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A tal fine, conviene partire proprio dalla descrizione che di Fontamara-luogo ci dà Silone all’inizio della Prefazione al romanzo:

Nel documento Studi di semiotica testuale (pagine 71-77)

II. DALLA TEORIA DEL TESTO ALLA TESTOLOGIA SEMIOTICA.

5. Struttura e organizzazione dei mondi possibili in Fontamara.

5.2. Si cercherà ora di chiarire meglio e con ulteriori esempi l’organizzazione del Wp e dei sotto-Wp di Fontamara.

5.2.1. A tal fine, conviene partire proprio dalla descrizione che di Fontamara-luogo ci dà Silone all’inizio della Prefazione al romanzo:

«Ho dato questo nome a un antico e oscuro luogo di contadini poveri situato nella Marsica, a settentrione del prosciugato lago di Fucino, nell’interno di una valle, a mezza costa tra le colline e la montagna. […]

Fontamara somiglia dunque, per molti lati, a ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori delle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri» (F, 7-8).

Segue, quindi, in modo ancor più dettagliato, la descrizione di Fontamara, che viene appunto rappresentata, con estrema precisione, attraverso un processo che va dall’esterno 47

all’interno, dal generico e vasto al particolare, dall’umano al ferino48.

Silone introduce subito una prima opposizione, quella fra una Fontamara astorica, metastorica, forse addirittura simbolica nella sua immobilità – caratterizzata dall’eterna identità delle stagioni, dall’ewige Wiederkehr des Gleichen –, e una Fontamara storicizzata, scagliata, quasi, nel dinamismo della storia, grazie a, o a causa di, «una serie di fatti imprevisti e incomprensibili che sconvolsero la vita di Fontamara» (F, 14). Ma, significativamente, questi fatti vengono rivissuti nel ricordo e nel racconto di tre Fontamaresi, sì da apparire all’autore «fantastici, mai accaduti, inventati di sana pianta» (F, 15): pare quasi impossibile che la Storia possa far breccia in questo «villaggio».

Più concreto, invece, risulta il contrasto fra il Wp di Fontamara e quelli della terra del Fucino, di Avezzano, di Sulmona, di Roma. Mondi contrapposti in nome della materialità dell’ esistenza, della possibilità di profitto, della realizzazione di una vita se non soddisfacente, perlomeno all’insegna dell’“umano”: la terra del Fucino è, infatti, «terra benedetta», «fine e grassa» (F, 118), è «vastissima e dorata di messi mature» e ha «l’aspetto della terra promessa» (F, 122); Avezzano è piena di luci, ha «un aspetto strano come d’un mondo carnevalesco» (F, 129-130), di un mondo, cioè, “rovesciato” – per usare la terminologia di Bachtin [1979] –, un mondo in cui accade, è reale ciò che sembra impossibile o, addirittura, inesistente; Sulmona è il mondo della rivoluzione, il centro della coupure, il paradigma cui guardare e da imitare (F, 193-194); Roma è il mondo dell’inganno, della violenza, della repressione, del carcere (F, 201-237).

5.2.2. All’interno di questi vari e contrapposti Wp, si inseriscono – non come Wp, bensì come costituenti di Wp – situazioni oppositive o conflittuali di natura sociale, giuridica o politica, ben individuate da Spezzani [1979: 36 ss.]49. Passiamole brevemente in rassegna:

(1) contadino ~ cittadino. «“I cittadini si divertono” diceva Berardo con rabbia. “Ah, i cittadini sono allegri. I cittadini bevono. I cittadini mangiano. Alla faccia dei cafoni”» (F, 130; cfr. pp. 224-225); «Ogni cittadino è tesserato, catalogato, timbrato, conosciuto. Ma il 48

Annoni [1979: 90-91] ha fornito una sinopsi dei paesi della narrative siloniana, da cui si può ricavare l’identità e identificazione di centri come Fontamara, Pietrasecca, Orta, Acquaviva.

3 cafone? Chi conosce il cafone? C’è mai stato un Governo che abbia conosciuto il cafone? E chi potrà mai tesserare, catalogare, timbrare, sorvegliare, conoscere tutti i cafoni?» (F, 230). La seconda citazione è di una sarcastica tragicità: sarebbe positivo per il cafone poter “godere” di quei soprusi (ossia attentati alla libertà personale) di cui si lamentano i cittadini. Paradossalmente, l’umanizzazione del cafone passa attraverso la distruzione della libertà personale, perché quella distruzione è (o sarebbe) purtuttavia ammissione, riconoscimento dell’esistenza del cafone come uomo, prima, e cittadino (persona giuridica), poi, o addirittura come “sovversivo”, come entità capace di mettere in discussione, di cambiare lo status quo; il contadino, insomma, come “essere per sé”, come soggetto storico e rivoluzionario;

(2) cafoni ~ legge. I cafoni sono contrapposti ai vari rappresentanti del nuovo ordine socio- politico instaurato dai fascisti: il Cavaliere don Pelino, i militi, Innocenzo La Legge, don Circostanza, ecc.

(3) cafoni ~ galantuomini. I cafoni sono contrapposti ai “notabili” del luogo: don Circostanza, don Abbacchio, l’avvocato don Ciccone, il farmacista, il notaio, ecc.;

(4) cafoni ~ grandi proprietari. I cafoni sono contrapposti non solo ai Torlonia o a don Carlo Magna, ma anche ai fittavoli e ai contadini ricchi;

(5) Fontamaresi ~ fascisti. Si legge nel romanzo: «Questi uomini in camicia nera […] noi li conoscevamo. Per farsi coraggio essi avevano bisogno di venire di notte. La maggior parte puzzavano di vino, eppure a guardarli da vicino, negli occhi, non osavano sostenere lo sguardo. Anche loro erano povera gente. Ma una categoria speciale di povera gente, senza terra, senza mestiere, o con molti mestieri, che è lo stesso, ribelli al lavoro pesante; troppo deboli e vili per ribellarsi ai ricchi e alle autorità, essi preferivano di servirli per ottenere il permesso di rubare e opprimere gli altri poveri, i cafoni, i fittavoli, i piccoli proprietari. […] Sono essi i cosiddetti fascisti» (F, 148). Questa descrizione dei fascisti, in un certo senso, è condotta secondo la tecnica dello ‘straniamento’ (v. Šklovskij [1976]), quasi a voler sottolineare la novità per i Fontamaresi.

Questi variegati contrasti sono espressi non solo mediante precise scelte lessematiche, ma anche attraverso sottili espedienti sintattico-grammaticali. Ecco un esempio.

Nel capitolo VI Berardo dice: «[…] io guadagno soprattutto il pane di quelli che non lavorano» (F, 176). Perché qui troviamo la preposizione di e non per? La preposizione per avrebbe introdotto un compl. di vantaggio, caratterizzando Berardo, sì, come uno sfruttato, ma facendogli pur sempre assumere un ruolo in qualche modo positivo, di “agente”; la preposizione di, invece, introduce un compl. di possesso e sottolinea o rafforza l’alienazione (del prodotto) di Berardo: Berardo non solo non produce per sé, ma neppure produce per gli altri; egli produce qualcosa che è già degli altri. E’ la totale dissoluzione della soggettività e

della creatività, perché non si intravede teleologia alcuna; il prodotto è già alienato prima ancora di essere creato; si assiste a un’appropriazione di valore d’uso creato da altri senza che, per appropriarsene, sia necessario lo scambio. L’appropriazione è, irrimediabilmente, nella natura stessa delle cose: è un’altra manifestazione dell’ewige Wiederkehr des Gleichen. 5.2.3. Se quelli evidenziati finora sono rapporti (magari contrapposti) fra mondi testualmente o narrativamente ontologizzati, esistono anche relazioni fra questi mondi e altri, a ontologia zero, che si potrebbe distinguere in due categorie: i mondi ‘buletici’ (Wβ) e quelli ‘doxastici’

(Wδ), la cui esistenza è solo “descrittiva”, “intensionale”, in quanto non ontologizzata o

concretizzata. Sono sempre mondi testualizzati, ma “astrattamente” incapsulati – ossia privi di estensione o, meglio, denotazione – nel Wp del testo.

I mondi buletici sono quelli delle aspettative, delle speranze, dei desideri. E’ il mondo avvenire, quello della giustizia uguaglianza libertà, ma è anche quello del Fucino, della divisione e distribuzione delle terre; ed è, soprattutto, il mondo del rispetto:

«(Io so bene che il nome di cafone […] è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore)» (F, 10-11).

Parole, queste, messe da Silone, significativamente, fra parentesi, quasi a evidenziare, graficamente, l’interiorità di questa riflessione e speranza.

I mondi doxastici sono quelli delle credenze, delle opinioni, delle illusioni. Possono concernere sia il sovrannaturale sia l’umano.

I mondi doxastici concernenti il sovrannaturale sono quelli, per esempio, di cui si parla nel capitolo VI e che afferiscono alla sfera del divino, del sacrale, del miracoloso, dell’agiografia – un’agiografia, però, sempre trasfigurata dal reale, dal concreto, dall’ossessione della fame, della miseria, della sofferenza. Si tratta di quell’ossessione che tortura San Giuseppe da Copertino perfino nell’aldilà, dove a Dio, che è pronto a soddisfare qualunque suo desiderio, San Giuseppe chiede solo «un gran pezzo di pane bianco» (F, 174).

I mondi doxastici concernenti l’umano sono quelli che – al pari dei sovrannaturali – sono lontani, forse irraggiungibili, ma che – diversamente dai sovrannaturali – esistono in questo mondo (ossia nel WR). Questo tipo di mondo è rappresentato dall’America, che – come nota

5 Spezzani [1979: 68] – «è il simbolo dell’aspirazione al benessere dei cafoni, e nello stesso tempo la proiezione della protesta dei cafoni stessi contro i nuovi ricchi». Per questa duplice valenza, l’America non è solo un mondo buletico ma, appunto, anche o soprattutto doxastico. Infatti, se per i cafoni l’America «è lontana e ha un tutt’altro aspetto», per l’Impresario essa «è dappertutto […], basta saperla vedere» (F, 53).

Di questi mondi doxastici fa parte, in un certo senso, anche quella «immagine pittoresca che dell’Italia meridionale [lo straniero] trova frequentemente nella letteratura per turisti», una Italia meridionale, cioè, «bellissima, in cui i contadini vanno al lavoro cantando cori di gioia, cui rispondono cori di villanelle abbigliate nei tradizionali costumi, mentre nel bosco vicino gorgheggiano gli usignoli» (F, 16). E’ un po’ quell’immagine stereotipata, idealizzata, dell’Italia che troviamo, per esempio, nell’Aus dem Leben eines Taugenichts di Eichendorff. Infine, fra questi mondo doxastici umani rientra, forse, anche l’“estero”, il Paese straniero dove già vive l’autore e dove sono andati a rifugiarsi i tre Fontamaresi narratori. Ed è proprio con l’accenno a questo mondo che si chiude, interrogativamente, il romanzo.

Va però precisato che fra i mondi buletici e doxastici non è sempre tracciabile un netto confine. Si legge nella Prefazione:

«Una volta almeno riusciva ai montanari di fuggire in America. Perfino alcuni Fontamaresi, prima della guerra, tentarono la sorte in Argentina e in Brasile. Ma quelli di essi che poterono mettere assieme, tra il corpetto e la camicia, dalla parte del cuore, alcuni biglietti di banca e tornarono a Fontamara, in pochi anni perdettero sui terreni aridi e sterili della contrada nativa i pochi risparmi e ricaddero presto nell’antico letargo, conservando come un ricordo di paradiso perduto l’immagine della vita intravista oltremare» (F, 14).

E’ l’alienante disillusione dell’emigrante: la nuova vita tanto sperata, tanto attesa e desiderata si è fatta per un attimo immagine, parvenza di una diversa realtà solo «intravista», che ora vive – tanto più concreta e perciò dolorosa – soltanto attraverso la memoria di un mondo «oltremare», lontano, inattingibile e ancora una volta disperatamente desiderato. Qui davvero i mondi del desiderio, della credenza, dell’immutabile circolarità dell’esistenza e dell’improvviso e violento baluginìo della Storia si compenetrano e si confondono, tanto che alla fine a restare sono solo il dubbio e l’incertezza dell’avvenire.



di una poesia

Nel documento Studi di semiotica testuale (pagine 71-77)