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Le conseguenze economiche di un’uscita dall’euro: svalutazione e gestione dei debiti pregressi

Per comprendere l’ultima affermazione formulata, è bene tenere a mente un punto: l’uscita dell’Italia dalla moneta unica non cancellerebbe automaticamente il debito pubblico e privato accumulato fino a quel momento. Com’è noto, per debito pubblico si intende il debito maturato dallo Stato nei confronti di creditori individuali, imprenditoriali, bancari o statali, sia nazionali sia esteri: dati Eurostat353 indicano che, nel 2018, il debito pubblico italiano si è attestato attorno al 132,2% del PIL, una percentuale in aumento rispetto a quella del 131,4% riferita al 2017. Per debito privato, invece, si intende il debito maturato da famiglie e imprese: dati recenti diffusi dall’agenzia di rating statunitense Standard & Poor’s354 indicano che il debito accumulato dalle

società non finanziarie italiane nel 2018 si è attestato attorno al 71% del PIL, contro la media del 90% delle economie sviluppate.

In seguito all’uscita dall’euro e all’avvenuta reintroduzione della lira, lo Stato e le imprese italiane dovrebbero quindi decidere come gestire tale stock di debito pregresso. Le alternative a loro disposizione sarebbero due355: la prima è rimborsare l’intero ammontare di debito nella valuta in cui è stato contratto, nel caso in esame in euro; la seconda è dichiararsi insolventi e negoziare con i creditori una ristrutturazione del debito pregresso nella nuova lira.

Per evitare contrasti con i creditori, lo Stato e le imprese italiane potrebbero pensare, in un primo momento, di intraprendere la prima strada, cioè la restituzione del debito in euro. Questa strada, tuttavia, sarebbe particolarmente faticosa: infatti, a causa della svalutazione della nuova lira, il debito in euro sarebbe relativamente più costoso per i debitori italiani rispetto a quello che era precedentemente. In altre parole, all’aumentare della svalutazione della nuova lira, aumenterebbe anche l’onere del servizio del debito perché i debitori italiani dovrebbero impegnare una quantità di lire crescente per procurarsi la somma di euro necessaria a onorare il debito.

La problematicità di questo meccanismo emerge in modo evidente con riferimento all’ipotetico caso di un’impresa italiana non finanziaria operante sul mercato nazionale: quest’ultima, infatti, dovrebbe ripagare eventuali debiti pregressi in euro a fronte di entrate in lire svalutate. Non solo: qualora, come è probabile, tale impresa si servisse di input importati dall’estero, sarebbe costretta a sostenerne il costo in euro. Allo stesso tempo, operando sul mercato nazionale, non beneficerebbe dei vantaggi derivanti da un aumento delle esportazioni. Ne consegue che tale impresa sarebbe in difficoltà tali da rischiare il fallimento.

In breve, per ripagare tutto il debito in euro occorrerebbe accrescere le entrate. Ma, per accrescere le entrate, occorre accrescere la domanda aggregata356, cioè la spesa in consumi e investimenti fatta dalle famiglie, dalle imprese e dal settore pubblico. In particolare, la domanda aggregata è la somma della spesa privata in consumi

353 Qui citati da Redazione ANSA (2019). Eurostat, debito 2018 sale a 132,2%, deficit giù a 2,1%. ANSA, 23 aprile 2019.

354 E qui citati da Caparello (2019). S&P: in Italia debito privato di famiglie e imprese ai minimi. Wall Street Italia, 15 marzo 2019. 355 Messori (2014), p. 4.

91 e investimenti, della spesa pubblica e delle esportazioni, al netto della spesa per importazioni. Dunque, per aumentare la domanda aggregata occorre accrescere queste componenti: in altre parole, stimolare consumi e spesa pubblica. Stimolare i consumi in un contesto di stagnazione economica com’è quello che ha caratterizzato l’Italia dall’inizio degli anni Duemila potrebbe rivelarsi un’impresa non semplice: infatti, per indurre le famiglie italiane ad aumentare la spesa privata, sarebbe necessario un aumento dei salari. Tuttavia, un aumento dei salari determinerebbe, con tutta probabilità, un aumento del livello medio generale dei prezzi. Infatti, agli occhi delle imprese, il salario percepito dai lavoratori non è altro che una componente del costo di produzione dei beni, cioè il costo del lavoro: all’aumentare del costo del lavoro, aumenta il costo di produzione e, dunque, il prezzo dei beni. Un aumento dell’inflazione, a sua volta, comporterebbe una riduzione del potere di acquisto: ciò renderebbe un aumento della spesa pubblica ancor più necessario per sostenere la domanda aggregata che, logicamente, diminuisce all’aumentare dei prezzi.

Per finanziare l’aumento della spesa pubblica, il governo potrebbe agire in tre modi357. Il primo sarebbe

aumentare le tasse: tale strategia, però, non sarebbe vincente perché, com’è evidente, la domanda aggregata diminuisce all’aumentare dell’imposizione fiscale. Il secondo modo sarebbe aumentare i tassi di interesse sul debito per incoraggiare gli investitori, verosimilmente poco propensi ad acquistare titoli di debito pubblico denominati in lire deprezzate, a comprarli, grazie alla prospettiva di maggiori rendimenti: tuttavia, anche se funzionasse, tale strategia renderebbe più oneroso il servizio del debito da parte dello Stato. Il terzo e ultimo modo, infine, sarebbe indurre la banca centrale a monetizzare il debito, cioè ad acquistare titoli di debito pubblico stampando moneta: questa strategia, però, oltre a minare la credibilità della banca centrale, determinerebbe un aumento dell’inflazione. Quest’ultimo, peraltro, sarebbe seguito da nuove svalutazioni, necessarie per consentire alle imprese esportatrici italiane di riguadagnare competitività, almeno sui mercati esteri. Ma ogni svalutazione aggraverebbe inevitabilmente il problema che si sta cercando di risolvere: il debito denominato in euro sarebbe ancora più costoso in termini relativi, lo Stato e le imprese avrebbero bisogno di maggiori entrate e sarebbe necessario un aumento dei salari e della spesa pubblica. In breve358, onorare il debito pregresso in euro richiederebbe l’implementazione di misure che innescherebbero un circolo vizioso tra inflazione e svalutazione, mentre la spesa pubblica andrebbe fuori controllo aggravando le condizioni delle finanze pubbliche.

Per tale ragione, il rimborso in euro dei debiti pregressi non sarebbe, di fatto, una strada praticabile. Pertanto, ai debitori non resterebbe altra alternativa se non quella di dichiararsi insolventi e provare a negoziare con i creditori una ristrutturazione del debito pregresso nella nuova lira359. Ciò determinerebbe, tuttavia, una

redistribuzione della ricchezza dai creditori ai debitori non priva di conseguenze: infatti, un simile atteggiamento da parte dello Stato e delle imprese italiane provocherebbe un grave calo della fiducia da parte

357 Ibidem. 358 Ibidem. 359 Ivi, p. 5.

92 dei mercati, a cui farebbe seguito l’aumento del tasso di interesse richiesto sul nuovo debito, se non addirittura l’esclusione dai mercati finanziari internazionali per diversi anni. Infine, con tutta probabilità, l’Italia sarebbe coinvolta in lunghe e complesse dispute legali con quei creditori che esigerebbero l’osservanza dei contratti di debito originari.

Con specifico riferimento al debito pubblico, poi, la modifica dei termini di pagamento dei titoli di Stato emessi a partire dal mese di gennaio del 2013, potrebbe non essere così semplice: infatti, al momento dell’istituzione dell’ESM, l’Eurozona stabilì che tutti i titoli di debito sovrano emessi, a partire dal gennaio del 2013, dagli SM dell’euro area con durata iniziale superiore a un anno avrebbero dovuto includere obbligatoriamente le cd. clausole di azione collettiva360. Queste ultime sono state introdotte per bilanciare

l’esigenza di tutelare gli investitori con l’esigenza di facilitare una ristrutturazione ordinata del debito: le clausole, infatti, consentono la modifica dei termini di pagamento dei titoli a cui sono applicate, ma solo dietro al consenso di una maggioranza qualificata dei detentori di tali titoli. Qualora quest’ultimo intervenisse, la modifica in oggetto risulterebbe giuridicamente vincolante per tutti i detentori del titolo stesso. Tornando all’Italia, quindi, qualora tale maggioranza non si aggregasse, lo Stato sarebbe costretto a rispettare i contratti di debito originari, indipendentemente dal costo di tale operazione361.

In conclusione, le continue e significative svalutazioni della nuova lira renderebbero impossibile per lo Stato e per le imprese italiane onorare i debiti pregressi denominati in euro, con la conseguenza che l’unica strada praticabile sarebbe dichiarare l’insolvenza e negoziare una ristrutturazione del debito con i creditori. Tuttavia, anche nel caso in cui questi ultimi finissero per accettarla, la fiducia dei mercati nel paese complessivamente preso crollerebbe, con conseguenze disastrose sulle sue capacità di finanziamento future: infatti, gli investitori, aspettandosi continue svalutazioni nel periodo di time-out dalla moneta unica, chiederebbero tassi di interesse molto elevati sui nuovi titoli. Al limite, lo Stato potrebbe perdere l’accesso al mercato, una conclusione, questa, non diversa da quella a cui approderebbe in caso di uscita permanente dalla moneta unica. Ecco perché è corretto affermare che l’uscita temporanea dall’euro non rappresenta, dal punto di vista economico, un’ipotesi credibile.