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Corpi a lavoro negli uffici virtuali: un caso, delle storie

Nel documento — corpi al lavoro (pagine 114-117)

Il lavoro della conoscenza e gli effetti di smaterializzazione dell’esperienza

4 Corpi a lavoro negli uffici virtuali: un caso, delle storie

L’esperienza del corpo, poco tematizzata, trova la sua completa messa fra parentesi in quelle interviste che insistono molto sull’organizzazione di lavoro online, e sul lavoro a distanza. In questa condizione si crea un tipo di presenza in rete che cancella ulteriormente la percezione della fatica e del proprio corpo come attivatore del lavoro.

Per non parlare in astratto di questo ‘effetto di smaterializzazione’ nelle pagine seguenti mi soffermerò su un caso particolarmente significativo ed esemplare, quello di una giornalista/caporedattrice, che gestisce l’uscita quotidiana della ‘sua’ testata (una testata online) attraverso un complicato lavoro di redazione che si svolge completamente a distanza, in quello che lei stessa chiama «ufficio virtuale»:

In pratica è come se entrassi in un ufficio virtuale. Si entra proprio come se si entrasse in una stanza, tanto che, se non dai il buongiorno quando sei visibile, qualcuno può risentirsi. Ho degli orari, dalle 8 e mezzo alle 2 e mezzo, in questo ufficio virtuale devo stare presente dalle 9 e mezzo alle 2 e mezzo o comunque fino a quando finisce il lavoro della redazione. Quindi queste quattro ore devo starci (intervista a C.).

In questo ufficio virtuale, secondo l’intervista della caporedattrice, si lavo-ra con una concentlavo-razione tale – dovuta soplavo-rattutto al fatto di occuparsi di più cose e più persone contemporaneamente – da dimenticarsi la propria collocazione nello spazio:

Quando lavoro non me ne accorgo di essere a casa, ho ritmi molto fre-netici. A livello mentale è devastante, il lavoro che devo fare io, che in pratica è quello di gestire (perché il direttore finisce che fa il lavoro di pubbliche relazioni, se ne va in giro ecc. oppure controlla la questio-ne delle finanze, i redattori fanno il loro lavoro quotidiano…) è come una specie di catena di montaggio con i collaboratori che scrivono i loro pezzi, io devo tenere insieme tutto e lo devo fare da casa, quindi l’intensità del lavoro del mio cervello è molto superiore a quella che ci sarebbe… cioè se io facessi il mio lavoro in presenza quattro ore non basterebbero mai, lo farei con molto più tempo, quello che faccio io così, in quattro ore, una persona che lavorasse in presenza lo farebbe in 6-8 ore (intervista a C.).

Il primo dato che è interessante segnalare, molto evidente, è questa per-dita di percezione di sé nello spazio, portata dalla concentrazione sulle cose da fare e i «ritmi […] frenetici». Sollecitata su questo è la stessa intervistata a metterlo in parola:

Sì, non sento l’ambiente in cui sto, sono proiettata… Quando cerco di descrivermi o descriverti com’è fatto il mio ufficio potrei dirti che il mio ufficio è a metà fra quella chat e la stanza dove sto, non è nessuna delle due cose solamente, è un incrocio fra queste due dimensioni (intervista a C.). Questa confusione fra reale e virtuale porta nel linguaggio l’apparire di alcune figure che raccontano l’esperienza di esserci a metà, di

rimane-re «con la testa dentro un computer» o di esserimane-re «un cervello e basta» (intervista a C). L’uso intenso delle nuove tecnologie e un’organizzazione frenetica sembrano i due fattori maggiormente in grado di far perdere le categorie spazio-temporali all’esperienza del lavoro, rendendo centrale (e insopportabile) il rapporto con il computer a cui le intervistate finiscono per sentirsi legate come in un film di fantascienza.

È l’esperienza del cyborg (cfr. Haraway 1995), un corpo che si prolunga in una protesi tecnologica che diventa difficile da portare e che sbilancia completamente l’esperienza del sé verso le funzioni del cervello. Il corpo gestito in uno spazio per metà virtuale nella particolare condizione di chi lavora da casa è anche un corpo non visto dagli altri. Lavorare quotidia-namente attraverso una chat, porta nella strana – ma ormai quotidiana e familiare – situazione di condividere intensamente il lavoro a distanza, una intensità che comporta scambio, relazione, condivisione, e una totale invisibilità fisica: «e c’è in mezzo pure il fatto che sono molto presente mentalmente ma fisicamente posso essere lì con la tazza di caffè e latte oppure con il pigiama» (intervista a C.).

La ‘sparizione’ del corpo in questa particolare condizione del lavoro è con-nessa anche alla particolare commistione fra lavoro e spazio domestico, ma anche alla più generale difficoltà di gestire emotivamente il lavoro a distanza. C’è qualcosa di irrisolto nelle mediazioni che le tecnologie costru-iscono nelle relazioni di lavoro e nelle intervista alla caporedattrice questa cosa è detta con precisione. Il sé che passa attraverso la comunicazione a distanza è un ‘sé incompleto’ un soggetto senza corpo e senza emozioni, un soggetto a due dimensioni, ridotto a un’essenzialità faticosa:

Più che altro ha a che fare con il sentirsi vivo, certe volte a distanza succede anche che uno sta male o fisicamente o psicologicamente ma il lavoro va avanti lo stesso perché gli altri non lo vedono, non se ne rendono conto, anche se glielo dici rimane una comunicazione… Oppure quando ti assenti… Non rimane un posto fisico vuoto… Certo se sei in-sostituibile a livello di mansioni il peso lo crei, però è un vuoto che lasci di organizzazione, non è un vuoto che lasci emotivo e invece dal vivo era così, dalla scelta dei vestiti… Ora magari questa è una cosa stupida, però insomma vedevi la collega e dicevi «ah, carina questa giacca… Queste scarpe…» cavolate che però a distanza scompaiono… Tutto viene ridotto all’essenziale quindi il rischio è quello di ridursi un po’ a un cervello in una vasca… Il rischio c’è (intervista a C.).

Nel documento — corpi al lavoro (pagine 114-117)