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Le conseguenze economiche di un’uscita dall’euro: l’impatto ambiguo della svalutazione

Come si accennava al termine del paragrafo precedente, la seconda parte dell’elaborato è interamente dedicata all’analisi delle conseguenze economiche di un’uscita dalla moneta unica. È bene precisare che le considerazioni che seguono sono modellate sull’ipotetico caso dell’Italia. Con le dovute accortezze, è possibile estendere tali considerazioni anche all’ipotetico caso di uscita di altri paesi periferici, come la Grecia, la Spagna, il Portogallo o l’Irlanda; non è, invece, possibile fare altrettanto con riferimento all’ipotesi di uscita di un paese centrale, come la Germania, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo o i paesi scandinavi. Come si accennava precedentemente, infatti, quest’ultima, oltre a richiedere considerazioni economiche diverse, comporterebbe con tutta probabilità l’uscita degli altri SM centrali: è evidente che gli effetti economici, in tale scenario, sarebbero ben diversi340.

Il presente paragrafo descriverà, innanzitutto, le conseguenze economiche di un’uscita temporanea dalla moneta unica. Questo, infatti, sembra uno scenario più realistico e più vantaggioso rispetto all’uscita permanente. Più realistico perché, come si è visto nei §§ 3.1 e 3.2, l’uscita permanente è una soluzione drastica, di difficile gestione e dalle conseguenze in gran parte imprevedibili a cui non necessariamente uno Stato che desideri lasciare l’euro intende ricorrere. Più vantaggioso perché, in linea di principio, un’uscita temporanea consentirebbe ad uno Stato di riappropriarsi temporaneamente della politica monetaria per realizzare gli aggiustamenti necessari a rilanciare la propria economia, da ricollocare poi all’interno dell’unione monetaria341. Ciò che emergerà al termine dell’analisi, tuttavia, è che tale scenario condurrebbe, dal punto di

vista economico, a un risultato non dissimile da quello che si verificherebbe in caso di uscita permanente e che si è ricostruito per sommi capi nel § 3.1. Ciò accadrebbe principalmente a causa di tre elementi: l’impatto ambiguo della svalutazione competitiva nell’era della globalizzazione, la difficile gestione dei debiti pregressi dello Stato uscente in un contesto di forte e continua svalutazione della valuta e gli effetti sul settore bancario.

340 Messori (2014), p. 1. 341 Ivi, p. 2.

87 L’esposizione seguirà tale logica, cercando di ricostruire il più possibile la catena degli eventi in ordine cronologico.

Il punto di partenza del ragionamento è un’assunzione: si ipotizzerà, cioè, che l’Italia riesca a negoziare con i partners europei un time-out dalla moneta unica, finalizzato a un successivo rientro nell’UEM in una posizione di maggiore forza economica. In assenza di precedenti, è difficile prevedere quanto a lungo potrebbe protrarsi tale sospensione: potrebbe durare cinque anni, come si era suggerito per la Grecia nel 2015, o, più in generale, il tempo necessario a realizzare gli aggiustamenti macroeconomici. In ogni caso, la durata dovrebbe essere oggetto di accordo tra Roma e Bruxelles.

Una volta stabilito di intraprendere tale percorso, il primo passo che l’Italia dovrebbe compiere sarebbe la reintroduzione della lira o, comunque, di una valuta diversa dall’euro, che la accompagnerebbe durante questo

time-out: in letteratura342, si è fatto riferimento ad essa come “euro-lira”. La prima conseguenza sarebbe

l’immediata svalutazione – o deprezzamento – della nuova lira rispetto all’euro. Svalutazione e deprezzamento conducono al medesimo risultato, dal punto di vista economico, vale a dire la perdita di valore di una valuta rispetto ad un’altra. Tuttavia, convenzionalmente, si ricorre al termine svalutazione quando tale perdita di valore è stabilita dalle autorità monetarie nazionali in un regime di cambi fissi; si ricorre, invece, al termine deprezzamento quando la perdita di valore è il risultato di dinamiche di domanda e offerta di mercato in un regime di cambi flessibili. Nel caso in oggetto, la perdita di valore della nuova lira rispetto all’euro sarebbe inevitabile: infatti, la Banca d’Italia dovrebbe immettere lire nel sistema economico. Ma, come per tutti gli altri beni, maggiore è la quantità di valuta in circolazione, minore è il suo valore in termini reali. Peraltro, nello scenario in esame, la convinzione degli operatori economici circa il minor valore della nuova lira rispetto all’euro si autoavvererebbe: infatti, la domanda di lire sul mercato valutario sarebbe relativamente inferiore, rispetto alla domanda di euro, e ciò aggraverebbe la dinamica svalutativa, causando il rischio di una vera e propria crisi valutaria.

La svalutazione determinerebbe tre principali conseguenze: un probabile aumento delle esportazioni, un probabile aumento dell’inflazione e una probabile fuga di capitali.

Il probabile aumento delle esportazioni è l’argomento di punta dei sostenitori di un’uscita dall’euro. Il ragionamento è il seguente: la svalutazione della lira rispetto all’euro renderebbe i beni denominati in lira relativamente più economici rispetto a quelli denominati in euro. Per l’Europa, quindi, acquistare i beni italiani sarebbe più conveniente con la conseguenza che la domanda di beni italiani aumenterebbe. Per l’Italia, ciò significherebbe un aumento delle esportazioni. Non a caso, tale strategia viene chiamata “svalutazione competitiva” ed è stata attuata dall’Italia per molti anni sino all’ingresso nella moneta unica343.

Il problema è che, nell’epoca della globalizzazione, il ricorso a tale strategia rischia di essere illusorio: infatti, grazie anche all’abbattimento dei costi e dei tempi di trasporto, la produzione mondiale attuale si centra

342 Ibidem.

88 sulle cd. global value chains (lett. “catene globali del valore”)344. Trattasi di vere e proprie catene produttive, nell’ambito delle quali le varie fasi produttive e distributive del prodotto finito non si concentrano in un unico paese, ma sono dislocate nei paesi più disparati, in base a fattori quali la convenienza economica, la disponibilità di tecnologia o l’accesso a manodopera qualificata.

Ciò detto, è evidente che la svalutazione impatterebbe in modo diverso sulla domanda di beni a seconda della loro natura: essa, infatti, aumenterebbe presumibilmente la domanda estera di beni finiti ma lascerebbe pressochè invariata quella di beni intermedi. La rielaborazione di un esempio proposto dal paper di Tortuga345 chiarirà l’affermazione. Tale rielaborazione si fonda su due scenari: il primo è quello di un’Italia che produce freni di automobili (dunque, beni intermedi) e li esporta in Germania la quale, poi, a sua volta, esporta auomobili (dunque, beni finiti) negli Stati Uniti; il secondo è quello di un’Italia che produce automobili e le esporta direttamente in Germania.

Quale sarebbe l’impatto della svalutazione nei due scenari? Nel primo scenario, è plausibile aspettarsi che una svalutazione della lira non avrebbe alcun impatto sulla domanda americana di auto tedesche, né, dunque, sulla domanda tedesca di freni italiani: semplicemente, ridurrebbe il costo di produzione per le imprese tedesche. Nel secondo scenario, invece, è plausibile aspettarsi che una svalutazione della lira aumenterebbe la domanda tedesca di auto italiane. Anche questa conclusione, tuttavia, non è scontata: infatti, se per produrre automobili le imprese italiane importassero freni dall’estero, questi ultimi, a causa della svalutazione della lira, sarebbero relativamente più costosi. Per dirla meglio, gli input importati, cioè beni quali, ad esempio, le materie prime, che sono ordinariamente inglobati all’interno del circuito produttivo nazionale, sarebbero relativamente più costosi. Insomma, una svalutazione non impatterebbe sulle esportazioni di beni intermedi mentre avrebbe l’effetto di aumentare le esportazioni di prodotti finiti nonché il prezzo relativo dei beni intermedi inglobati nei processi produttivi.

Questa considerazione conduce alla seconda delle conseguenze della svalutazione indicate poc’anzi, cioè l’aumento dell’inflazione346. Per inflazione si intende l’aumento prolungato del livello medio generale dei

prezzi di beni e servizi in un determinato periodo di tempo. Essa genera, pertanto, una perdita di potere di acquisto – cioè, di valore – della moneta. Laddove la svalutazione è stata definita come la perdita di valore di una valuta rispetto ad altre valute, un qualche nesso tra le due comincia intuitivamente ad emergere. È bene, tuttavia, esplicitarlo: si è detto che, in seguito ad una svalutazione della lira, il prezzo dei beni importati in Italia sarebbe relativamente maggiore. Questo, se, da una parte, deprimerebbe l’acquisto di merci importate, con conseguenze positive sulla bilancia commerciale nazionale, dall’altra, renderebbe gli input importati relativamente più costosi, agli occhi delle imprese nazionali347. Ciò costituirebbe un problema per l’Italia che è un paese principalmente trasformatore, che cioè elabora materie prime o semi-lavorati provenienti

344 Ivi, p. 16; Messori (2014), p. 4. 345 Tortuga (2019), p. 17.

346 Ivi, pp. 28-29.

89 dall’estero348: infatti, le imprese italiane che operano nel mercato nazionale ma che comprano input sui mercati

esteri avrebbero entrate denominate principalmente in lira, dovendo però comprare input dall’estero in euro. Tali imprese avrebbero dinanzi a sé due alternative: accontentarsi di input più economici e, quindi, di minore qualità, con il rischio di essere marginalizzate nelle catene produttive349, oppure “scaricare” l’aumento dei costi di produzione sul prezzo dei beni finiti. In tal caso, il livello medio generale dei prezzi di beni e servizi sul mercato nazionale – cioè, l’inflazione – verosimilmente aumenterebbe. Vero è che, viceversa, le imprese che operano sul mercato estero, acquistando input sul mercato nazionale, risulterebbero avvantaggiate: ma è improbabile che ciò possa compensare gli svantaggi subiti dall’economia nazionale complessivamente intesa.

Dunque, riassumendo quanto detto sinora, la svalutazione della nuova lira rispetto all’euro aumenterebbe le esportazioni di prodotti finiti, non impatterebbe sulle esportazioni di beni intermedi, deprimerebbe le importazioni e, rendendo relativamente più costosi gli input inglobati nei processi produttivi nazionali, aumenterebbe l’inflazione. L’aumento dell’inflazione, peraltro, avrebbe due conseguenze. In primo luogo, determinerebbe un aumento delle diseguaglianze a livello nazionale350: l’inflazione, infatti, colpirebbe innanzitutto i detentori di ricchezza, che vedrebbero eroso il valore dei propri contanti e depositi, e poi i percettori di reddito. Questi ultimi, a loro volta, non sarebbero colpiti nella stessa misura: infatti, i più colpiti sarebbero i percettori di redditi espressi in termini nominali e non protetti da meccanismi di indicizzazione. In secondo luogo, l’aumento dell’inflazione determinerebbe un aumento del valore del PIL in termini nominali con la conseguenza che, a parità di altre condizioni, il rapporto debito pubblico/PIL diminuirebbe351. In realtà, l’impatto dell’uscita dall’euro sul debito pubblico sarebbe ben più complesso, ragion per cui sarà esaminato in modo dettagliato nel § 3.5.

La terza e ultima conseguenza della svalutazione sarebbe, infine, il probabile verificarsi di una fuga di capitali: infatti, gli investitori, aspettandosi una imminente ridenominazione delle attività nella lira deprezzata, comincerebbero a disfarsi di quelle in loro possesso, determinandone un crollo del prezzo352. In tale contesto, la difficoltà principale per le autorità e per le imprese italiane sarebbe la gestione del debito pregresso in un contesto caratterizzato da continue svalutazioni della nuova valuta. Tale affermazione merita un approfondimento che sarà sviluppato nel paragrafo seguente.

348 Ivi, p. 72. 349 Messori (2014), p. 5. 350 Tortuga (2019), pp. 34-37. 351 Ivi, p. 30. 352 Ivi, p. 10.

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