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Il contesto culturale

SVILUPPO ED ATTUAZIONE DEL MODELLO ECONOMICO ISLAMICO

1. Il contesto culturale

All’epoca di Maometto, il sistema economico era piuttosto semplice: la Mecca era la più ricca città dell’Arabia Occidentale ed era un importante fulcro commerciale, mentre il resto della regione rimaneva in una condizione più arretrata. Con la continua diffusione dell’Islam, però, le rotte commerciali della regione passarono gradualmente sotto il controllo musulmano; gli Omayyadi espansero l’impero dalla capitale, Damasco, fino all’Europa e ai confini con la Cina e l’India; il califfato Abbaside, con sede a Baghdad, consolidò poi i legami tra il bacino mediterraneo e l’Oceano indiano, creando un unico sistema commerciale che portò diversi cambiamenti nel settore agricolo e artigianale e all’emergere di grandi città. Divenendo più complessa l’economia e presentandosi nuove urgenze legate alla

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gestione dell’impero, la regolazione del commercio, l’introduzione di un sistema fiscale, si crearono anche nuove istituzioni.

Dal punto di vista teorico, alcuni pensatori si occuparono di questioni economiche, il più famoso dei quali è stato Ibn Khaldun (1132-1406) che scrisse in merito alla domanda e offerta, alla formazione del capitale, ai cicli economici e la teoria del valore. Tuttavia, come sottolinea lo studioso Ibrahim Warde (ibid.:39), tali scritti risalivano a un periodo precedente alle grandi trasformazioni dell’economia mondiale, precedente all’ascesa del capitalismo e alla rivoluzione industriale; le banche e le moderne istituzioni finanziarie non esistevano ancora, e quando vennero istituite, gli studiosi musulmani si trovarono a dover conciliare una tradizione dotta e giurisprudenziale risalente al medioevo con le esigenze dell’epoca moderna. Dai tempi di Ibn Khaldum, il mondo musulmano non aveva infatti prodotto economisti di rilievo, e i dibattiti ideologici contemporanei tendevano a strutturarsi sulle norme dell’Occidente. La finanza moderna fece il suo ingresso nel mondo musulmano con l’espansione coloniale occidentale, attraverso le banche straniere che finanziavano il commercio e lo sviluppo, e con le quali i governi dei paesi colonizzati contraevano debiti. Per necessità e nell’interesse pubblico, tutti i paesi musulmani impararono a convivere con l’interesse e il sistema finanziario contemporaneo (ibid.).

La situazione iniziò però a mutare con la decolonizzazione e la rinnovata tendenza a recuperare l’Islam: i dotti religiosi tentarono di reinterpretare l’economia e le altre scienze sociali alla luce della loro formazione religiosa con l’intento di definire una nuova disciplina economica, “profondamente motivati dal desiderio musulmano di riaffermarsi come una umma vivente” (Khan, 2013:XI). È infatti dall’evoluzione del dibattito post-indipendenza sulla forma statale da adottare per favorire lo sviluppo della umma contro i mali del capitalismo e dell’imperialismo, e in particolare sulla natura della proprietà, la dimensione dell’individuo e della comunità, la ricostituzione di una coesione sociale e il tipo di sistema economico nazionale, che risultò un corpo di idee che andò a costituire il campo dell’ ‘Economia islamica’ (Tripp, 2006). Gli studiosi ed economisti musulmani si posero il fine di costruire un modello economico basato sui principi etici islamici - salvaguardando così la moralità dell’agire in conformità alla propria religione -, che potesse però competere anche dal punto di vista materiale con il sistema capitalistico del

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Ventesimo secolo e “fecero tutto il possibile dagli anni Settanta per avvalorare la loro causa con la logica, la teoria scientifica e l’evidenza empirica” (ibid.; Warde, 2000:40).

Entrando più nello specifico, lo studioso Muhammad Akram Khan (2013) fa risalire la nascita della disciplina ai movimenti revivalisti del XIX e prima metà del XX secolo. In quel periodo, le due correnti di pensiero - modernista e neo-revivalista - diedero impulso alla creazione dell’ economia islamica come branca distinta da quella convenzionale. Il primo movimento, quello modernista, premeva per il “risveglio” dell’ijtihàd (sforzo interpretativo) e la reinterpretazione del Corano e della Sunna del profeta alla luce degli sviluppi socioeconomici verificatisi dalla nascita dell’Islam in poi. Due dei massimi esponenti furono Jamaluddin Afghani (1839-97) e Muhammad Iqbal (1876-1938). Questi affermavano il carattere unitario dell’Islam, rifiutando il dualismo tra spirito e materia, in base al quale qualsiasi azione si compia nella vita terrena è anche un’azione religiosa e meritevole di un premio nell’aldilà27. In questo senso, anche lo svolgimento delle attività economiche è un dovere religioso e da mettere in atto rispettando i precetti dell’Islam. Il secondo movimento, quello neo-revivalista, ebbe come massimi rappresentanti i politici egiziani Hasan al-Banna (1906-49) - fondatore dei Fratelli Musulmani -, e Sayyid Qutb (1906-66) - leader del partito negli anni Cinquanta-Sessanta -, il teologo pakistano Abu al-Ala Mawdudi (1903-79) e il filosofo iracheno Muhammad Baqir as-Sadr (1931-80). Questa scuola di pensiero riteneva che i musulmani potessero progredire e recuperare la loro gloria passata solo attraverso un “risveglio” degli insegnamenti del Corano e della Sunna senza bisogno di interpretazioni, bensì da applicare “nella lettera e nello spirito” (Khan, 2013:XII) e ricorrendo all’ijtihàd solo in casi limite in cui non vi fossero espliciti riferimenti nel Testo Sacro e nella tradizione del profeta. Essa affermava, quindi, la necessità di sviluppare una dottrina economica autonoma in quanto, il sistema economico dell’Islam si basava su principi - quali, la considerazione di ogni forma di interesse come ‘ribà’’ - incompatibili con il pensiero economico occidentale (ibid.).

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La teologia islamica tradizionale esprime, infatti, con il concetto di tawhid – unificazione del reale nel nome del Dio unico – l’interdipendenza tra tutte le attività umane, tra tutte le sfere vitali e simboliche, dall’alimentazione all’economia, e la loro sottomissione alla volontà del Signore (Atzori, 2010).

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Come spiega Khan (ibid.:XII), quest’ultimo movimento fu quello che ebbe maggior successo nella capacità di attirare l’attenzione sia degli intellettuali che della popolazione musulmana. La storia della disciplina e del suo risultato più notevole e tangibile - la nascita delle banche islamiche – viene, infatti, strettamente legata al pensiero di Mawdudi, considerato proprio il padre dell’economia islamica (Atzori, 2010). Come si vedrà più dettagliatamente in seguito, quest’ultimo si oppose al progetto di creare uno stato indipendente per i musulmani del subcontinente indiano, richiamando la necessità di recuperare l’Islam e fondare uno stato islamico non nel senso occidentale del termine, ma nel senso di ricreare la umma originaria con l’intento di differenziarsi così dagli hindu in ogni ambito - culturale, politico ed economico. In quest’ottica nacque il concetto di Economia Islamica, facendo della proibizione del ribà’ il segno distintivo e il caposaldo di un’economia propia(ibid.). L’altro grande teorico dell’economia islamica è Mohammed Baqir as-Sadr, la cui opera Iqtisaduna - ‘La nostra economia’ - (1961-2) è una critica sistematica sia al capitalismo che al marxismo, e costituisce un altro tentativo di sviluppare un approccio islamico all’economia. La sua opera costituisce tuttora una base importante dell’Islamic Banking moderno (Tripp, 2006; Wikipedia, 2014). Egli individuava tre principi alla base del sistema islamico, ossia la proprietà, una libertà economica limitata e la giustizia sociale, e si focalizzava anche sull’importanza di stabilire un sistema redistributivo, affermando che tale sistema economico sarebbe stato soggetto a minori fluttuazioni e quindi più efficiente e capace di offrire una maggiore stabilità rispetto a qualsiasi altro modello economico (Tripp, 2006). In realtà, nonostante il criticismo verso le ideologie socialiste e capitaliste, as-Sadr finì per incorporare alcuni elementi di entrambe le ideologie mostrando implicitamente che l’islam non era incompatibile con l’economia moderna (Warde, 2000).

Al di là delle specifiche caratteristiche di ogni autore, sono individuabili alcuni elementi generali caratterizzanti l’economia islamica come dottrina, relativi non solo alla sostanza ma anche al metodo (Tripp, 2006). Di regola, la definizione della disciplina inizia con il dichiarare le fonti dalle quali provengono i principi, ossia il Corano, la Sunna e l’ijtihàd; queste devono essere usate congiuntamente agli esempi dei compagni del profeta, i califfi ben guidati e le interpretazioni autorevoli dei giurisperiti, per stabilire i riferimenti sulla base dei quali elaborarne i fondamenti

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teorici. Tuttavia, come per altre questioni, anche in campo economico vi sono ampie discrepanze su ciò che la Shari’a stabilisce, riconducibili al diverso grado di accettazione dell’ijtihàd e alle diverse interpretazioni delle quattro scuole giuridiche della tradizione ortodossa sunnita - Hanafita, Shafiita, Malikita e Hanbalita (ibid.; Warde, 2000). Questo ha portato così ad approcci contrastanti tra gli intellettuali musulmani che hanno contribuito a definire la disciplina: alcuni si sono concentrati più sull’aspetto teorico, dedicandosi alla spiegazione dei versetti coranici e degli scritti dei giuristi prodotti nel corso dei secoli, presentando poi descrizioni di ciò che le fonti dicessero sul ribà’, la zakàt, la proprietà e il mercato; altri più sull’aspetto pratico, focalizzandosi sulle necessità economiche contemporanee e cercando di elaborare delle prescrizioni per un’attività economica conforme ai valori etici islamici, ma adatta al contesto. In questo caso, Tripp afferma,

Non si trattava semplicemente di citare le autorità del passato, ma di ideare un vocabolario comprensivo per rinvigorire l’impegno della comunità in una economia con un fine morale (2010:112).

L’economia islamica doveva infatti consentire ai musulmani un effettivo coinvolgimento nel mondo, ossia, recuperare e diffondere i valori fondamentali dell’Islam fornendo però anche gli strumenti necessari a raggiungere un benessere materiale. Da qui la convinzione che sarebbe stata sia moralmente superiore, sia più efficace nell’offrire benefici materiali finalizzati allo sviluppo economico. Ad influenzare gli scritti degli studiosi contribuirono quindi anche il materialismo, il calcolo utilitarista, il criterio di efficienza e la misurazione del successo (ibid).

In sintesi, gli intellettuali musulmani tentarono di affrontare la sfida del capitalismo in due modi. Primo, gli scrittori concepirono l’economia islamica come una strategia che avrebbe trasformato e rafforzato il potere delle società islamiche preservando la loro identità distintiva, da un lato e garantendo l’efficienza produttiva delle transazioni economiche conformi ai valori etici religiosi, dall’altro, perché consapevoli del potere di attrazione dei fattori materiali e del successo del capitalismo. A tal proposito, andarono a riprendere nel fiqh quelle regole sul commercio, la finanza, la tassazione, la proprietà, il ribà’ e tutte le transazioni economiche ad esse collegate. La seconda risposta è consistita nell’applicazione della teoria, e quindi dei principi alla base del modello economico islamico, attraverso lo

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sviluppo del sistema bancario islamico e il suo consolidamento come segno da un lato, della resistenza a un sistema fondato sul profitto, la soddisfazione dei piaceri materiali e l’effetto alienante della mercificazione, dall’altro, della volontà di relazionarsi col sistema capitalistico dominante (ibid).

A consentire lo sviluppo e una certa sistematizzazione della disciplina sul piano teorico, attraverso la fondazione di università e istituti di ricerca e formazione, e la realizzazione effettiva di tali idee sul piano pratico, attraverso la creazione di istituti finanziari islamici, furono le condizioni politiche, economiche e sociali che si verificarono dagli anni Settanta in avanti. Nel 1976 si tenne la prima conferenza sull’Economia Islamica alla Mecca, nel 1979 la King Abdul Aziz University di Jeddah istituì il Centro Internazionale di Ricerca sull’Economia Islamica (ICRIE) e nell’università Al-Azhar del Cairo si fondò il Saleh Kamel Center for Islamic Commercial Research; simili iniziative proseguirono negli anni Ottanta e Novanta. In Malaysia, ad esempio, vennero istituite la IIUM (International Islamic University Malaysia), la Islamic Economic Foundation, l’IKIM (Institute of Islamic Understanding) e l’IBFIM (Islamic Banking and Finance Institute Malaysia); la IIUM, in particolare, attraverso la sua facoltà di Scienze economiche e management divenne il luogo principale di produzione di una elaborata letteratura sull’economia islamica. Contestualmente, un numero sempre maggiore di paesi tentarono di avviare con più o meno successo il processo di islamizzazione dei loro sistemi economici, presentando l’Islam e la sua economia morale come una ‘terza via’ tra capitalismo e socialismo, non semplicemente differente, bensì superiore a tali sistemi (ibid).