontata in modo adeguato nella precedente normativa.

Per far fronte a queste esigenze, nel marzo 1997 venne elaborato un disegno di legge governativo accompagnato da una Relazione nella quale si leggeva che, assodata l’importanza processuale dei collaboratori di giustizia, il sistema di protezione rischiava di non poter sopportare il peso della loro consistenza numerica e si proponeva di modificare le modalità di accesso ai programmi di protezione . Il disegno di legge era intitolato “modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia”. Esso fu presentato l’ 11/3/1997 dagli allora ministri Napolitano e Flick,rispettivamente Ministro dell’interno e della Giustizia, fu approvato dalla Camera con modifiche il 23 gennaio 2001,fu definitivamente approvato in Senato il 7 Febbraio 2001 e pubblicato in gazzetta ufficiale il 13febbraio 2001 come legge numero 45.

Gli intenti espliciti della legge erano tre:

1) impedire le c.d. “dichiarazioni a rate” del pentito.

2) Abolire l’impunità totale e prevedere un congruo periodo di detenzione per il collaboratore mafioso.

3) Consentire la confisca e il sequestro dei beni acquisiti illecitamente dal pentito.

Esso si proponeva di selezionare in maniera rigorosa le collaborazioni, sia nella fase di accesso alla protezione che nella fase di verifica. Ai

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sensi del disegno di legge in questione le misure di protezione e i benefici penitenziari si potevano applicare solo quando i contributi collaborativi fossero risultati “indispensabili”, “tempestivi” e “genuini” e avessero riguardato delitti di mafia o di terrorismo. Inoltre, l'indispensabilità della collaborazione veniva individuata sulla base della ampiezza, della originalità, della attendibilità e della novità delle dichiarazioni. Parte della dottrina critica il requisito della novità poiché tale requisito sembra sminuire la rilevanza che certe dichiarazioni assumono se rese nella fase del giudizio. Per poter parlare di parlare di dichiarazioni genuine, il collaboratore, al momento della deposizione, doveva trovarsi in stato di detenzione presso apposite sezioni dell’istituto penitenziario così da rendere impossibile una eventuale attività di concertazione. Inoltre, al fine della tempestività, il collaboratore avrebbe dovuto redigere entro 6 mesi un “verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione “. Era scontato che il collaboratore di giustizia,durante il periodo di godimento del programma speciale di protezione, avrebbe potuto porre in essere condotte tali da mettere in discussione il grado di meritorietà della misura adottata nei suoi confronti. Si pensi ad esempio al reinserimento del collaboratore di giustizia nel circuito criminale,alla sua rinuncia alla protezione o al sottrarsi in maniera volontaria al contraddittorio processuale .Si prevedeva che, in tali situazioni,le misure speciali di protezione potessero essere revocate nonché modificate a seguito della modifica del rischio corso. Il progetto di legge governativo “inaugurava” una figura nuova, quella del testimone di giustizia ossia colui il quale in adempimento di un dovere civico ed indipendentemente dalla partecipazione alla organizzazione criminale, anzi essendo spesso vittima del sistema criminale in questione, metteva a disposizione delle Autorità giudiziarie o di polizia tutto il suo sapere ai fini della individuazione dei rei e dello smantellamento del sistema

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