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IL COOPERATIVE LEARNING IN UNA PROSPETTIVA DI MANTENIMENTO DELLA L1

In questo capitolo affronteremo il tema del cooperative learning, identificandone le varie tipologie, spiegando la vasta terminologia (peer-tutoring, peer-education e

cooperative learning) e soffermandoci brevemente sulla storia di questo metodo

d’insegnamento. Inoltre ci occuperemo delle varie teorie cognitive che supportano questo metodo e analizzeremo alcuni casi di studio che dimostrano il successo di questo metodo di insegnamento in particolare per quanto riguarda le lingue. È stato dimostrato che la collaborazione tra pari apporta significativi vantaggi per l’apprendimento in generale e per le lingue in particolare, inoltre aiuta lo studente a sviluppare autonomia e autostima e riduce i livelli di stress tipici di una lezione frontale. Da quasi trent’anni la ricerca internazionale, in particolare quella statunitense, è abbastanza chiara nel sostenere la peer-

education come uno tra i modelli educativi più efficaci e assolutamente consigliabili nelle

nostre scuole di oggi (Chiari 2011). L’educazione tra pari sviluppa un forte senso d’identità e di appartenenza e aiuta a rafforzare le abilità cognitive e sociali, formando già dall’infanzia un forte modello di solidarietà, sostegno reciproco e accettazione degli altri, tutti aspetti fondamentali nella scuola multiculturale di oggi.

2.1 Terminologia e storia

Il lavoro di gruppo cooperativo, Cooperative Learning rappresenta la cornice teorica dalla quale provengono i vari modelli di peer-education: peer-tutoring, reciprocal

thinking, reciprocal teaching, peer-communication (Slavin 1996, Chiari 1995). Quindi il

termine cooperative learning raggruppa tutte le tipologie di educazione tra pari che esamineremo successivamente. Nei paesi anglosassoni questa metodologia si è rivelata molto efficace nel migliorare le relazioni tra “Black and White” e “English and non English”, migliorando la quantità e qualità delle relazioni interetniche (Chiari 2011:15). Il

cooperative learning si basa sull’effettiva interdipendenza dei ruoli, sull’uguaglianza delle

opportunità di successo per tutti in un contesto educativo non competitivo. Questo metodo attiva un processo spontaneo di passaggio di conoscenze, emozioni ed esperienze fra pari della stessa età ma anche fra discenti di età diverse, inoltre attraverso il cooperative

learning viene messo in atto un apprendimento attivo, il cosiddetto “imparare facendo” che

è considerato molto più efficace della tipica lezione frontale in cui lo studente ascolta soltanto la spiegazione degli insegnanti (Wertsch 1985, Weinstein 1986). Per tutte queste

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ragioni è un metodo che può funzionare ed essere anche molto utile all’interno delle scuole italiane, nonostante non sia mai stato preso in considerazione seriamente anche se alcuni studi sono portati avanti nel nostro paese grazie, in particolare, alla ricerca di Comoglio, Chiari e Portera. Secondo la definizione di David e Roger Johnson (1998) il cooperative

learning “is instruction that involves students working in teams to accomplish a common

goal, under conditions that include”:

a. Interdipendenza positiva. I membri del team devono contare gli uni sugli altri per raggiungere l’obiettivo comune, se un solo membro fallisce, tutto il gruppo ne subisce delle conseguenze. Gli studenti si devono sentire responsabili del loro personale apprendimento e dell'apprendimento degli altri membri del gruppo;

b. Responsabilità individuale. Tutti gli studenti del gruppo devono essere considerati responsabili per la loro parte di lavoro;

c. Interazione faccia a faccia. Benché parte del lavoro di gruppo possa essere spartita e svolta individualmente, è necessario che i componenti del gruppo lavorino in modo interattivo, verificando a vicenda la catena del ragionamento, le conclusioni, le difficoltà e fornendosi feedback. In questo modo si ottiene anche un altro vantaggio: gli studenti si insegnano a vicenda;

d. Uso appropriato delle abilità nella collaborazione. Gli studenti nel gruppo vengono incoraggiati e aiutati a sviluppare la fiducia nelle proprie capacità, la leadership, la comunicazione, il prendere delle decisioni e difenderle, la gestione dei conflitti nei rapporti interpersonali;

e. Valutazione del lavoro. Periodicamente gli studenti controllano il loro operato e identificano i cambiamenti necessari per far funzionare meglio il gruppo.

Il cooperative learning non è un semplice sinonimo di lavoro di gruppo, è necessario che siano presenti tutti e cinque questi elementi per definirlo come tale. Questo metodo di insegnamento nasce negli Stati Uniti e riscontra grande successo durante gli anni ’60 del Novecento diffondendosi negli anni successivi anche nei paesi anglosassoni europei. La ricerca nasce dalla considerazione che il rapporto tra adulto e bambino crea un contenuto d’ansia nettamente superiore rispetto a quello con un coetaneo e risulta pertanto meno efficace per una reciproca influenza (Pellai, Rinaldin e Tamborini 2002). Da qui nasce l’utilizzo di questo metodo come modello di riferimento per lo sviluppo di strategie di prevenzione di comportamenti a rischio tra i membri dei gruppi. La peer education pone le sue radici in un processo che nasce spontaneamente tramite il quale i giovani imparano

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diverse cose l’uno dall’altro come parte della loro vita di tutti i giorni (Shiner 1999). A partire dagli anni ’60 e ’70 nei paesi anglosassoni e in particolare negli Stati Uniti, l’educazione tra pari viene utilizzata in ambito sanitario per la realizzazione di progetti di educazione sessuale, di prevenzione HIV e dei consumi di tabacco, alcool e sostanze stupefacenti (Perry, Kelder e Komro 1993). In questi progetti il ruolo degli educatori tra pari è stato quello di fornire un modello prosociale, inoltre questo tipo di educatori sono percepiti come credibili fonti di informazione, soprattutto in aree sentite come altamente significative quali la sessualità e l’uso di droghe. I pari educano i pari migliorando gli esiti educativi perché in possesso del medesimo patrimonio linguistico, valoriale, rituale, a livello microsociale. L’interazione faccia a faccia tra pari è più immediata e avvertita come meno giudicante rispetto ad un adulto. Sono tre i modelli di gestione dell’apprendimento che si contrappongono: competitivo, individualistico e cooperativo (Johnson e Johnson 1979). Il modello cooperativo è stato dimostrato dagli studi dei fratelli Johnson, da Robert Slavin e dai fratelli Sharan, autori fondamentali in questo settore, come quello più efficace e superiore in tutti i campi, cognitivo, sociale e relazionale, rispetto agli altri due che prevedono uno scontro tra gli allievi in quello competitivo e gli allievi rigidamente separati in quello individualistico. Nonostante ciò Robert Slavin in un articolo del 1990 intitolato “Research on Cooperative Learning: Consensus and Controversy” indica alcuni dubbi relativi al cooperative learning sulle condizioni necessarie in base al quale questo approccio sia effettivamente efficace. Slavin introduce l’argomento sostenendo pienamente il cooperative learning come metodo di insegnamento che migliora i risultati scolastici degli studenti, varie ricerche lo dimostrano come quelle dello stesso Slavin (1983, 1989), dei fratelli Johnson (1981) e di Newmann e Thompson (1987); ma ci tiene a precisare che questo avviene solo se “group goals and individual accountability are incorporated in the cooperative methods” (Slavin 1989: 151). Successivamente l’autore passa ad analizzare i punti di controversia tra i vari autori su questo metodo d’insegnamento. Slavin chiarisce che esiste una disputa sulle specifiche condizioni in base alla quale gli effetti positivi vengono riscontrati. Il primo aspetto riguarda l’efficacia del cooperative learning in tutti i livelli scolastici: ci sono ampie ricerche che dimostrano che questo approccio è efficace dalla scuola di infanzia fino alla scuola primaria ma pochi studi si sono soffermati sulla scuola secondaria di primo e secondo grado. Il secondo aspetto riguarda invece l’adeguatezza del cooperative learning per un insegnamento concettuale di ordine superiore. La maggior parte degli studi sul cooperative learning hanno infatti analizzato

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solo le capacità di base anche se alcuni come quelli di Stevens (1978) dimostrano il successo anche nell’insegnamento di ordine superiore come ad esempio la scrittura creativa. L’autore termina l’articolo sostenendo questo metodo di insegnamento, nonostante questi dubbi relativi alla letteratura di riferimento e precisando che quando studenti di un diverso background razziale lavorano insieme verso un obiettivo comune raggiungono unione e rispetto reciproco (Slavin 1990: 53).

2.2 Le teorie psicologiche a sostegno del cooperative learning

Sono varie le teorie psicologiche che sostengono l’efficacia dell’educazione tra pari. La prima è la teoria di Vygotsky sulla creazione di una “zona di sviluppo prossimale” (1980). È solo nel gruppo che il soggetto può usufruire di questa zona prossimale, definita come la distanza tra il livello attuale di sviluppo così come è determinato dal problem solving autonomo e il livello di sviluppo potenziale così come è determinato attraverso il problem

solving sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più capaci (cfr.

Vygotsky 1980: 127). L’autore vede nel soggetto educando la capacità di riconoscere a un altro più esperto la possibilità di fargli sperimentare una distanza dal suo sapere e di creare in questo modo un lavoro complesso di costruzione della conoscenza all’interno del gruppo dei pari. La formazione di una zona di sviluppo prossimale permette il secondo processo chiave della teoria di Vygotsky cioè l’interiorizzazione (1980) che si verifica quando l’ancoraggio ai processi consolidati permette la costruzione di nuova conoscenza e di processi superiori. La teoria di Vygotsky richiama l’idea che l’apprendimento avvenga attraverso un processo che consente di verificare nell’interazione con gli altri la presenza di una zona di sviluppo prossimale che può divenire parte del patrimonio psichico del singolo soggetto.

Un’altra teoria che sostiene la metodologia del peer teaching è legata al modello di mente fornito da H. Gardner chiamato modello delle intelligenze multiple (Gardner 1993). L’autore sostiene che non esiste solo un tipo di intelligenza per spiegare il successo nella vita di una persona. Gardner integra nella sua teoria intelligenze altamente tecniche con intelligenze legate alle competenze della vita (life-skills) per la realizzazione di un pieno dominio della propria vita. L’intelligenza interpersonale rende possibile la comprensione degli altri consentendo la cooperazione e la solidarietà. L’intelligenza intrapersonale invece, permette la formazione di un modello realistico di se stessi che grazie alla conoscenza dei propri limiti e dei punti di forza porterà ad operare efficacemente nella vita. Questa teoria è utile per la definizione della metodologia dell’educazione tra pari perché

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all’adulto non viene riconosciuto il potenziale di intelligenza interpersonale che è invece presente in un gruppo di pari che condivide lo stesso sistema di vita. Negli anni successivi Robert Sternberg (1985, 2000) riprende e completa la teoria delle intelligenze multiple di Gardner. Egli sostiene che in ogni individuo sono presenti tre tipi di intelligenza, quella analitica, creativa e pratica (Sternberg e Spear-Swerling 1997). Secondo l’autore è necessario che ogni essere umano sviluppi tutti e tre i tipi di intelligenza ma questo viene compromesso dalla società di oggi, in particolar modo dal sistema formativo e del lavoro che tende a privilegiare l’intelligenza analitica a scapito delle altre due e rinunciando quindi a un grande numero di soggetti che nonostante abbiano da dare grandi contributi alla società non gliene è data la possibilità.

Una teoria collegata a quella delle intelligenze multiple è quella dell’intelligenza emotiva proposta da Goleman (1995) che considera questo tipo di intelligenza fondamentale perché consente di utilizzare al meglio tutte le nostre abilità. L’intelligenza emotiva rinvia alla conoscenza di sé, all’empatia e alla capacità degli individui di automotivarsi oltre alla capacità di muoversi in maniera efficace nelle relazioni sociali. Un ultimo aspetto psicologico fondamentale per l’educazione tra pari è il concetto di “autoefficacia” proposto da Bandura (1996: 23) che lo descrive come:

la convinzione di avere sotto controllo gli eventi della propria vita e di poter accettare le sfide nel momento in cui esse si presentano. Lo sviluppo di una competenza di qualunque tipo rafforza questa sensazione e aumenta la probabilità che gli individui facciano il miglior uso delle proprie capacità.

Tutti i progetti di educazione tra pari dovrebbero essere orientati verso l’autoefficacia dei soggetti che ne sono coinvolti perché questo permette di assumere istanze progettuali da parte dei ragazzi.

2.2.1 Vantaggi del cooperative learning

Come abbiamo già accennato nei paragrafi precedenti i risultati degli studi condotti sul cooperative learning suggeriscono che questo metodo sviluppa capacità di pensiero di ordine superiore, accresce la motivazione e migliora le relazioni interpersonali (Slavin 1985). Inoltre questo metodo di insegnamento trae vantaggio dalle diverse abilità di ogni studente, permettendo di affrontare il problema delle diversità individuali. Ci sono quattro vantaggi fondamentali nell’uso del cooperative

36 1) Imparare da tutti

Il cooperative learning permette agli studenti di imparare in ambienti dove i loro punti di forza sono riconosciuti e i bisogni individuali sono presi in considerazione. Tutti gli studenti necessitano di imparare con una comunità di supporto in modo da sentirsi abbastanza tranquilli da rischiare.

2) Successo scolastico

Numerosi studi hanno dimostrato la superiorità del cooperative learning rispetto alle classi gestite tradizionalmente per quanto riguarda i risultati scolastici e il piacere di apprendere dato che il pensiero critico è stimolato e gli studenti chiariscono tra di loro le idee attraverso la discussione e il dibattito. In questo modo essi costruiscono le loro stesse conoscenze e non sono più passivi davanti alle spiegazioni dell’insegnante.

3) Comunicazione qualificata

Vari studiosi hanno notato che gli studenti che partecipano ad attività di tipo collaborativo sviluppano abilità comunicative interpersonali migliori rispetto ai loro compagni in classi tradizionali. Infatti sono più attenti ai sentimenti dei loro compagni, lavorano in situazioni multiculturali in maniera migliore e stabiliscono relazioni con compagni di culture differenti anche al di fuori della scuola. In situazioni di conflitto sono più bravi a negoziare e risolvere le problematiche.

4) Benessere psicologico

Gli studenti che lavorano in maniera cooperativa ottengono un benessere psicologico che non raggiungono gli allievi con altri metodi di insegnamento. Questi studenti hanno sentimenti positivi verso sé stessi e Slavin (1990) ha dimostrato che provano sentimenti di controllo individuale verso il loro futuro. Inoltre la cooperazione e l’altruismo sono maggiori.

2.2.2 Il cooperative learning nelle relazioni interetniche

Ci sono molte categorie nel lavoro di squadra che sono completamente assenti nella tipica lezione frontale: innanzitutto la partecipazione dello studente al proprio processo di apprendimento, la partecipazione tra studenti e studente – insegnante; la responsabilità nei confronti di se stessi e degli altri compagni; la riflessione sul proprio ruolo di studente; la condivisione delle proprie idee, valori e informazioni; e infine il prendersi cura degli altri.

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Queste categorie vengono rafforzate grazie a un tipo di lavoro cooperativo il quale permette anche il potenziamento di autostima, altruismo e accettazione dell’altro, del cosiddetto diverso. È proprio qui che entrano in gioco le affermazioni del primo capitolo che vanno a congiungersi con il cooperative learning. Infatti il lavoro collaborativo si presta in particolar modo per l’integrazione degli allievi stranieri nel gruppo classe perché oltre a permettere un miglioramento nel profitto degli studenti stranieri promuove l’accettazione dell’altro e favorisce i contatti interetnici (Chiari 2011: 20). Le ricerche sviluppate dal gruppo di Johns Hopkins di Baltimora, ancora oggi insuperate, dimostrano la superiorità dell’apprendimento di gruppo per il superamento dei pregiudizi razziali in ambito scolastico (cfr. Chiari 2011). Questa superiorità dipende dalla diversa natura del compito accademico, dal ruolo dell’insegnante e dalla compatibilità culturale favorita dal clima cooperativo. È quindi il tutor straniero il miglior modello e il miglior referente culturale dei nuovi allievi immigrati, proprio perché ha provato di recente la stessa esperienza, l’arrivo in un paese straniero di cui non conosce né lingua né cultura. I tutor stranieri sono una risorsa molto importante che possono affiancare lo studente appena arrivato durante il primo periodo di accoglienza e non solo perché possiedono codici linguistici e culturali molto simili oltre a condividere aspetti emotivi ed affettivi. Avendo provato la stessa esperienza possono aiutare il compagno ad affrontare questo momento delicato, spiegandogli l’organizzazione scolastica e aiutandolo ad inserirsi all’interno della classe. Il nostro progetto infatti prevede proprio un lavoro collaborativo tra studenti stranieri per aiutarli sia da un punto di vista scolastico che emotivo attraverso sia la lingua italiana che la lingua madre. La maggior parte delle ricerche che hanno verificato le relazioni razziali nella classe come l’aiuto ai compagni e l’interazione nei gruppi hanno riportato effetti positivi, l’apprendimento in gruppi cooperativi promuove i contatti interetnici. Anche secondo Portera (1997, 2007 e Lamberti 2006) la strategia educativa del

cooperative learning, basandosi sull’insegnamento diretto delle abilità sociali in una

visione di interdipendenza positiva, di cooperazione e di mediazione sociale, può offrire importanti contributi all’educazione interculturale: considera, infatti, la scuola una comunità di apprendimento; riconosce e valorizza le differenze, offrendo ampio spazio alle competenze sociali.

2.3 I vari metodi di cooperative learning

In un articolo uscito nel 1980 sulla Review of Educational Research Shlomo Sharan tenta di valutare e confrontare i risultati di cinque ricerche sperimentali sviluppatesi negli

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anni Ottanta nel contesto scolastico statunitense prendendo in esame i vari modelli di

cooperative learning. I modelli vengono raggruppati secondo due metodi: il primo è il Peer-Tutoring a cui appartengono il modello Jigsaw di E. Aronson, il TGT di D. DeVries e

lo STAD di Robert Slavin. Al secondo metodo, definito Group-Investigation (G-I) appartengono i modelli Learning Together dei fratelli Johnson e il Small-groups Teaching

method dei fratelli Sharan. Lo studioso sottolinea che i risultati delle sperimentazioni

riguardano un’analisi degli aspetti cognitivi e sociali-relazionali dell’apprendimento, cioè sia il profitto scolastico che gli atteggiamenti degli studenti. Il peer-tutoring conserva in realtà molte delle caratteristiche della lezione frontale, l’insegnante presenta la lezione e i materiali da utilizzare e gli studenti lavorano in gruppi ai compiti assegnati. Non è presente però un obiettivo accademico collettivo, infatti il peer-tutoring non mette in atto una cooperazione dei fini tipica dell’apprendimento cooperativo. Per questo Sharan favorisce l’utilizzo del modello G-I che permette una vera collaborazione per il raggiungimento di obiettivi comuni. Gli studenti devono raccogliere informazioni da diverse fonti in collaborazione con i compagni.

Le differenze sostanziali tra i due modelli sono che nel peer-tutoring l’informazione è trasmessa dall’insegnante, mentre nel metodo G-I l’informazione è raccolta dagli studenti; inoltre nel primo metodo la comunicazione tra gli studenti è unilaterale o bilaterale mentre nel secondo modello è multilaterale e mira a un mutuo scambio di idee; nel peer-tutoring vi è cooperazione nei mezzi ma non nei fini mentre nella Group-investigation vi è cooperazione sia nei mezzi che nei fini; infine nel primo metodo la classe funziona come un aggregato di gruppi che non sono impegnati in un compito uniforme, mentre nel secondo la classe funziona con coordinamento fra i gruppi e divisione del lavoro e dei compiti. Sharan sostiene quindi i metodi di Group-investigation spiegando che nonostante richiedano maggior investimento da un punto di vista organizzativo e socio-interattivo poi apportano anche risultati migliori (Sharan, Darom e Lazarowitz 1979).

2.3.1 I modelli di peer-tutoring: Jigsaw, TGT e STAD

Lo studio di Sharan (1980) confronta il lavoro di un gruppo appartenente a una classe

tradizionale e una classe composta da studenti con un diverso background etnico razziale. In questa classe tutti i gruppi di studenti lavorano sugli stessi materiali ma dopo aver ricevuto le informazioni i gruppi, definiti Jigsaw, si separano temporaneamente in base agli allievi che hanno ricevuto lo stesso tipo di documento creando così una sorta di gruppo di esperti in quel settore. Successivamente i gruppi insegnano ciò in cui si sono specializzati

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agli altri gruppi creando così una tecnica motivazionale molto efficace. Lo studio dimostra un significativo vantaggio per gli allievi delle minoranze linguistiche del gruppo sperimentale ma nessun vantaggio né perdita significativa per gli studenti bianchi. I 60 allievi appartenenti alla minoranza etnica ottennero il 56% di risposte corrette nel gruppo sperimentale mentre solo il 49% nelle classi tradizionali. Il modello Jigsaw permette una cooperazione integrativa favorendo la condivisione di interessi, sforzi cognitivi e comunicativi.

Il TGT (Teams, Groups, Tournament) si basa invece su un lavoro di gruppo che dura all’incirca dalle 6 alle 10 settimane basato su un gioco di apprendimento che consiste nel presentare il materiale analizzato precedentemente dall’insegnante. Questo modello si basa sull’ “interdipendenza di ricompense” cioè tanto più gli allievi si aiutano reciprocamente tanto più è probabile che otterranno un punteggio più alto nel gioco (DeVries e Slavin 1978). Il TGT può essere una tecnica veramente efficace, utilizzando la forma del gioco può stimolare fortemente la motivazione negli studenti.

Il modello STAD (Student Teams and Achivement Division) ideato da Slavin propone di incentivare e valutare la responsabilità individuale dell’alunno tramite stimoli e premi che lo spronino ad impegnarsi di più. Ogni allievo è responsabile del successo del proprio

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