4. Gli strumenti informali di riammissione
4.2 Il contenuto degli accordi informali
Generalmente gli accordi informali hanno l’obiettivo di strutturare delle procedure direttamente operative per regolare l’identificazione e il rimpatrio sicuro di persone che soggiornano illegalmente nel territorio si uno Stato Membro specifico o più in generale nell’Ue.
Nelle premesse appare sempre il riferimento alla natura di tale intesa, sottolineando che non creano diritti o obblighi alla luce del diritto internazionale250.
Fondamentale è il preambolo da cui si può evincere la volontà delle parti.
In queste situazioni la volontà delle parti è quella di cercare una certa flessibilità, sul punto, si è espressa la Commissione Europea in una lettera indirizzata alla Commissione LIBE del Parlamento europeo251, e si è soffermata, per motivare tale prassi,
250 A titolo esemplificativo, nella premessa all’accordo con il Mali,
“These operating procedures do not create new legal obligations. They do not affect the rights of individuals. They aim to facilitate cooperation on readmission between the Member States of the European Union and the Republic of Mali,and complement and reinforce bilateral efforts of EU Member States in the same field.”.
251 Nella sua risposta all’interrogazione scritta E-001881/2019, la
Commissione, dopo aver affermato che il suo obiettivo è concludere accordi formali ha precisato: “Some of those countries, while not ready or willing for the time being to engage in formal negotiations for a readmission agreement, are nonetheless open to commit, at political level, to implement their obligations on readmission and improve practical cooperation”.
sulla riluttanza dei Paesi d’origine dei migranti irregolari di concludere accordi formali di riammissione in quanto invisi alla loro opinione pubblica.
Addirittura, questi Paesi tendono a negare anche di aver concluso mere intese informali, le quali sfuggono comunque allo scrutinio pubblico e al controllo parlamentare, anche perché spesso i testi non sono resi pubblici.
Nella prima parte si soffermano sulle procedure attraverso cui identificare i migranti da rimpatriare. Qualora vi siano dei validi documenti di viaggio si specifica, ad esempio nel caso dell’accordo con il Mali, che “non sono richieste alcune
formalità”252, tuttavia spesso accade di trovarsi di fronte a
documenti di viaggio non validi o non conformi alla legislazione per cui sono necessari degli step ulteriori per determinare la nazionalità.
In questi accordi si fa spesso riferimento a diversi mezzi di prova per provare le cittadinanze, come per esempio, ricorrere a interrogatori proposti dalle attività consolari addette oppure l’utilizzo di banche dati biometriche.
Nello stabilire la provenienza, questi accordi prevedono dei particolari protocolli basati su uno scambio di informazioni tra il Paese richiedente e il Paese di destinazione. Questa
252 Draft Standard Operating Procedures between the EU and the
Republic of Mali for the identification and return of persons without an authorization to stay. Punto n. 1: Holders of valid passport No formalities will be required for the return of a person holding a valid passport.
collaborazione permette di vagliare i documenti presentati dai migranti, verificando eventuali incongruità.253
Dopodiché questi accordi stabiliscono le modalità di trasporto, mediante aereo, stabilendo un numero massimo di persone da trasportare.254
L’ultima sezione si occupa della cd “implementation”, in questa sezione le parti contraenti si impegnano ad una stabile collaborazione e scambio di informazioni, prevedendo dei gruppi di lavoro i quali portano avanti gli interessi di entrambe le parti contraenti, per verificare la corretta applicazione del contenuto degli accordi.255
253 A titolo esemplificativo: EU - Bangladesh Standard Operating
Procedures for the Identification and Return of Persons without an Authorisation to Stay, Punto 2, lettera a) When the requesting country provides photocopies of Machine Readable Passports (MRP) the requested country will verify their authenticity and issue a travel document/ permit within five working days from the date of submission of the documents by the requesting country.
254 Ad esempio, nell’accordo con il Mali sono 20, mentre nell’accordo
con il Bangladesh sono 50.
CONCLUSIONI
Dagli anni ’70 ad oggi si è apprezzato un mutamento, sia della natura socioeconomica che della valenza politica, dei movimenti internazionali di persone su scala globale.
Per un verso, è diminuita la domanda esplicita di lavoro immigrato da parte dei Paesi industrializzati, dall’altro la pressione migratoria proveniente dai Paesi in via di sviluppo e dai Paesi dell’Europa centrale e orientale è complessivamente cresciuta.
Quindi, si sono attenuati quelli che possiamo considerare pull
factors (fattori di attrazione) e intensificati sensibilmente i push factors (fattori di spinta) delle migrazioni internazionali.
Questo ha generato tensioni sociali e politiche crescenti, che, hanno fatto percepire più intensamente l’esigenza di una regolamentazione, rendendo sempre più evidenti i bisogni di tutela dei diritti delle persone costrette o indotte dagli eventi a cercare protezione, sicurezza e benessere al di fuori dei confini dello Stato di origine.
Se non ci sono dubbi circa l’esistenza di un dovere di rango consuetudinario di ogni Stato di riammettere i propri cittadini, non si può escludere anche il diritto di questi di decidere chi poter ammettere sul proprio territorio e, di conseguenza, di poter allontanare individui che si trovano in una situazione irregolare, che non soddisfano o non soddisfano più i requisiti per il soggiorno.
Tuttavia, i problemi si pongono al momento dell’attuazione di questo diritto consuetudinario.
La lotta contro l’immigrazione clandestina ha rappresentato e rappresenta tutt’oggi uno dei settori su cui l’Unione Europea e gli Stati Membri hanno maggiormente concentrato i propri sforzi.
Secondo i dati elaborati da Eurostat, nel 2018 sono Stati circa 602.000 i migranti fermati la cui presenza sul territorio degli Stati Membri è stata ritenuta contraria alle condizioni di ingresso e soggiorno previste dal Codice Frontiere Schengen o dalle legislazioni nazionali degli Stati.
Di queste, 157.900 cittadini di Paesi terzi, cui era stato ordinato di lasciare uno Stato membro dell'UE, sono Stati rimpatriati in Paesi terzi.
L’incremento dei flussi migratori verso i Paesi dell’Unione Europea ha quindi posto l’immigrazione in una posizione prioritaria nell’agenda Europea rappresentando una grande sfida per gli Stati membri, che devono gestire il fenomeno migratorio in maniera efficace, rafforzando il controllo delle frontiere e combattendo l’immigrazione clandestina, riconoscendo allo stesso tempo l’importante ruolo che un’immigrazione controllata svolge per lo sviluppo economico e demografico dell’Unione.
Il ritorno dei migranti può essere volontario ed è certamente preferito. Questo fa seguito a un ordine di allontanamento, si cerca pertanto di fornire al migrante un'assistenza adeguata e tempi ragionevoli per conformarvisi. È generalmente meno costoso per lo Stato e comporta meno dispendio burocratico.
Nei casi in cui tuttavia il rimpatrio volontario non riesce, quello forzato, il quale segue un atto giudiziario e prevede l’utilizzo di forme coercitive. Una minaccia credibile di rimpatrio forzato e la sua successiva applicazione inviano un
chiaro messaggio alle persone che soggiornano illegalmente negli Stati membri e ai potenziali migranti illegali al di fuori della UE, ossia che l'ingresso o il soggiorno illegali non si trasformano nella forma di soggiorno permanente che sperano di ottenere. Quest’ultimo seguo un atto giudiziario e prevedere l’utilizzo di forme coercitive.
Lo strumento che viene utilizzato per il rimpatrio è la cd
“decisione di rimpatrio”. Una decisione di rimpatrio dichiara
l'irregolarità del soggiorno nello Stato membro che emette la decisione e generalmente contiene l'imposizione di un obbligo di rimpatrio. Una decisione di rimpatrio può contenere altri elementi, come il divieto d'ingresso, un periodo per la partenza volontaria, la designazione del paese di rimpatrio
Una volta stabilita la decisione di rimpatrio, lo strumento principe utilizzato dagli Stati e dall’Ue, è l’accordo di riammissione.
Gli accordi di riammissione possono essere definiti come degli accordi tra UE o Stati Membri e Stati terzi che, sulla base di una reciprocità, stabiliscono rapide ed effettive procedure per l’identificazione, la protezione e il ritorno legale di persone le quali non soddisfano, o non soddisfano più, le condizioni per l’entrata o il soggiorno nel territorio di uno Stato terzo o Stato Membro dell’UE.
Sono considerati come lo strumento principale di lotta contro l’immigrazione irregolare.
Ad oggi quelli conclusi dall’UE sono 17, detti anche ARUE, nel dettaglio: Hong Kong (entrato in vigore il 1° marzo 2004); Macao (1° giugno 2004); Sri Lanka (1° maggio 2005); Albania (1° maggio 2006); Russia (1° giugno 2007); Ucraina (1° gennaio
2008); ex Repubblica jugoslava di Macedonia (1° gennaio 2008); Bosnia-Erzegovina (1° gennaio 2008); Montenegro (1° gennaio 2008)¸Serbia (1° gennaio 2008); Moldova (1° gennaio 2008); Pakistan (1° dicembre 2010); Georgia (1° marzo 2011); Armenia (1° gennaio 2014); Azerbaijan (1° settembre 2014); Turchia (1° ottobre 2014); Capo Verde (1° dicembre 2014).
Tali accordi mirano a facilitare il transito delle persone in un’ottica di legalità e spirito di cooperazione tra Stati. Da un punto di vista contrattuale, l’accordo di riammissione tra Stati Membri e Stati Terzi o tra UE e Stati terzi comprende due Stati sovrani, uno stato chiamato “soliciting state” sollecita la conclusione di un accordo con l’altro, chiamato “solicited state”.
Tuttavia, in quasi tutti i Paesi partner, i tempi per i negoziati finalizzati alla stipula di un accordo di riammissione, sono sempre piuttosto lunghi.
La riluttanza dei paesi alla conclusione di accordi di riammissione è spesso causata dalla mancanza di incentivi o ancora da una mancata assistenza finanziaria nella conclusione dell’accordo.
All'inizio l'UE era infatti solita invitare i paesi terzi a negoziare un accordo di riammissione, senza offrire incentivi in cambio, o ad includere clausole di riammissione in più ampi accordi di cooperazione.
È evidente che, senza incentivi, tali accordi con l'UE presenterebbero ben pochi vantaggi per i paesi terzi interessati, poiché questi ultimi cercano solitamente di ricevere qualcosa in cambio della loro conclusione.
L’UE spesso giustifica questa perdita o mancanza di interessi dei paesi terzi alla conclusione di accordi di riammissione formali, con il fatto che questi accordi non hanno una grossa popolarità nei paesi partner, soprattutto tra la popolazione comune, nel tentativo, quindi di non sottoporre la questione alla luce pubblica e dibattiti nazionali.
Le leve su cui si sofferma spesso l’UE, quindi, sono incentivi monetari e materiali, o ancora, accordi per la facilitazione dei visti.
Una grossa problematica che è emersa dall’analisi degli ARUE conclusi finora dall’UE riguarda il fatto che questi spesso comprendono anche l'obbligo di riammettere, a determinate condizioni, i cittadini di Paesi terzi che sono transitati dal territorio di una parte contraente.
Tutti i Paesi terzi mostrano una profonda avversione per questa clausola, sostenendo di non poter essere responsabili dei cittadini di Paesi terzi e pertanto di non avere l'obbligo di riammetterli. Se l'UE non avesse cercato di ottenere una clausola sui cittadini di Paesi terzi, o se l'avesse sostenuta con incentivi adeguati, alcuni negoziati sarebbero già conclusi, ad esempio quelli con il Marocco e la Turchia, e molti altri si sarebbero conclusi più rapidamente, per questo è sicuramente fonte di contrasti e dissidi profondi. È chiaro, d'altra parte, che un ARUE con un paese in cui si svolge un forte transito di migrazione irregolare verso l'UE, privo di una clausola sui cittadini di Paesi terzi, ha scarso valore giuridico per l'UE.
Nella più recente prassi agli accordi di riammissione si sono andati affiancando strumenti più flessibili e informali.
L’abbandono della forma tradizionale degli Accordi di riammissione e l’affermazione di un’ampia informalità delle relazioni, estesa in parte anche ad altri aspetti della c.d. gestione dell’immigrazione si deve ad una pluralità di ragioni.
In alcune circostanze, entrambe le parti contraenti possono decidere di cooperare per risolvere il problema della riammissione senza però formalizzare il loro accordo. Possono scegliere di trattare il problema della riammissione usando altri tipi di intese, inclusi lo scambio di lettere o di memoranda di intesa, o formulandola in un quadro più ampio di accordo di cooperazione comprendente forme supplementari di assistenza reciproca.
Questi modelli alternativi di cooperazione connessi alla riammissione, non si concretizzano in veri e propri accordi di riammissione ma devono essere letti sotto un’ottica diversa, considerandoli dei meri accordi incorporati in un più ampio quadro strategico di cooperazione bilaterale.
In una Comunicazione del 2011 (n. 76 def del 2011), la Commissione ha sottolineato come l’utilizzo di forme di cooperazione informali è eccessivo e rischia di offrire una scorciatoia alle più complesse norme di decisione previste dal TFUE, ed è di fatti così che accade. Sembrerebbe, tuttavia, che questo possa diventare un nuovo trend dell’UE, soprattutto in occasione della più recente crisi dei rifugiati del 2015, per cercare di risolvere questioni complesse nel più breve tempo possibile.
Questi tipi di strumenti informali vengono utilizzato dall’UE per facilitare i negoziati con i Paesi terzi, in particolare quelli che
non vogliono o non hanno interesse a concludere un ARUE formale e pubblicamente visibile.
L’informalità appena descritta è la stessa che si ritrova nei più recenti orientamenti dell’UE nel GAMM a partire dal 2005 fino al nuovo quadro di Partenariato inaugurato nel 2016.
Concludendo la prassi seguita dall’Unione di conclusione di intese non vincolanti può risultare preoccupante, soprattutto in considerazione delle grosse mancanze inerenti alla procedura della conclusione di intese non formali. Tali intese, inoltre, costituiscono una percentuale significativa rispetto al numero complessivo degli accordi di riammissione conclusi fino ad ora dall’Unione Europea.
Questo atteggiamento rischia di vanificare il coordinamento con i vincoli pattizi degli accordi di riammissione degli Stati Membri, tracciando una traiettoria quasi contraddittoria rispetto all’accorato invito fatto nel 2011 dalla Commissione Europea agli Stati membri ad applicare gli accordi di riammissione nel modo più omogeneo possibile.
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